di F. Cartelli
Executive director

Da qualche mese, al populismo ruspante di Matteo Salvini si è progressivamente contrapposto un buonismo altrettanto populista fatto di prediche, omelie e accorate lettere da libro Cuore, aventi l’obiettivo di riportare all’interno del recinto della civiltà chiunque esprima un’opinione non conforme ai princìpi dell’integrazione a prescindere e del volemose bene. Curiosamente, quest’opera di rieducazione ottiene spesso l’effetto contrario di quello sperato: anziché sottrarre truppe al populismo, non fa che rafforzare le convinzioni dell’avversario; l’anti-populismo genera l’effetto opposto, ossia più populismo. Perché ciò avviene? Perché le argomentazioni di chi frettolosamente si siede in cattedra a dispensar lezioni vogliono imporre una prospettiva lontana anni luce dalla realtà, nella quale non si tiene in considerazione la percezione dei fenomeni da parte delle persone, e si mira a rielaborarli e proporli come fossero il risultato di un asettico algoritmo fatto di numeri ed etichette. L’ultimo esempio nel quale mi sono imbattuto è la lettera di Davide Piacenza pubblicata su Rivista Studio, dall’evocativo titolo «Caro razzista ti scrivo», rivolta a una ragazza, tale Pippi Ferraro, che aveva denunciato sul proprio profilo Facebook un episodio cui aveva assistito in treno. Lamentava, in breve, una disparità di trattamento da parte del controllore, che aveva multato un’anziana priva di biglietto convalidato e che invece aveva chiuso un occhio nei confronti di un gruppo di ragazzi di colore. La Ferraro concludeva lo sfogo con un provocatorio «sì, sono razzista». Mi preme discutere alcuni passaggi della lettera, a mio avviso pregiudizievoli, che tuttavia sono occasione per alcune riflessioni.
Inizio con questo passaggio: «… c’è l’anziana signora italiana, una figura tragica davvero troppo già vista e salviniana per non considerarla il MacGuffin della tua storia». Qui già possiamo notare l’ossessione di fondo che anima la lettera: Salvini. Una volta c’era la casalinga di Voghera, che osava guardare soap opera e si permetteva di votare Berlusconi. Ora c’è l’anziana signora salviniana, metà Matteo e metà Barbara d’Urso, scomodo elemento di una storia che l’autore lascia intendere come costruita ad arte («meriti un atto di cieca fiducia», come a dire: tutto ciò non può essere vero). Insomma, prendiamo atto che le anziane signore sono un errore di Matrix che verrà presto corretto, e che citare episodi nei quali vi sono anziane signore equivale a mettere in discussione la credibilità dell’accaduto. E sono salviniane, quindi andranno per forza di cose rieducate. Dopo aver rapidamente dato ragione, di fatto, all’autrice del post («il controllore ha effettivamente usato due pesi e due misure»), fioccano le perle.
«In anni da pendolare non ho mai incontrato un controllore che abbia garantito un trattamento di favore a un gruppo d’immigrati, o presunti tali. Anzi, in diversi casi ho notato una certa inclinazione all’aggressività verbale nel multarli, farli scendere dal treno e minacciarli di chiamare la polizia – la soluzione che tu auspichi con un entusiasmo à la Maroni.» Caro Davide, t’invidio molto. Io, nella mia lunga carriera di pendolare, ho ravvisato l’esatto contrario. Senz’andare troppo indietro con la memoria, mi limito a raccontare ciò che mi è successo pochi giorni fa, prima in un Intercity e poi in un Regionale, sperando che il breve racconto non mi procuri una raffica di salutari manganellate antirazziste. Nei convogli ho visto di tutto: persone di colore senza biglietto che correvano a nascondersi nei bagni, vagoni ridotti a dei suq improvvisati, conversazioni telefoniche urlate così forte da non riuscire quasi a sentire la mia voce. In due parole: degrado e inciviltà, particolarmente evidenti nel tipo di treni che ho citato. E mi dispiace deluderti, ma i controllori non hanno usato alcun’aggressività verbale verso queste persone, cui a mio avviso andava chiesto di rispettare almeno le basilari regole dell’educazione (chiedere loro il biglietto sarebbe stato, effettivamente, troppo razzista). In compenso, il controllore del regionale ha pensato bene d’essere inflessibile con un ragazzo che aveva abbassato un finestrino e si era acceso una sigaretta. (Il treno si era fermato in un’assolata campagna per un guasto, e i fumatori stavano impazzendo per l’impossibilità d’accendere l’agognata sigaretta. Ma questa è un’altra storia, effettivamente inverosimile se non per chi l’ha vissuta.) Quindi, lascia da parte l’ossessione per la Lega — prima Salvini, ora Maroni: mettici una pietra sopra, suvvia — e prendi atto che i treni non sono un paradiso della legalità e dell’integrazione, e ciò avviene senz’altro per via di tanti maleducati italiani, ma anche a causa di molti stranieri che — ti deludo ancora — non mi sono sembrati né medici, né studenti universitari, né artisti, né Premi Nobel. Ma probabilmente io con gli incontri sono sfortunato.
Arrivo, dunque, alla parte che preferisco. «Oltre al qualunquismo, ti si deve rimproverare una falsità assoluta. Nei primi quattro mesi del 2015 sono sbarcati in Italia circa 25 mila immigrati, dato sostanzialmente in linea – se non leggermente in calo – con quello dello scorso anno. Delle 62 mila persone passate da Milano lo scorso anno, nel capoluogo si sono fermati in 207. Questi sono i numeri dell’‹invasione›, cara Pippi Ferraro. Il resto è sapiente propaganda elettorale.» Ecco l’algoritmo del buonismo: citare numeri apparentemente inattaccabili per provare una presunta superiorità intellettuale da sbattere in faccia all’interlocutore retrogrado. Caro Davide, ti svelo un segreto: non sono i numeri a fare un’emergenza; è il modo in cui viene gestito un fenomeno a fare di esso un’eventuale emergenza. E per quanto i tuoi infallibili e freddi numeri dicano che «non c’è un’invasione» — applausi — in Italia, piaccia o no, c’è un’emergenza immigrazione, perché, nel caso non te ne fossi accorto, questo Stato ha le pezze al culo, consentimi il francesismo. L’Italia non ha le strutture per affrontare questo fenomeno, e non lo dico io che sono razzista: lo dicono le circolari mandate ai prefetti. Non c’è posto per tutti, e non ci sarà posto per tutti. L’Italia vive da anni sull’orlo del fallimento, e non ne ha le capacità né gestionali né economiche. Il Viminale, recentemente, ha affermato d’aver perso le tracce d’oltre 50.000 richiedenti asilo. L’Italia è un Paese profondamente provato — anche psicologicamente — dalla crisi economica, e questa classe dirigente irresponsabile sta costruendo una bomba sociale a medio termine resa ancor più pericolosa dal dilettantismo col quale viene gestita tale questione. Fare le prediche online a chi in un momento di sconforto manifesta il proprio disagio — magari, sì, con parole un po’ eccessive — bollandolo come «razzista» è puro esibizionismo intellettuale che non risolve di una virgola la situazione. Ma, si sa, l’Italia è una Repubblica fondata sulla gogna mediatica, e ormai bisogna pure stare attenti a ciò che si scrive sulla propria bacheca, perché c’è sempre qualcuno pronto a imbastire un tribunale. Per la cronaca, la ragazza ha preso metaforicamente carta e penna e ha risposto ai rilievi mossi nella lettera.
Quel che in sostanza mi lascia perplesso è il tentativo di combattere i toni esasperati ed eccessivi di taluna politica con l’esatto opposto, cioè minimizzando sempre e comunque, e riconducendo il tutto all’ignoranza e alla propaganda. L’errore è non riuscire a scindere il problema umano da quello politico. Da un lato la ruspa, dall’altro la bacchetta. Non basta citare Calamandrei, Primo Levi, e sventolare i fantasmi del Ventennio (solo io avverto un certo senso del ridicolo nella moda d’urlare al fascismo per qualsiasi cosa?) per sedere dalla parte della ragione. «Leggi, informati come si conviene, tocca con mano, e solo dopo armati per la guerra»: forse dovresti farlo anche tu, magari andando in quelle periferie dove l’integrazione non ha funzionato, dove gli italiani sono diventati di fatto degli ospiti, o dove sono stati eretti muri per celare la presenza dei campi rom, perché in Italia la politica affronta così i problemi, nascondendoli. Ma, anche in questo caso, immagino che la colpa sia dei residenti, troppo chiusi mentalmente per accettare con serenità la preziosa opportunità culturale d’avere un campo nomadi a due passi da casa. Mal che vada, ci sono sempre i numeri, a dimostrare che lo stile di vita dei rom incide poco o nulla sulla percentuale dei furti. Oppure si può sempre scrivere qualche stato su Facebook per deridere e demonizzare chi ha l’ardore di condividere l’esperienza d’essere stato derubato da un rom o da uno straniero. Che ottusi, che razzisti, che fascisti, questi italiani: si leggano le statistiche, questi «megafoni d’auspicati pogrom», e non rompano le scatole alle persone perbene e moralmente integre.
Quel Salvini che tanti disprezzano — io non l’apprezzo, ma neanche lo demonizzo: mi limito, con un po’ di sano realismo, a costatarne l’ingombrante presenza — otterrà sempre più consenso proprio grazie all’atteggiamento ultra-garantista e ultra-protettivo nei confronti di palesi situazioni di malessere sociale. Con la scusa di voler sempre andare «contro Salvini», si è costruita una contro-barricata elitaria anni luce lontana dall’idem sentire delle comunità che si trovano ad affrontare tali emergenze, e che non fa altro che alimentare nelle persone il senso d’impotenza e di risentimento. A forza di paternali, si riuscirà a far diventare xenofobo e (davvero) razzista anche il più tollerante degli italiani. Perché, sia chiaro, è doveroso prendere le distanze dai folli che invocano i forni crematori per gli immigrati; ma ergersi a professionisti dell’indignazione a prescindere, equiparando uno sfogo a un atto di razzismo, non è la strada giusta. Le letterine vanno benissimo per vincere il Boldrino d’Oro, ma non sono i fiumi di retorica a risolvere i problemi.
http://thefielder.net/22/06/2015/caro-a ... Yj-m7yBxko