da mariok il 06/03/2016, 10:51
Negli ultimi due articoli, il primo postato da me e pubblicato (non a caso) dall'Avvenire, il secondo postato (non a caso) da franz, si fronteggiano due ideologie. La prima è quella dello stato etico, che tiene sotto tutela i cittadini stabilendo per loro (in questo caso le donne) ciò che è bene o è male, la seconda è quella del diritto incondizionato di ogni individuo di soddisfare un proprio bisogno (qualunque esso sia) e della assoluta libertà del mercato.
In entrambi è completamente assente il terzo soggetto coinvolto in questa storia "dell'utero in affitto" o "della maternità surrogata" o comunque vogliamo chiamarla: ed è l'individuo che viene (non per sua scelta) al mondo.
Dei danni o dei rischi (più o meno documentati) che possono derivargli abbiamo già parlato e non credo ci sia molto altro da dire.
Ciò che credo sia il caso di aggiungere è che certamente tra i tre individui coinvolti, è quello più debole ed impossibilitato ad esprimere autonomamente la sua volontà ed i suoi bisogni, fatto che rende necessaria l'entrata in scena di un quarto soggetto: un tutore (nella fattispecie, un giudice nella funzione tutelare) che ne rappresenti e ne curi gli interessi.
Una volta quindi che, per un qualunque motivo, ci si trovi di fronte al caso in cui non sussistano le condizioni che consentano al il neo-nato di vivere e crescere in sicurezza con i genitori naturali, occorre che intervenga un giudice che individui la migliore soluzione nel suo interesse, che non può essere "automaticamente" o di diritto quella dell'affidamento al "proprietario" del gamete (maschile o femminile) che ha dato luogo alla nuova vita, né tanto meno al suo partner etero o omosessuale che sia.
Penso (o almeno spero) che siamo tutti d'accordo sul fatto che il diritto alla proprietà non si estenda anche al rapporto genitore/figlio.
Già questo (il fatto che non sia automatica l'assegnazione della patria potestà al padre o alla madre biologica) taglierebbe la testa al toro e ridimensionerebbe drasticamente il fenomeno. Il pagamento di una somma per "l'affitto" di un utero, sarebbe come pagare per la costruzione di una casa, senza avere la certezza che essa, una volta costruita, sarà nella propria disponibilità. Vorrei vedere in quanti sarebbero disposti a correre un tale rischio.
Resta poi la questione, secondaria, del rapporto tra "il locatario" ed il "locatore" (in questo caso locatrice) dell'utero.
E' stato giustamente osservato che si tratta di una "transazione" molto simile alla prostituzione: una donna concede ad un terzo l'uso del suo corpo (o di una sua parte) in cambio di una controprestazione in denaro o di una'altra qualsiasi utilità.
Non c'è dubbio che, posta in questi termini la questione, i sostenitori del libero mercato hanno gioco facile a stigmatizzare ogni forma di proibizionismo in nome della laicità dello stato.
Tuttavia, richiamandoci all'esempio della prostituzione, non sempre una transazione commerciale di tale natura può essere lecita e consentita: non lo è per esempio il caso della prostituzione minorile, che è un reato. Vale cioè il principio che tutto è consentito se è garantita la stessa libertà di scelta ad entrambi i contraenti.
Occorre quindi che lo stato (di diritto), attraverso la giurisdizione, si faccia carico di verificare se nel rapporto non vi siano elementi di costrizione fisica, psicologica o economica, non escludendo quindi, ove ne ricorrano gli estremi, la condanna della parte dominante al risarcimento del danno, non escluso, anche eventualmente, quello di provvedere al sostentamento della madre che avesse successivamente espresso la volontà tenere con sé il proprio figlio (sempre, ovviamente, che ciò corrisponda all'interesse del bambino).
Sarebbe questo un secondo rischio che penso scoraggerebbe drasticamente il ricorso a tali pratiche, in modo "laico", senza tentazioni da stato etico e senza furori ideologici.
« Dopo aver studiato moltissimo il Corano, la convinzione a cui sono pervenuto è che nel complesso vi siano state nel mondo poche religioni altrettanto letali per l'uomo di quella di Maometto» Alexis de Tocqueville