Una risposta a Pianogrande: quando il parlamento scozzese approvò l'unione con l'Inghilterra, ci furono esplosioni di rabbia popolare in Scozia e un forte malessere. Poi prevalsero valutazioni sulla "convenienza" e se ne fecero una ragione.
La differenza con Catalogna e Nord Italia sta nel fatto che lo stato centrale in UK ha avuto il coraggio di indire un referendum locale che avrà valore e sarà riconosciuto legalmente. Ciò non è possibile per la Costituzione italiana ed è comunque fortemente osteggiato dal governo centrale spagnolo (non so se sia ammissibile legalmente).
E' evidente che se non siamo capaci di modificare la nostra Carta in senso federalista, tantomeno lo saremo a favore di un pronunciamento referendario locale su questioni inerenti la secessione.
In Spagna invece temono l'effetto domino (Catalogna prima, Paesi Baschi dopo) che porti il governo centrale ad un estrema debolezza in Europa, rappresentando una nazione con una popolazione sempre più bassa (e quindi con meno eletti all'europarlamento).
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Scozia, il deputato italo-scozzese Biagi: “Vogliamo decidere da soli il nostro futuro”
Nelle strade di Edimburgo e di Glasgow lo si percepisce chiaramente: la rivolta, prima che territoriale, è sociale ed economica. Marco Biagi, politico di origini italiane, membro dello Scottish National Party, deputato e leader della "Yes Campaign": “Voglio che decisioni su sistema sanitario, pensioni e scuola siano prese qui”. Gli slogan: deindustrializzazione e socialismo, welfare scandinavo con tasse statunitensi, no alla Nato, alle armi e all'energia nucleare, sì all'Ue
di Lorenzo Galeazzi | 17 settembre 2014
Niente a che vedere con la Padania e lo scalcinato mito secessionista della Lega Nord. L’idea di Scozia indipendente del fronte di Alex Salmond, leader dello Scottish National Party, è molto più simile a quella delle regioni rosse dello Stivale. E la rivolta, prima che territoriale è sociale ed economica. Altro che “padroni a casa nostra”. Se al referendum vinceranno i Sì, lontano da Westminster il nuovo Stato sarà “più equo, democratico e ricco”, assicura il prime minister, che spiega: “Siamo la nazione di Adam Smith, padre e filosofo dell’economia. Con l’indipendenza costruiremo un Paese più prospero e giusto. Che redistribuisce le ricchezze prodotte al suo popolo”.
Lontani anni luce dagli spadoni di Braveheart tanto cari al Carroccio, gli indipendentisti preferiscono affidarsi a Sweet dreams di Annie Lennox, il brano della storica voce degli Eurythmics che accompagna tutte le loro manifestazioni. “Utopia for the Yes”, scandiscono assieme alle parole d’ordine: deindustrializzazione e socialismo, welfare scandinavo con tasse statunitensi, no alla Nato, alle armi e all’energia nucleare, sì all’Unione Europea, no alle politiche anti-immigrazione di Downing street. Sono giovani, il 60 per cento degli under 40 è schierato per il Sì, e, in buona misura, odiano gli inglesi. Londra non è “ladrona”, ma di destra, antiscozzese, ultraliberista e fastidiosamente borghese. In una parola: tory.
Gli indipendentisti sono così convinti delle loro idee da fare spallucce agli appelli del premier britannico David Cameron: “Io prima o poi me ne andrò, ma se andate via voi sarà per sempre”. E le solenni promesse di “poteri senza precedenti nei settori dell’energia e dello stato sociale” a Edimburgo diventano “piccoli cambiamenti”, come spiega Marco Biagi, politico di origini italiane, membro Snp al parlamentino di Edimburgo e leader della Yes campaign. Il suo programma non lascia spazio a dubbi: “Voglio la matematica certezza che decisioni sul sistema sanitario, sulle pensioni e sulla scuola siano prese dalla Scozia per gli scozzesi”.
Una sicurezza che deriva dalla convinzione di avere già vinto, anche se, alla fine, nelle urne prevarranno i No. Perché c’è da dire che le concessioni del Regno Unito sono significative: autonomia in materia di spesa pubblica e fisco, rimesse dello “Scotland oil”, il petrolio estratto offshore nel mare del Nord, sanità e istruzione gratuite se e senza ma. Negli equilibri di Westminster, gli highlander diventeranno determinanti anche in politica estera: stop all’atlantismo interventista al fianco degli Usa e via libera a un rapporto più stretto con Bruxelles.
Oltre che contro Londra, il voto di giovedì rischia di trasformarsi in una vera e propria rivolta anti-Labour, il partito di centrosinistra attivamente schierato coi conservatori nel raggruppamento “Better togheter”. “I socialdemocratici hanno abbandonato i loro ideali, così noi abbiamo abbandonato loro”, fanno sapere dall’headquarter dello Snp. “Qui di laburisti non ne vediamo da tempo, ci sono red tories e i blue tories”, incalza Michelle Thomson, leader di Business for Scotland, un cartello che raggruppa 2600 imprenditori nazionalisti. E tory a queste latitudini è sinonimo di inglese: causa di tutti i mali che affliggono il Paese, a partire dalle diseguaglianze sociali, vera spina nel fianco del progetto di società armoniosa di Salmond e della coalizione per il Sì. “Siamo progressisti e peroriamo la giustizia sociale che Londra ci nega. Il sale della democrazia è avere un governo che hai scelto”, scandisce ancora Biagi.
Nonostante la Scozia sia al 14° posto nella lista dei paesi più ricchi, deve fare i conti al suo interno con sacche di povertà da terzo mondo. Per capirlo basta farsi un giro nelle periferie di Glasgow, un tempo la seconda città più importante dell’Impero britannico: sul fiume Clyde l’aspettativa di vita è di 72 anni per gli uomini e 78 per le donne, una delle più basse in Ue. Per le strade, in mezzo alla desolazione e alla sporcizia, rimangono solo le tracce dell’ex industria pesante e dei cantieri navali che resero celebre la città.
Ma dal fronte per il sì assicurano: “Con l’indipendenza, grazie alle rimesse dell’estrazione del greggio, alle esportazioni di whisky e di pesce e allo sviluppo dell’ingegneria, le politiche figlie di Margareth Tatcher, che hanno condannato un intero popolo costringendolo al declino, saranno solo un ricordo”.
Il 9 settembre, per la prima volta nelle intenzioni di voto, i Sì hanno prevalso, seppur di poco, sui No. Così, l’ondata che dopo 307 anni rischia di travolgere la più importante unione nazionale della storia pare essere a un passo dalla vittoria. A chi distribuisce volantini in strada con scritto “Better togheter”, i simpatizzanti del fronte indipendentista rispondono: “Meglio insieme? Sì, con mia moglie, non con Londra”.