Hans-Werner Sinn
Hans-Werner Sinn, Professor of Economics and Public Finance at the University of Munich, is President of the Ifo Institute for Economic Research and serves on the German economy ministry’s Advisory Council. He is the author of Can Germany be Saved?
MONACO DI BAVIERA – L'Italia è alla terza recessione, il cosiddetto "triple-dip", ma non è arrivata a questo punto da sola. La prolungata flessione dell'economia, infatti, riflette l'incapacità dei leader italiani di affrontare la perdita di competitività del paese, un'incapacità che, tuttavia, è ampiamente diffusa in Europa.
Quando, nel quarto trimestre del 2007, è scoppiata la crisi finanziaria, il Pil dell'Italia è crollato del 7%, poi è risalito del 3%, è calato di nuovo del 5%, ha recuperato un misero 0,1% e di recente, durante la prima metà di quest'anno, è tornato a scendere, stavolta dello 0,3%. Nel complesso, il Pil italiano ha subito una contrazione del 9% negli ultimi sette anni.
Fra l'altro, la produzione industriale ha registrato uno sconcertante calo del 24%, ed è solo grazie a un'inflazione ostinata che il Pil nominale dell'Italia è riuscito a mantenersi costante. Il tasso di disoccupazione è arrivato al 12%, mentre quello dei giovani che smettono di studiare ha raggiunto il 44%.
L'Italia ha cercato di contrastare la contrazione economica aumentando il proprio debito pubblico. Grazie al contenimento dei tassi di interesse ad opera della Banca centrale europea e delle operazioni di salvataggio intergovernative, il debito pubblico italiano è riuscito a crescere di un terzo tra la fine del 2007 e la primavera del 2014.
Il nuovo primo ministro italiano, Matteo Renzi, vuole stimolare la crescita., ma ciò che intende fare in realtà è accumulare altro debito. Il debito dà impulso alla domanda, questo è vero, ma si tratta di un tipo di domanda artificiale e di breve durata. Raggiungere una crescita sostenibile, invece, sarà possibile per l'Italia solo se l'economia ritrova la sua competitività, un risultato che all'interno dell'eurozona si può ottenere soltanto in un modo: abbassando i prezzi dei propri prodotti rispetto a quelli dei paesi concorrenti. Quello che l'Italia è riuscita a fare in passato svalutando la lira va ora replicato attuando il cosiddetto deprezzamento reale.
L'era dei tassi di interesse bassi seguita alla decisione, nel 1995, di introdurre l'euro ha dato adito, nei paesi meridionali dell'eurozona, a un'enorme bolla del credito che è perdurata fino alla fine del 2013. Durante questo periodo l'Italia è diventata più cara del 25% (in base al deflatore del Pil) rispetto ai suoi partner commerciali europei.
Diciassette punti percentuali di questo aumento possono essere attribuiti a un'inflazione più elevata, mentre otto punti percentuali a una rivalutazione della lira attuata prima dell'introduzione dell'euro. Rispetto alla Germania, l'Italia è diventata più costosa del 42%, un divario enorme. Questo differenziale di prezzo, e nient'altro che questo, è il problema del paese; l'unica soluzione è correggere lo squilibrio creatosi mediante un deprezzamento reale.
Ma è più facile dirlo che farlo. L'aumento dei prezzi non è quasi mai un vero problema. Abbassarli o rallentare la loro crescita rispetto ai prezzi dei paesi concorrenti, invece, è faticoso e snervante.
Anche se i sindacati di un paese acconsentissero a tale politica optando per la moderazione salariale, i debitori si troverebbero in difficoltà poiché hanno contratto prestiti convinti che l'inflazione sarebbe rimasta alta. Molte aziende e famiglie andrebbero in rovina. Dato che la strada della disinflazione, o della deflazione, passa per una valle di lacrime prima di giungere a un miglioramento della competitività, vi è motivo di dubitare che dei politici concentrati solo sulle elezioni e con un orientamento a breve termine sarebbero in grado di mantenere la rotta.
L'ex primo ministro Silvio Berlusconi voleva risolvere il problema facendo uscire l'Italia dall'eurozona e svalutando la nuova moneta. Nell'autunno del 2011 tenne colloqui esplorativi con altri governi dell'eurozona e cercò un accordo con il primo ministro greco George Papandreou, il quale proponeva un referendum che, di fatto, avrebbe significato scegliere tra una rigorosa austerità e l'uscita dall'euro.
Entrambi i leader, però, dovettero dimettersi nel novembre 2011, a tre giorni di distanza l'uno dall'altro. Considerazioni politiche di ordine superiore, così come gli interessi del sistema bancario, militarono contro l'abbandono della moneta unica.
L'economista Mario Monti, succeduto a Berlusconi alla presidenza del consiglio, tentò un deprezzamento reale introducendo una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro allo scopo di indurre i sindacati a fare concessioni salariali. Gli sforzi di Monti, però, risultarono vani; tra gli altri problemi, la Bce, con il suo generoso aiuto finanziario, aveva allentato la pressione su sindacati e imprese.
Enrico Letta, che sostituì Monti alla guida del governo dell'Italia, non aveva un concetto chiaro di riforme e dovette a sua volta cedere il comando al carismatico Renzi. Quest'ultimo, pur spendendo molta energia verbale per affrontare i nodi dell'economia, non ha finora dato segno di capire qual è il vero problema del paese.
Renzi, tuttavia, non è solo in questo. Al contrario, praticamente l'intera élite politica europea, da Bruxelles a Parigi fino a Berlino, crede ancora che l'Europa stia attraversando una semplice crisi finanziaria e di fiducia. La perdita di competitività, che invece è alla base, non viene affrontata nei discorsi perché è un problema che non si può risolvere solo a parole.
Traduzione di Federica Frasca
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