È corrente, in questo periodo, la spiacevole sensazione di essere dei sudditi, ma molto poco governati. Avvertiamo tutti la sudditanza a decisioni che hanno origine altrove, in particolare nella grande finanza globalizzata («ce le impone lo spread»); e al tempo stesso sentiamo che le nostre tradizionali strutture di governo non hanno la sovranità e l’intelligenza per regolare il rapporto fra tale sudditanza e la quotidiana vita collettiva. Non ci piace la presunzione della più planetaria banca d’affari quando si attribuisce poteri quasi divini, visto che ogni sua mossa può «regolare o disordinare l’andamento delle costellazioni finanziarie e politiche»; ma neppure ci fa piacere la constatazione che non ci sono in giro protagonisti abbastanza forti per contrastare tale celeste presunzione con adeguate politiche nazionali e/o settoriali.
Chi non ha voce o almeno appartenenza nel circuito del grande potere finanziario internazionale (di fatto la «moderna sede della sovranità»), rischia di apparire come semplice figurante di un panorama di impotenze. I grandi vertici mondiali, dai G5 ai G20, sembrano volenterose conferenze di vecchi e nuovi amici in attesa di un’affollata foto ricordo; i summit europei hanno il triste sapore di congregazioni che rincorrono, mai padroneggiandoli, i propri errori; i governi nazionali, una volta massimi titolari della sovranità decisionale, si affannano a controllare i propri «debiti sovrani»; i parlamenti (e tutte le altre rappresentanze elettive) non hanno più il necessario respiro decisionale, visto che sulla variabile fondamentale della spesa non sono loro i protagonisti; i soggetti politici (i partiti, ma non solo) si rifugiano in una mediocre autoreferenzialità, accodandosi a una logica di governo legittimata prevalentemente da fenomeni e decisioni che si svolgono altrove. E il «popolo», formalmente ancora titolare di ogni democratica sovranità, finisce per sottostare a poteri sempre più alti e lontani, restando sulla soglia o di un adattamento da sudditi o di un malcontento di moltitudine, qualche volta antagonista.
Non sorprende quindi che si vada affermando una struttura del potere, sia internazionale che nazionale, che tende a slittare in alto, mentre i circuiti intermedi (europei e nazionali, politici o istituzionali) restano in una configurazione ambigua: si presentano cioè come un insieme di «gironi» sovrapposti uno sotto l’altro in orizzontale, senza che si attui una significativa comunicazione fra loro. Vivono chiusi nelle loro dinamiche orizzontali e tutte relazionali (è relazionale la dinamica europea come lo è quella nazionale, dalle convergenze di governo alla concertazione sociale al mondo della finanza, ecc.). E ne è naturale conseguenza che fra di esse non si stabilisca un adeguato collegamento in verticale.
Una volta era la politica che sapeva gestire la connessione verticale dei vari «gironi»: tutti ricordano la capacità della Dc o del Pci di gestire le loro appartenenze planetarie (verso gli Usa o verso l’Urss) passando via via per i vari circuiti intermedi e arrivando a innervare oratori parrocchiali e sezioni rionali. Oggi nessuno sa più fare il «lavoro in verticale» (tranne Napolitano, che il mestiere l’aveva imparato prima) e i singoli circuiti intermedi sono abbandonati a se stessi, costretti in dinamiche interne e relazionali che li privano di ogni spinta di innovazione e di convincimento verso l’esterno e verso la quotidianità collettiva. Si concentrano su una micro competizione interna, gestita da ambiziosi colonnelli senza strategia (o da «apostoli senza pentecoste», se si vuole guardare in altri campi oggi di moda).
Chi non ha voglia di adattarsi a un futuro di pura sudditanza ai pochi apicali regolatori delle costellazioni farebbe allora bene se anzitutto si liberasse della ormai asfissiante orizzontalità che regna nei vari gironi di potere intermedio; e se cominciasse in secondo luogo a esplorare gli spazi di un recupero di un lavoro (anche politico) in verticale.
In fondo, di un tale processo si comincia a vedere l’esigenza nei bisogni antropologici della quotidianità (il ritorno del padre, del prete, della maestra, ecc.) ma esso non è ancora nell’orizzonte di attenzione delle nostre classi dirigenti, da decenni prevalentemente relazionali e orizzontali.
“Noi Sudditi di Poteri sempre più lontani” di GIUSEPPE DE RITA dal Corriere della Sera del 2 giugno 2012