Diritto internazionale
Intervento in Libia, cosa è permesso e cosa noNatalino Ronzitti
20/03/2011
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http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=1699La risoluzione 1973 (2011) del Consiglio di sicurezza (Cds) delle Nazioni Unite ha posto fine alle discussioni circa la legittimità di un intervento armato per motivi umanitari senza l’autorizzazione dell'Onu. Si è fatto un gran parlare della “responsabilità di proteggere” la popolazione civile, dimenticando che si tratta solo di un dovere dello stato, che non può maltrattare i propri cittadini.
Ma tale dovere non autorizza i membri della comunità internazionale ad intervenire senza una chiara determinazione del Cds. L’azione militare, che è stata intrapresa da una “coalizione dei volenterosi” (coalition of the willing), deve peraltro essere mantenuta nei limiti consentiti dalla risoluzione 1973, altrimenti diventa illegittima.
Ambiguità della risoluzione
Il contenuto e i limiti dell’azione bellica sono indicati dalla risoluzione, non senza qualche ambiguità. I paragrafi decisivi sono il 4, l’8 e il 13.
Il paragrafo 4 autorizza i membri delle Nazioni Unite a prendere, singolarmente o nel quadro di un’organizzazione o accordo regionale, “tutte le misure necessarie” per proteggere i civili e le aree popolate sotto minaccia di attacco.
Il linguaggio, già adoperato in altre occasioni, autorizza l’uso della forza, ma esclude “l’occupazione sotto qualsiasi forma” di qualsiasi parte del territorio libico. Qui sta il primo elemento di ambiguità. Non si capisce bene se il termine occupazione sia usato in senso tecnico-giuridico, escluda cioè la sola permanenza prolungata ed effettiva di eserciti stranieri sul suolo libico, ma consenta una presenza più limitata, ad esempio per salvare un pilota di un aereo caduto o, ciò che è più importante, una scorta a un convoglio umanitario per portare soccorso alla popolazione civile.
Il paragrafo 8 autorizza l’istituzione di una no-fly zone sullo spazio aereo libico. Tutti i voli sono banditi, tranne ovviamente quelli della coalizione dei volenterosi e i voli i di natura umanitaria o volti all’evacuazione di cittadini stranieri. Anche in questo caso i membri della comunità internazionale sono autorizzati a prendere “tutte le misure necessarie” per raggiungere tale obiettivo.
Il paragrafo 13 obbliga gli stati a ispezionare navi e aeromobili nei propri porti e aeroporti allo scopo di verificare se venga rispettato l’embargo di armi nei confronti della Libia. Sono autorizzate anche misure ispettive in alto mare di navi battenti bandiera altrui. Non è chiaro se siano lecite misure nei confronti di aeromobili che sorvolano lo spazio aereo internazionale e se questi possano essere intercettati. Il par. 13 della risoluzione non parla neppure di blocco navale, ma questo può essere concepito come strumentale al perseguimento dell’obiettivo di proteggere la popolazione civile stabilito dal par. 4.
La risoluzione 1973 non stabilisce un termine finale per l’azione armata. Il Cds, com’è detto nell’ultimo paragrafo, tiene la situazione sotto esame e può decidere la fine delle misure autorizzate, ma anche il loro inasprimento (al limite un’invasione di terra). Tutto dipende dal comportamento delle autorità libiche e in particolare dalla loro accettazione effettiva della richiesta di cessate il fuoco e dalla cessazione immediata delle ostilità contro la popolazione civile. La risoluzione ha meri intenti umanitari e non ha per scopo un cambiamento di regime.
Gli eventi suggeriscono però una diversa lettura.
Prese di distanza
I 22 partecipanti che si sono riuniti il 19 scorso a Parigi sotto la presidenza di Sarkozy hanno prodotto un documento finale in cui hanno affermato il loro “prolungato” impegno nei confronti della Libia, accompagnato da un forte sostegno al Consiglio nazionale libico, cioè ai ribelli di Bengasi, che la Francia aveva già riconosciuto come il legittimo rappresentante del popolo libico, dando avvio all’apertura di relazioni diplomatiche.
L’azione militare ha già provocato le prime crepe tra i membri del Cds. Russia e Cina hanno trovato eccessivo l’uso della forza. Essi fanno parte del gruppo dei cinque membri del Cds, che si sono astenuti sulla Risoluzione 1973. Tra questi anche il Brasile, che ha contestato il par. 4 della risoluzione, sostenendo che l’azione bellica potrebbe provocare più danni che una reale protezione della popolazione civile.
La Germania, altro membro che si è astenuto, ha affermato in seno al Cds che l’uso della forza comporta gravi rischi, con la possibile perdita di una grande quantità di vite umane.
I soli bombardamenti aerei non sono sempre risolutivi e spesso richiedono di essere prolungati per un lungo arco di tempo per produrre gli effetti politici desiderati. Quelli contro la Serbia durarono circa tre mesi (24 marzo-20 giugno) prima che Slobodan Milosevic decidesse di ritirare le forze serbe dal Kosovo.
Regole da rispettare
Il conflitto libico è stato finora un conflitto armato non internazionale (forze governative-insorti), che implica il rispetto del diritto internazionale umanitario nella repressione dell’insurrezione. Diritto che il governo libico ha trasgredito, stando alle fonti Onu. Il conflitto tra la coalizione dei volenterosi e il governo costituito è un conflitto armato internazionale, che a sua volta comporta l’osservanza di numerose regole non solo da parte del governo libico, ma anche della coalizione.
La disciplina delle operazioni aeree dirette contro obiettivi a terra è contenuta nel I Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 1949. Le relative regole sono rispettate dagli Stati Uniti a titolo di consuetudine, non avendo essi ratificato il I Protocollo, che impegna invece gli altri partecipanti ai raid aerei. Quantunque la violenza bellica debba essere diretta solo contro obiettivi militari, sono inevitabili le vittime civili, specialmente quando l’obiettivo è collocato in aree densamente popolate. Esistono dei principi da rispettare allo scopo di evitare danni collaterali eccessivi.
Potrebbe porsi in particolare il problema degli scudi umani volontari, cioè di quelle persone che hanno dichiarato di posizionarsi intorno agli obiettivi militari per evitare che questi ultimi siano colpiti. Una tale condotta deve essere qualificata come partecipazione diretta alle ostilità, con la conseguenza che l’obiettivo militare non è immune e gli scudi sono esposti al rischio delle ostilità.
Ruolo e responsabilità dell'Italia
Qualche parola infine sulla posizione italiana. Fin dall’inizio della crisi l’Italia ha mancato di iniziativa e rischia di perdere la posizione privilegiata che aveva, qualunque sia l’esito del conflitto in corso. Detto in chiaro, non è stato fatto uso dell’influenza nei confronti di Gheddafi per consigliargli una toeletta istituzionale del regime, che forse avrebbe impedito il precipitarsi della situazione. Tanto più che nessuno conosce i quarti di democraticità dei ribelli di Bengasi e il loro tasso rivoluzionario. Inoltre taluni dei capi della ribellione non sono scevri da passate contiguità con il Colonnello.
Resta il problema del Trattato del 2008 e la clausola che obbliga a non concedere il proprio territorio per atti ostili conto la Libia. Il Trattato impedisce di concedere l’uso delle basi per i raid contro la Libia? Il divieto, come ho già detto più volte, è facilmente superabile, sia perché è qualificato dal rispetto della legalità internazionale che Tripoli ha infranto, sia perché l’uso della forza autorizzato dal Cds per fini umanitari non può essere considerato un “atto ostile”.
Ma quale la sorte del Trattato? In linea di principio esso dovrebbe vincolare un nuovo governo che si insediasse al posto di quello del Colonnello. Ma la dinamica degli eventi sta ponendo fine alle diatribe, in verità poco fondate sotto il profilo giuridico, sulla permanenza in vigore del Trattato. La guerra - in questo caso il conflitto armato - è una causa di estinzione dei trattati di natura politica, quale un trattato di amicizia, e ciascuna delle parti potrebbe sempre sostenere che il Trattato del 2008 si è estinto una volta acclarata la partecipazione italiana al conflitto.
La concessione di basi per i raid aerei non è un atto indifferente sotto il profilo giuridico. L’Italia dovrebbe assicurarsi che gli alleati si comportino nei limiti dell’autorizzazione concessa dalla risoluzione 1973 e conformemente al diritto umanitario. Altrimenti ne sarebbe responsabile: la questione venne in considerazione, in particolare, durante la guerra del Kosovo per gli aerei alleati in partenza dalla base di Aviano.
Ovviamente la partecipazione italiana alla coalizione dei volenterosi solleva anche problemi di natura parlamentare-costituzionale. Le commissioni esteri e difesa di Camera e Senato hanno già espresso il loro assenso all’intervento italiano alla missione sia con la concessioni di basi sia con un ruolo più attivo. Alla partecipazione italiana non è d’ostacolo l’art. 11 della Costituzione e il ripudio della guerra ivi contenuto: lo ha già ribadito il Capo dello Stato. Ma sul punto ci riserviamo di intervenire successivamente.
Natalino Ronzitti è professore di Diritto Internazionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Luiss ''Guido Carli'' di Roma e consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali.