franz ha scritto:
Provo a citare l'amico Bisin, da NfA (http://noisefromamerika.org/articolo/po ... o-monotono )Proviamo a immaginare un mondo diverso. Un mondo in cui di lavori precari ce ne fossero a iosa: finito uno se ne trovano altri, diversi, altrove. In questo mondo essere precario non è affatto male, specie per un giovane, magari con poca istruzione: il pizzaiolo per sei mesi, il barista per due (che lavorare la notte è bello ma stanca), il massaggiatore per un anno; un periodo a Milano, uno a Venezia, uno a Urbino e uno a Londra…
Mi rendo conto di quanto anche solo ipotizzare un mondo di questo tipo possa sembrare assurdo e che chi oggi in Italia cerca di tenersi stretto il lavoro al call center possa essere addirittura insultato da questo mio ragionamento. Non ho nessuna intenzione di insultare nessuno. Ma li vedo tutti i giorni ragazzi giovani (spesso anche italiani), che fanno esperienze sul mercato del lavoro a questo modo. Cambiano lavoro in continuazione e si stabilizzano lentamente, alcuni attraverso attività imprenditoriali, altri cercando lavori più protetti. Sto parlando degli Stati Uniti (o meglio, di New York), naturalmente. Ma non sto sostenendo che il mercato del lavoro negli Stati Uniti sia il migliore dei mercati del lavoro possibili. Anzi. È un inferno da molti punti di vista. Ma la questione del precariato non esiste. Non ho mai sentito nessuno lamentarsi del precariato. Della mancanza di assicurazione sanitaria, sì, sempre. Della disoccupazione ogni tanto, specie nei periodi di crisi come questo. Ma mai del precariato. Mai dei giovani che non riescono ad avere sicurezza sufficiente per metter su famiglia. Non esiste nemmeno la parola “precariato”. almeno non con il significato peggiorativo che ha in italiano.
E non sto parlando solo di lavoro manuale. I professori universitari, per esempio, prima di avere lavori fissi e protetti, hanno lavori precari. Cambiano università continuamente: perché si stufano di stare in città noiose, perché cambia la loro situazione familiare, perché vogliono essere più vicini a qualcuno con cui fanno ricerca… e perché l’università dove lavorano li manda via. Girano, per anni. Il lavoro fisso (si chiama tenure per gli accademici) è un obiettivo importante, naturalmente. Ma non è che senza non si vive o non si crea famiglia. Perché precariato non significa rischiare di perdere lavoro, ma al massimo trovarlo in un’altra città o in un’università meno prestigiosa. Parlo anche per esperienza. Ho tenure, adesso; ma sono stato precario per circa 10 anni girando Stati Uniti ed Europa, senza mai sentirmi precario. La stessa cosa si può dire per medici, avvocati, operatori finanziari.
Per arrivare a un mercato del lavoro di questo tipo è necessario ridurre la protezione del posto di lavoro, permettere alle imprese di licenziare per ragioni economiche, ad esempio. Mi rendo conto che possa apparire un po’ un salto nel buio. Capisco anche che possa essere inattuabile, nelle presenti condizioni in Italia. Mi riferisco sia alle condizioni economiche (l’eccessiva partecipazione dello Stato inefficiente nella vita economica) che a quelle culturali (in cui il desiderio del “posto fisso” è scolpito quasi indelebilmente nella mente di molti). Però so anche che se non si arriva a un mercato del lavoro di questo tipo i problemi dei precari sono irresolubili. Non c’è via d’uscita, purtroppo: più si protegge una parte dei lavoratori, più gli altri ne fanno le spese. Chi dice il contrario, o non capisce o è in malafede. Nel caso italiano, di solito, è in malafede.
però il caso di chi fa prima il pizzaiolo, poi il barista ecc. e quello del professore universitario che passa da una sede all'altra sono due situazioni molto diverse.
nel primo caso si cambia lavoro rischiando di non acquisire mai delle competenze o di essere ad alto rischio di deprofessionalizzazione (fare il pizzaiolo o il barista non necessitano di un alto livello di istruzione, ma di competenze professionali sì); nel secondo caso si cambia posto di lavoro, ma si continua a fare il proprio lavoro senza rischiare veramente la perdita delle proprie competenza.
trattare queste due situazioni come se fossero identiche (di solito lo fa chi appartiene al secondo caso) vuol dire o non capire o essere in malafede.