Senza la spesa un Pil «normale»–di Marco Fortis 20 agosto 2016
Il rallentamento del Pil italiano nel secondo trimestre 2016 ha suscitato preoccupazioni e innescato un ampio dibattito sulle possibili misure per rilanciare la crescita. In particolare, ha destato allarmismo che in questo momento l’Italia appaia più in affanno, assieme alla Francia, tra i grandi Paesi europei, facendo emergere (o ribadendo, alla luce della debole crescita italiana del passato) una certa “unicità” del nostro caso.
I dati Eurostat ci dicono che nel secondo trimestre di quest’anno, dietro alla Spagna il cui Pil è aumentato dello 0,7%, l’Olanda è cresciuta dello 0,62%, la Germania dello 0,41%, l’Italia dello 0,01%, l’Austria dello 0% mentre la Francia ha fatto registrare una piccola diminuzione, pari a -0,04%. La frenata italiana certamente colpisce, ma a nostro avviso non deve indurre a conclusioni affrettate né sulla fine della ripresa né sul divario di crescita attuale tra il nostro Paese e gli altri.
Soltanto le statistiche disaggregate sulle componenti del Pil potranno darci tra qualche settimana uno spaccato preciso del rallentamento economico non solo italiano, ma anche di altre economie dell’Eurozona. Per intanto, però, è possibile analizzare con precisione che cosa è successo nei trimestri precedenti e dimostrare che è molto discutibile l’affermazione secondo cui l’Italia confermerebbe la sua sindrome di bassa crescita. Infatti, depurato il Pil dell’apporto della spesa pubblica, una leva che la cosiddetta “Renzinomics” non ha potuto utilizzare stanti i ben noti vincoli di bilancio, la crescita italiana appare fondamentalmente allineata a quella degli altri Paesi. Le uniche eccezioni positive sono quelle dell’Irlanda, la cui crescita appare tuttavia “drogata” in modo abnorme dagli insediamenti delle sedi legali delle multinazionali straniere sull’isola per motivi fiscali, e della Spagna, il cui modello di sviluppo appare tuttavia per molti aspetti poco sostenibile.
Se prendiamo come riferimento il quarto trimestre 2014 (l’ultimo in cui l’Italia era ancora in recessione) e guardiamo a che cosa è avvenuto nei cinque trimestri successivi di ripresa, giungendo fino al primo trimestre di quest’anno, possiamo constatare che la crescita cumulata del Pil nel periodo considerato è stata la seguente per i Paesi più significativi: Spagna +4,34%, Germania +2,02%, Francia +1,95%, Austria +1,9%, Olanda +1,66%, Portogallo +1,47%, Italia +1,37%. Dunque da queste cifre apparirebbe avvalorata la tesi dell’Italia “fanalino di coda” anche prima della crescita zero del secondo trimestre di quest’anno.
Tuttavia, una lettura dei dati destagionalizzati disaggregati fa emergere che senza il forte ricorso alla spesa pubblica (che l’Italia non ha potuto utilizzare) la crescita recente delle altre economie dell’Eurozona è stata assai meno intensa di quanto si supponga. Infatti, mentre tra il quarto trimestre 2014 e il primo trimestre 2016 l’Italia ha aumentato la spesa pubblica di soli 7,2 milioni di euro su base trimestrale, la Germania l’ha aumentata di ben 4,5 miliardi (che significano 18 miliardi annualizzati), la Spagna di 2,3 miliardi, la Francia di 2,2 miliardi e l’Olanda di 473 milioni, solo per fare alcuni esempi. Eliminando l’apporto diretto della spesa pubblica, cioè senza il suo aumento dal 4° trimestre 2014 in poi, la crescita del Pil nel periodo analizzato cambia radicalmente faccia, diventando il seguente: Spagna +3,45%, Francia +1,53%, Austria +1,43%, Olanda +1,37%, Italia +1,37%, Germania +1,36%, Portogallo +1,22%. Dunque, senza il sostegno dello Stato notiamo che la dinamica del Pil tedesco nel periodo considerato è stata persino lievemente inferiore a quella italiana, la quale, per intensità, “sta nel mazzo” (caso spagnolo a parte). E va inoltre considerato che qui abbiamo depurato solo l’apporto diretto aggiuntivo della spesa pubblica al Pil, non potendo valutare anche i suoi effetti moltiplicativi sull’economia di cui l’Italia egualmente non ha potuto godere.
Tenendo conto che nel secondo trimestre 2016 anche Francia e Austria hanno avuto una crescita zero come il nostro Paese e che l’ufficio di statistica tedesco ha già anticipato che la spesa pubblica ha nuovamente dato un contributo molto rilevante all’ultimo +0,4% di crescita trimestrale della Germania, il quadro sopra delineato non dovrebbe essere molto diverso anche aggiornando la situazione al secondo trimestre 2016.
In conclusione, senza la spesa pubblica possiamo affermare che l’attuale profilo di crescita economica dell’intera Eurozona è “italiano” o, viceversa, che quello dell’Italia è in linea con quello medio dei nostri partner. Ciò fa capire quanto stiano pesando sul continente i fattori esterni, tra cui la Brexit e il rallentamento dei Paesi emergenti, con uno stato persistente di debolezza dell’export e degli investimenti privati in macchinari e in costruzioni che anche la Germania sta sperimentando ma che attenua con la spesa pubblica. È sempre più urgente, pertanto, un rilancio europeo organico degli investimenti in infrastrutture, reti, tecno-scienza senza il quale la crescita dell’Eurozona rimane asfittica. E, ovviamente, serve anche una valutazione meno ragionieristica degli spazi di flessibilità concessi alle varie economie che stanno cercando di uscire dalla lunga crisi varando nel contempo importanti riforme, tra cui in primis l’Italia.
Il nostro Paese, nello specifico, ha puntato molto nella prima parte della ripresa a “guarire” le componenti dell’economia più gravemente lesionate dalla crisi, cioè l’occupazione e i consumi privati. Entrambe queste componenti hanno reagito molto positivamente alle cure, soprattutto l’occupazione con quasi 600mila nuovi posti di lavoro in poco più di due anni. Adesso però serve una ripartenza urgente anche degli investimenti, tra cui quelli nell’industria 4.0 e in opere pubbliche già stanziate, spese che devono entrare rapidamente in circolo per generare reddito. Così da ridare subito fiato alla ripresa dell’economia nella restante parte dell’anno, in tandem con il buon andamento del turismo.
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