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Un referendum di cui non si parla

Discussioni e proposte, prospettive e strategie per il Paese

Re: Un referendum di cui non si parla

Messaggioda franz il 10/04/2016, 20:58

gabriele ha scritto:MI è bastata una veloce ricerca su google per capire che di sversamenti in mare invece ne sono, com'è ovvio pensare che sia:

http://www.abruzzolive.tv/Sversamento_p ... _3888.html

http://www.lettera43.it/ambiente/isole- ... 580824.htm

Oltre alla rapida ricerca su google bisognerebbe esaminare il testo trovato e cercare di capire da esso se la fonte degli sversamenti è legata alle "trivelle" o alle petroliere di passaggio. La cosa non è di poco conto perché se fermate le trivelle vicine, finirà che alla fine aumenterà l'import da località lontane (putin ringrazia) e quindi il rischio di sversamenti. Considerato che il gas non crea macchie oleose, è implicito che in ogni caso di avvistameti di macchie ogni piattaforma vicina viene fermata, proprio per poter constatare di non essere coinvolta direttamente. Seguono indagini ed è quelle che poi fanno la storia, in un mondo che non sia quello di Peter Pan.
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Re: Un referendum di cui non si parla

Messaggioda mariok il 11/04/2016, 9:44

Questo, riportato in basso, di quale mondo fa parte?

Certo le probabilità sono molto basse, ma non pari a zero. E le conseguenze di un incidente del genere nel mediterraneo, a pochi kilometri dalla costa o da qualche area protetta, qualcuno le ha valutate?

Da letteratura, la definizione di rischio è espressa dalla formula:
R = P × Vu × Val
dove
P è la pericolosità dell'evento in analisi, ovvero la probabilità che un fenomeno accada in un determinato spazio con un determinato tempo di ritorno;
Vu è la vulnerabilità, ovvero l'attitudine di un determinato elemento a sopportare gli effetti legati al fenomeno pericoloso (ad esempio nel caso di rischio sismico la capacità di un edificio a resistere all'effetto dello scuotimento);
Val è il valore che l'elemento esposto al pericolo assume in termini di vite umane, economici, artistici, culturali o altro.

Non dipende, quindi, solo dalla probabilità che un evento accada, ma anche dal valore di esso in termini di vite umane, economici ecc. e dalla attitudine a sopportarne gli effetti.

Quale sarebbe, per esempio, la capacità del nostro sistema giudiziario (con le sue lentezze e le sue prescrizioni) di ottenere risarcimenti di tale portata, mai ottenuti nella nostra storia, in cui pure non sono mancati eventi drammatici?

Posto che qualcuno abbia valutato correttamente i suddetti valori in un contesto come il nostro, il problema da porsi correttamente è: il gioco vale la candela? cioè: i vantaggi indotti da tali attività davanti alle nostre coste, sono superiori al rischio calcolato?

Tutto il resto, sono chiacchiere per lo più di parte.

Si è chiuso ieri il processo a New Orleans
Sentenza definitiva per il disastro ambientale della BP

Patteggiamento da 20 miliardi nel processo per il disastro ambientale causato dalla piattaforma BP nel Golfo del Messico il 20 aprile 2010

Si è chiuso ieri a New Orleans il processo alla British Petroleum (BP), responsabile del disastro ambientale del 2010 nel Golfo del Messico. La sentenza definitiva certifica il patteggiamento da 20 miliardi di dollari che l’azienda britannica verserà per riparare ai danni ecologici causati dalla marea nera provocata dalla fuoriuscita di petrolio in seguito all’esplosione della piattaforma Deepwater Horizon. Dei 20 miliardi di risarcimenti, 5,5 serviranno a pagare la multa per violazione del Clean Water Act, mentre il resto andrà a sovvenzionare le perdite di 5 Stati del Golfo colpiti dal disastro.
Si tratta del patteggiamento più costoso della storia statunitense: il denaro sarà versato nel corso di 16 anni.
La catastrofe uccise 11 lavoratori, ferendone 17 e causò la fuoriuscita di 500 milioni di litri di petrolio in mare. La sera del 20 aprile del 2010, tutto iniziò con una fuga di gas all’interno del pozzo che la trivella stava perforando. La piattaforma sorgeva a 80 km dalla costa sud-est della Louisiana: dopo il boato si inabissò, riversando circa 5 milioni di barili di petrolio nelle acque del Golfo per 87 giorni. Centinaia chilometri di costa vennero imbrattati di nero, con gravissimi danni per la vita marina, gli uccelli e le barriere coralline.
Nell’ultimo anno, BP ha riportato una perdita di 6,5 miliardi di dollari, la peggiore della sua storia. La società ha inoltre annunciato, lo scorso febbraio, che taglierà 7 mila posti di lavoro. Bob Dudley, amministratore delegato della società, ha guadagnato quasi 20 milioni di dollari nel 2015, il 20% in più rispetto all’anno precedente, nonostante le perdite dell’azienda e i licenziamenti.
Il petrolio non si è fermato solo sulle coste statunitensi, ma ha raggiunto anche quelle messicane. Ecco perché i problemi per la BP non sono finiti: ora dovrà affrontare gli esiti di alcune cause presso il Tribunale federale di Città del Messico, intentate a dicembre 2015 da una ONG, la Acciones Colectivas de Sinaloa. Gli avvocati specializzati in diritto dell’ambiente che compongono l’organizzazione, hanno deciso di muoversi in autonomia dopo che, a 5 anni dal disastro ambientale, il governo messicano non aveva intrapreso alcuna azione legale. Entro la fine di quest’anno la Sinaloa si attende un verdetto.
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Re: Un referendum di cui non si parla

Messaggioda flaviomob il 12/04/2016, 1:00

La svolta spettacolare dell'Uruguay: il 95% del suo fabbisogno di elettricità dalle rinnovabili
In meno di dieci anni il paese ha drasticamente ridotto la propria impronta di carbonio e ha ridotto i costi dell'elettricità, senza ricorrere ai sussidi governativi

di JONATHAN WATTS (The Guardian)
11 dicembre 2015

MONTEVIDEO - Mentre il mondo intero è riunito a Parigi per l'immane compito di passare dai combustibili fossili alle energie rinnovabili, un piccolo paese sull'altra sponda dell'Atlantico sta facendo sembrare questa transizione uno scherzo da ragazzi che tutti si possono permettere.

In meno di dieci anni, l'Uruguay ha tagliato drasticamente la propria impronta di carbonio senza sussidi governativi o più alti costi imposti ai consumatori. Lo ha detto il direttore nazionale dell'energia, Ramón Méndez aggiungendo che ormai le rinnovabili soddisfano il 94,5% del fabbisogno elettrico del paese e che i prezzi si sono abbassati rispetto al passato e all'inflazione. In Uruguay si verificano oltretutto pochi black-out, perché un mix energetico differenziato implica maggiore resilienza alla siccità.

Appena quindici anni fa le cose erano molto diverse: all'inizio del secolo il petrolio rappresentava il 27% delle importazioni dell'Uruguay e un nuovo oleodotto da lì a poco avrebbe iniziato a portarvi il gas dall'Argentina. Oggi la spesa che più incide sui bilanci delle importazioni è quella per le turbine eoliche, che prima di essere spedite e installate in loco riempiono i porti del paese.


Anche l'uso dell'energia solare e di quella da biomasse è notevolmente aumentato, andandosi ad aggiungere alle infrastrutture per l'energia idroelettrica esistenti. Ciò significa che oggi le rinnovabili rappresentano il 55% del mix energetico complessivo che alimenta il paese (compreso il combustibile per i trasporti), rispetto a una media globale del 12.

Malgrado la sua popolazione relativamente esigua, appena 3,4 milioni di abitanti, l'Uruguay si è guadagnato la sua bella fetta di gloria globale negli ultimi anni: ha varato e fatto rispettare una legge molto innovativa sulla marijuana, è stata pioniera nel controllo più severo dell'uso del tabacco, e ha introdotto alcune delle politiche più liberali in America Latina per ciò che concerne l'aborto e il matrimonio tra individui dello stesso sesso.

Adesso, dunque, conquista gli onori della cronaca anche per un notevole progresso e per aver decarbonizzato la propria economia. La Banca Mondiale, la Commissione economica dell'America Latina e dei Caraibi, e il Wwf l'anno scorso hanno incluso l'Uruguay nell'elenco dei "Green Energy Leader", proclamando: "Il paese sta dando la propria impronta alle tendenze globali di investimento nelle energie rinnovabili".

Per consolidare questa reputazione, Méndez - responsabile anche delle politiche climatiche - si è recato al summit delle Nazioni Unite di Parigi con una delle promesse nazionali più ambiziose al mondo: tagliare le emissioni di anidride carbonica dell'88% rispetto alla media del periodo 2009-2013 entro il 2017.

Per rispettare questa promessa, non ci sono miracoli tecnologici ai quali ricorrere, nessun uso di energia nucleare, nessuna nuova centrale idroelettrica costruita negli ultimi vent'anni. Al contrario, dice Méndez, la chiave del successo è abbastanza banale ma replicabile in maniera incoraggiante: sono sufficienti infatti un chiaro processo decisionale, un clima normativo favorevole, una forte partnership tra settore pubblico e settore privato.

Di conseguenza, negli ultimi cinque anni in Uruguay gli investimenti energetici - per lo più nelle rinnovabili, ma anche nel gas liquido - sono cresciuti enormemente, arrivando a sette miliardi di dollari, pari al 15% del Pil annuo del paese. Si tratta del quintuplo della media dell'America Latina e del triplo della percentuale globale raccomandata dall'economista climatico Nicholas Stern. "In effetti, abbiamo imparato che le rinnovabili sono soltanto un business finanziario", ha detto Méndez. "Le spese di costruzione e di manutenzione sono basse, purché si offra agli investitori un clima sicuro. E così investire diventa molto interessante".

I risultati di tutto questo impegno sono evidenti sulla Route 5 che da Montevideo va verso nord. In meno di 321 chilometri si incontrano tre impianti agroindustriali alimentati a biocombustibile e tre centrali eoliche. La più grande di esse è la centrale di Peralta da 115 MW, amministrata dalla società tedesca Enercon. Le sue grandi turbine - ciascuna delle quali è alta 108 metri - sovrastano pascoli pieni di mucche e struzzi d'allevamento.

Oltre all'affidabilità del vento - che soffia a una media di dodici chilometri l'ora -, l'attrazione più interessante per gli investitori stranieri come Enercon è il prezzo fisso garantito per 20 anni dalla società di servizio energetica statale. Poiché anche le spese di manutenzione degli impianti sono basse (bastano 10 impiegati) e stabili, i profitti sono garantiti.

Di conseguenza, le società straniere stanno facendo la fila per assicurarsi contratti per le centrali eoliche. La concorrenza sta facendo abbassare notevolmente i prezzi degli appalti, tagliando ancor più le spese, scese ormai di oltre il 30% negli ultimi tre anni. Christian Schaefer, supervisore tecnico di Enercon, dice che la sua azienda sperava di espandersi e un'altra società tedesca, Nordex, sta già realizzando un impianto ancora più grande un po' più a nord lungo la Route 5. Ormai è diventato del tutto normale lungo le strade di campagna del paese avvistare enormi camion che trasportano turbine, supporti e pale eoliche.

Al confronto con la maggior parte di altri piccoli paesi al mondo con alte percentuali di rinnovabili, il mix scelto in Uruguay è diverso: mentre Paraguay, Bhutan e Lesotho fanno affidamento quasi esclusivamente sull'idroelettrico, e l'Islanda sul geotermico, l'Uruguay ha un assortimento che rende il paese più resiliente a cambiamenti che dovessero subentrare nel suo clima.

Le centrali eoliche come Peralta adesso alimentano centrali idroelettriche così che le dighe possano mantenere le loro riserve più a lungo dopo le stagioni piovose. Secondo Méndez, questa decisione ha ridotto del 70% i rischi legati alla siccità - non poco, tenuto conto che di solito un anno particolarmente secco poteva costare al paese quasi il 2% del suo Pil.

Ma questo non è l'unico vantaggio per l'economia. "Per tre anni non abbiamo importato neanche un chilowattora", ha detto Méndez. "In passato facevamo sempre affidamento sulle importazioni di elettricità dall'Argentina, mentre adesso la esportiamo. L'estate scorsa, abbiamo venduto loro un terzo della nostra elettricità".

Ancora molto resta da fare, in ogni caso. Il settore dei trasporti dipende tuttora dal petrolio (che costituisce il 45% del mix energetico complessivo). L'industria, invece, per lo più la trasformazione dei prodotti agricoli, ormai è alimentata da impianti di cogenerazione a biomasse.

Méndez ha attribuito il successo dell'Uruguay a tre fattori principali: il prestigio (una democrazia stabile che non ha mai fatto default per il suo indebitamento è molto attraente per chi vuole investire a lungo termine); condizioni naturali particolarmente vantaggiose (buon vento, sufficiente irradiazione solare, molte biomasse derivanti dall'agricoltura); e solide società pubbliche (partner affidabili per le società private e che possono collaborare con lo Stato per creare un allettante ambiente produttivo).

Anche se non tutti i paesi del mondo sono in grado di replicare questo modello di sviluppo, Méndez dice che l'Uruguay ha dimostrato che le rinnovabili possono ridurre le spese di produzione dell'energia e possono soddisfare ben oltre il 90% del fabbisogno energetico senza le soluzioni di ripiego offerte da centrali a carbone o a energia nucleare, senza contare che i settori privati e pubblici possono collaborare efficacemente in questo campo.

Forse, però, la lezione più importante che l'Uruguay può impartire ai delegati riuniti a Parigi è l'importanza di un forte processo decisionale. Come accaduto a un numero incalcolabile di conferenze sul clima dell'Onu, anche l'Uruguay un tempo era paralizzato da una serie apparentemente infinita di discussioni rancorose al riguardo delle politiche energetiche. Tutto, però, è cambiato quando il governo ha finalmente deciso di approvare un piano a lungo termine che ha attirato un sostegno trasversale dai partiti. "Abbiamo dovuto attraversare una crisi per arrivare a questo punto. Abbiamo sprecato 15 anni, ma nel 2008 finalmente abbiamo dato il via a una politica energetica a lungo termine che copriva ogni aspetto. E finalmente si è fatta chiarezza", ha detto Méndez. Quella svolta ha reso possibile la rapida transizione che oggi sta ripagando tutti con generosità.

Traduzione di Anna Bissanti / VoxEurop
Questo articolo di The Guardian / Keep it in the Ground è pubblicato in collaborazione con Climate Publishers Network

http://www.repubblica.it/ambiente/2015/ ... 129235075/


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Re: Un referendum di cui non si parla

Messaggioda flaviomob il 12/04/2016, 1:40

Chi sta con le trivelle sta con la Camusso.

Tié!

http://www.radiopopolare.it/2016/04/ref ... a-portata/

Referendum, quorum alla portata?


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Re: Un referendum di cui non si parla

Messaggioda flaviomob il 14/04/2016, 7:51

http://www.ilfattoquotidiano.it/podcast ... 17-aprile/

Medici per l'ambiente

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/04 ... o/2628391/

Trivelle mai sottoposte a valutazione di impatto ambientale

http://ilmanifesto.info/quelle-trivella ... -illegali/

Sanata "a posteriori" l'illegalità


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Re: Un referendum di cui non si parla

Messaggioda mariok il 14/04/2016, 16:38

Secondo Emiliano, la norma del decreto dello "sblocca Italia" che elimina le scadenze delle concessioni, consentirebbe alle compagnie di lasciare in mare le piattaforme che non danno più gettito di petrolio.

Possibile che questo sia un mondo di lestofanti? Non so chi è più farabutto, il governo che ha varato una norma che si presta, magari (voglio sperare) anche al di là delle intenzioni, ad una tale possibilità o le compagnie pronte ad approfittarne.

http://www.ansa.it/puglia/notizie/2016/ ... dfc33.html
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Re: Un referendum di cui non si parla

Messaggioda trilogy il 14/04/2016, 17:14

pagheranno ici/imu in eterno. Comunque le concessioni dovrebbero prevedere anche le attività di manutenzione di smantellamento e ripristino ambientale. Quindi, quelle non più operative dovrebbero essere smantellate se non avviene è qualcuno è inadempiente.
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Re: Un referendum di cui non si parla

Messaggioda mariok il 14/04/2016, 17:29

trilogy ha scritto:pagheranno ici/imu in eterno. Comunque le concessioni dovrebbero prevedere anche le attività di manutenzione di smantellamento e ripristino ambientale. Quindi, quelle non più operative dovrebbero essere smantellate se non avviene è qualcuno è inadempiente.


E come si spiegano allora le centinaia di fabbriche abbandonate in giro per l'Italia? Anche in quei casi continuano a pagare l'Ici?

Se prima di questo referendum non si parlava, ora se ne parla spesso a sproposito.

Una volta tanto mi trovo daccordo con Battista.

La battaglia politica
I referendum tenuti in ostaggio
di Pierluigi Battista

L’istituto democratico del referendum ha per vocazione la possibilità di respingere o confermare «qualcosa», una legge, un valore, una norma, un principio. Si sta inesorabilmente trasformando, invece, in una guerra senza quartiere pro o contro «qualcuno», da demolire o plebiscitare, da ripudiare o da osannare. Se in Italia un cittadino volesse votare nel referendum a favore delle trivelle in mare, ma volesse anche, legittimamente, che il governo Renzi fosse indebolito, cosa può fare: scegliere «qualcosa», il merito del quesito referendario, oppure trovare il pretesto per dare una spallata a «qualcuno»? E come può sciogliere il dilemma l’elettore che fosse a favore di Renzi ma che nel referendum di ottobre volesse votare contro la riforma costituzionale sottoposta a consultazione popolare?

Con questa deformazione, il referendum ne esce ovviamente snaturato e stravolto. Era già sfibrato prima, con la sequenza infinita di appuntamenti disertati dagli elettori con la conseguente mancanza del quorum richiesto. Ma così l’istituto referendario viene alterato fino a renderlo irriconoscibile. Magari lo vorrebbero rivitalizzare con una forte personalizzazione della battaglia referendaria, ma il merito dei quesiti svanisce. I temi spariscono. Il pro o contro si sposta e accade, come nel referendum del prossimo 17 ottobre, che il dibattito si trasferisca sulla liceità o meno dell’astensione. Impegnando il governo su un terreno che non dovrebbe essere il suo e mobilitando addirittura i giudici costituzionali, che entrano volentieri in una diatriba politica già incandescente. Non ce n’era bisogno.

In passato non è quasi mai stato così. Nei referendum più rilevanti della storia repubblicana il merito dei quesiti ha pressoché sempre prevalso sul «qualcuno». Nella battaglia sul divorzio, Pannella da una parte e Fanfani dall’altra hanno certo calamitato simpatie ed avversioni, ma noi ricordiamo bene che il divorzio è stato una svolta civile nella storia del nostro Paese. È stato così anche per il referendum sul finanziamento pubblico dei partiti, sulla depenalizzazione dell’aborto o per quello che ha cancellato la possibilità stessa di costruire centrali nucleari. Una fortissima connotazione politica e personale ha pesato sul referendum sul taglio dei punti di scala mobile, che segnò la disfatta politica per il Pci berlingueriano dopo la morte del leader comunista e la vittoria di Bettino Craxi. Lo stesso Craxi che, con l’invito ad andare al mare nel referendum sulla preferenza unica voluto da Mariotto Segni, ha a sua volta conosciuto il sapore amaro della sconfitta senza prevedere che in quel referendum stessero condensandosi tutti gli umori di rigetto del sistema dei partiti della Prima Repubblica. Ma i temi erano chiari, il merito delle questioni era rispettato e noi oggi ricordiamo le parole divorzio, aborto, nucleare, scala mobile, legge elettorale e molto meno il nome dei leader vincitori o sconfitti.

Poi l’abuso dei referendum, la moltiplicazione dei quesiti fino al parossismo, la difficoltà di concentrare l’attenzione pubblica su temi tanto variegati e dispersivi, tutto questo ha inevitabilmente minato la stessa credibilità di quell’istituto. I referendum annullati per mancanza del quorum sono stati innumerevoli. E quello sulla riforma costituzionale voluta dallo schieramento di Berlusconi e allora bocciata dalla sinistra non suscitò grandi passioni, passando quasi inosservato. Ma il referendum trasformato in plebiscito è un rimedio peggiore del male. Sbagliano i promotori a mettere in collegamento il referendum sulle trivelle con le turbolenze del governo dopo le dimissioni della ministra Guidi. Ma anche il premier non fa una scelta saggia facendo del referendum sulla riforma del Senato l’ordalia decisiva per la sua carriera politica, in un Armageddon finale del Renzi contro tutti, soprattutto perché si è sempre detto che le regole delle istituzioni non sono monopolio di un governo, e anche di una maggioranza parlamentare. Non ci sono nemici da «spazzare via» attraverso il referendum, come usa dire il premier, ma solo avversari di una riforma che continueranno a combattersi anche quando la riforma delle istituzioni dovesse essere approvata. Per fare una discussione anche accesa, democraticamente appassionata, su «qualcosa» e non per l’apoteosi o la rovina di «qualcuno».
14 aprile 2016 (modifica il 14 aprile 2016 | 07:17)
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Re: Un referendum di cui non si parla

Messaggioda trilogy il 14/04/2016, 17:41

mariok ha scritto:
trilogy ha scritto:pagheranno ici/imu in eterno. Comunque le concessioni dovrebbero prevedere anche le attività di manutenzione di smantellamento e ripristino ambientale. Quindi, quelle non più operative dovrebbero essere smantellate se non avviene è qualcuno è inadempiente.


E come si spiegano allora le centinaia di fabbriche abbandonate in giro per l'Italia? Anche in quei casi continuano a pagare l'Ici?


E' una situazione un po' differente. Se ho un capannone su un terreno di mia proprietà pago l'ici e ci faccio quello che voglio.
In giro è pieno di fabbriche abbandonate perchè l'azienda è fallita ed è tutto in mano ad un curatore fallimentare.
Se il creditore era lo Stato il bene andrà in malora nel 99% dei casi.
Nella piattaforma il suolo non è tuo, hai una concessione, che ha una durata, scaduta quella devi smantellare e ripristinare.
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Re: Un referendum di cui non si parla

Messaggioda mariok il 14/04/2016, 17:50

trilogy ha scritto:
mariok ha scritto:
trilogy ha scritto:pagheranno ici/imu in eterno. Comunque le concessioni dovrebbero prevedere anche le attività di manutenzione di smantellamento e ripristino ambientale. Quindi, quelle non più operative dovrebbero essere smantellate se non avviene è qualcuno è inadempiente.


E come si spiegano allora le centinaia di fabbriche abbandonate in giro per l'Italia? Anche in quei casi continuano a pagare l'Ici?


E' una situazione un po' differente. Se ho un capannone su un terreno di mia proprietà pago l'ici e ci faccio quello che voglio.
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Nella piattaforma il suolo non è tuo, hai una concessione, che ha una durata, scaduta quella devi smantellare e ripristinare.


Delle due l'una. O Emiliano (presidente di una regione, iscritto allo stesso partito che è al governo) racconta frottole ed andrebbe sbugiardato pubblicamente o come è più probabile dice, se non la verità, una cosa verosimile (nel senso di "possibile che accada", magari con strascichi giudiziari di alcuni decenni).
Probabilmente ciò che sostiene Emiliano è che, non essendoci più una scadenza della concessione, le piattaforme potrebbero rimanere abbandonate sine die.
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