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Europa al capolinea?

Discussioni e proposte, prospettive e strategie per il Paese

Europa al capolinea?

Messaggioda flaviomob il 28/11/2010, 1:49

manifesto... la mia vicinanza a questa analisi: ;)

L'Europa paga gli errori di Berlino

Martin Wolf

Se qualcosa di buono può venir fuori dal disastro irlandese, sarà la consapevolezza che le tradizionali teorie tedesche sui problemi dell'Eurozona sono sbagliate. Qualunque unione valutaria tra economie diverse è inevitabilmente un'avventura pericolosa. Ma se si fonda su idee errate sul modo in cui dovrebbe funzionare, può rivelarsi catastrofica.

La teoria canonica di cui parliamo è che i problemi dell'euro sono legati all'indisciplina di bilancio e alla scarsa flessibilità dell'economia, e che le soluzioni corrette sono rigore nei conti pubblici, riforma strutturale e ristrutturazione del debito. Ma l'Irlanda si trova nei guai per gli eccessi finanziari, non per le negligenze di bilancio; necessita di un intervento di salvataggio nonostante possieda un'economia flessibilissima; e a forza di parlare di ristrutturazione del debito, com'era prevedibile, si è scatenata la crisi. Sono dati di fatto che dovrebbero indurre i tedeschi a rivedere le loro idee. Che poi lo facciano effettivamente, ne dubito.
L'Irlanda non ha niente a che vedere con la Grecia. Nel 2007 il debito pubblico irlandese era appena il 12% del prodotto interno lordo, contro il 50% in Germania e l'80% in Grecia. Anche la Spagna nel 2007 aveva un debito pubblico pari solo al 27% del Pil. Se le regole di bilancio fossero state applicate con lo stesso rigore che vorrebbero oggi le autorità tedesche (anche se i loro predecessori fecero resistenza, all'inizio del decennio, quando si trattava di sanzionare la Germania stessa), tra la nascita dell'euro e l'attuale ondata di crisi Francia e Germania sarebbero incorse in sanzioni il doppio delle volte rispetto a Irlanda o Spagna.
In Irlanda e in Spagna non è lo stato che ha fatto corto circuito, ma il settore privato.

In un contesto di tassi di interesse bassi, determinato principalmente dalla cronica debolezza della domanda nei Paesi chiave del vecchio continente (nel 2008 la domanda interna reale in Germania era cresciuta del 5% rispetto al 1999), in diversi Paesi della periferia dell'euro c'è stato un boom dei prezzi delle attività e del credito. Una politica monetaria espansiva deve produrre effetti di questo genere da qualche parte. Inoltre, fino a novembre 2007 lo spread dei titoli di Stato irlandesi e spagnoli rispetto ai tedeschi era prossimo allo zero. Non c'è da sorprendersi che i fornitori di credito privati non siano riusciti a disciplinare il boom: lo avevano provocato.

Poi è arrivato il "Minsky moment", quella fase in cui un eccesso di indebitamento scatena le vendite. I mercati finanziari hanno cambiato umore, i prezzi delle attività sono precipitati, tutta la sciagurata orgia creditizia è venuta alla luce e il governo irlandese è dovuto correre affannosamente in soccorso delle sue banche. L'effetto combinato delle garanzie pubbliche sulle banche e dell'enorme disavanzo causato dalla nuova austerità del settore privato (quest'anno il settore privato irlandese registrerà un'eccedenza pari al 15% del Pil, secondo i dati Fmi) ha scatenato un'esplosione dell'indebitamento pubblico. Ma questa calamità è la conseguenza delle crisi, non la causa. E l'idea che l'Irlanda dovesse riportare in attivo i conti pubblici tanto da compensare l'impatto del boom del settore privato è ridicola. Non era nemmeno richiesto dai trattati, che si disinteressano dei comportamenti scorretti del settore privato.

Fin qui per quanto riguarda le cause. Ora soffermiamoci sulle soluzioni. L'Irlanda non è certamente deficitaria sul piano della flessibilità. Al contrario, il suo costo unitario del lavoro è precipitato rispetto alla Germania, e questo, sul lungo periodo, le garantisce buone chances di uscire dalle sue difficoltà attraverso la crescita. Ma sul breve periodo la caduta dei prezzi e dei salari rende ancora più pesante il fardello del suo debito in euro. Messa sotto pressione, l'Irlanda ha anche imposto una cura dimagrante per i conti pubblici. Ma sgonfiare un'economia colpita da una bolla speculativa spesso non funziona, anche se l'Irlanda, una piccola economia aperta, ha più speranze di tirarsi fuori dai guai con l'export rispetto ad altri Paesi a rischio di Eurolandia.

Malauguratamente, mentre l'Irlanda si profondeva in sforzi proprio in questo senso, i Paesi membri dell'euro hanno concordato, su iniziativa tedesca, di introdurre un meccanismo di ristrutturazione del debito pubblico. L'accordo del 18 ottobre tra la cancelliera Merkel e il presidente Sarkozy, in cui si dichiara l'intenzione di procedere a una modifica dei trattati per introdurre questo meccanismo, ha scatenato un crollo dei prezzi dei titoli di Stato in Grecia, Irlanda e Portogallo che ha contribuito a originare una nuova ondata di panico.

Come osserva Paul de Grauwe dell'Università di Lovanio, fiero avversario di queste teorie, legittimare la ristrutturazione del debito pubblico è destinato senz'altro a scatenare assalti speculativi. De Grauwe raccomanda invece la creazione di un grande fondo monetario europeo per finanziare i necessari aggiustamenti. A sostegno di tale tesi sta il fatto che il settore privato crea eccessi capaci di autoalimentarsi, sia verso l'alto che verso il basso. Presupponendo il peggio, rende quasi inevitabili esiti drammatici. Tutto ciò giustifica la creazione di questo prestatore d'emergenza. Non preclude una ristrutturazione del debito, ma questo è uno scenario che dovrebbe verificarsi solo quando l'aggiustamento è impraticabile. Ma senza misure di sostegno della liquidità, il risanamento da solo spesso e volentieri non riuscirà a far cambiare idea ai mercati, perché gli investitori trovano inverosimile la promessa di un'austerità più drastica. Il default a questo punto può essere inevitabile, anche quando non sarebbe necessario, con condizioni meno onerose sull'indebitamento.

Ovviamente le idee tedesche sulle misure da adottare non rispecchiano solamente le convinzioni della classe dirigente. L'ostilità dell'opinione pubblica tedesca ai "salvataggi" e il ruolo della sua Corte costituzionale rendono inevitabili richieste di questo tipo. Ma il grande interrogativo è se un'unione monetaria organizzata secondo le linee guida tedesche possa funzionare. Nella migliore delle ipotesi, la linea della disciplina di bilancio e della ristrutturazione del debito pubblico genererà sicuramente una politica drasticamente prociclica. Nella peggiore delle ipotesi, genererà depressioni e default a catena tra gli Stati membri. E c'è anche un problema globale: l'enfasi su un aggiustamento deflattivo nei Paesi più deboli rischia di trasformare l'eurozona nel suo complesso in una colossale Germania, dipendente dalla domanda di prodotti d'importazione da parte del resto del mondo. Come osserva Philip White, la zona euro è decisamente troppo grande per poter interpretare un ruolo del genere all'interno dell'economia mondiale. Il problema degli squilibri all'interno della zona euro, per quanto poco possa piacere alla Germania, è ineludibile.

La crisi è una sfida colossale per l'Irlanda, che dovrebbe convertire il debito non garantito delle banche in capitale netto invece di costringere i suoi cittadini a venire in soccorso dei prestatori allegri. Ma il caso irlandese dimostra anche l'infondatezza delle idee tedesche su come dovrebbe funzionare l'euro: il problema maggiore non è la leggerezza di bilancio, e il risanamento dei conti pubblici e la ristrutturazione del debito non sono le uniche soluzioni. Per imparare dalla storia, bisogna capire la storia.

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Re: Europa al capolinea?

Messaggioda flaviomob il 28/11/2010, 2:37

La crisi e le politiche sociali

di Felice Roberto Pizzuti

La sottovalutazione della crisi e, in particolare, delle sue cause di natura reale continua ad essere uno dei maggiori ostacoli al superamento della crisi stessa.

Una spiegazione di questo diffuso atteggiamento va individuata nel persistente predominio sia dei forti interessi economici sia delle visioni politico-culturali legati alle modalità di funzionamento assunte dal sistema economico negli ultimi tre decenni.

La «Grande crisi» esplosa nel 2008, il cui decorso è ancora incerto, si è manifestata inizialmente nelle Borse e nel sistema bancario a livello internazionale; ciò ha contribuito a un’interpretazione diffusa che la sua natura sia essenzialmente finanziaria; invece, la crisi riflette anche e soprattutto contraddizioni di natura reale delle relazioni economiche, sociali e politiche tuttora irrisolte.

Le cause più recondite della crisi sono :

• L’aumento dell’incertezza nei mercati, che negli ultimi tre decenni è stata sottovalutata dalle teorie economiche prevalenti, proprio mentre veniva accentuata nei fatti dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione dell’economia;

• Il contemporaneo indebolimento delle istituzioni e delle politiche economiche e sociali preposte a compensare l’instabilità dei mercati;

• Gli effetti negativi dell’accresciuta sperequazione distributiva sugli equilibri economici e sociali;

• La fragilità del processo di crescita affermatosi negli ultimi trent’anni, indotta – oltre che dalla finanziarizzazione dell’economia -, dalle cosiddette «bolle» (new economy, settore immobiliare, ecc.), dal “credito facile” (al consumo, per mutui, ecc) e dagli squilibri nelle relazioni tra paesi sviluppati e paesi emergenti.

Nella generalità delle maggiori economie occidentali, la caduta del PIL ha assunto entità mai raggiunte dall’ultimo dopoguerra; la disoccupazione nei paesi europei è oltre il 10% e la situazione italiana non è affatto migliore; anzi, considerando i lavoratori in cassa integrazione e i tassi di attività strutturalmente più bassi, è ben peggiore.

La crisi pone la necessità di rifondare i meccanismi della crescita economica e sociale basandoli non solo sul miglioramento della capacità e delle condizioni dell’offerta, ma anche su una domanda che sia adeguata e sostenuta da fonti di finanziamento più solide; cioè una domanda che sia alimentata da:

• una distribuzione del reddito meno sperequata,

• da prospettive salariali più dinamiche e certe,

• da politiche sociali che diano implementazione e sicurezza alle condizioni di vita e al reddito lungo l’intero arco dell’esistenza individuale.

Queste condizioni, peraltro, nei tre decenni successivi alla seconda guerra mondiale, avevano caratterizzato la cosiddetta “età dell’oro” dei paesi occidentali, contribuendo al più efficace tentativo di conciliare il mercato con la democrazia sostanziale.

La natura e le cause della crisi attuale indicano, in particolare, la specifica necessità di riconsiderare il ruolo delle politiche sociali e delle istituzioni del welfare state il cui sviluppo storico è stato non tanto una conseguenza della ricchezza materiale e civile dei paesi economicamente più avanzati, ma – soprattutto – uno dei suoi presupposti non secondari.

A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, oltre alle cattive applicazioni e ad alcune patologie dell’intervento pubblico che certamente andavano e vanno rimosse, sono state messe in discussione anche le sue consolidate capacità di poter efficacemente sostituire, compensare, integrare e valorizzare l’azione del mercato.

Nelle specifiche esperienze nazionali, la spinta a contenere la spesa sociale è stata superiore quando hanno pesato maggiormente politiche economiche e imprenditoriali miopi, rivolte più a migliorare la competitività di prezzo mediante la riduzione degli oneri salariali che non ad aumentare la competitività qualitativa con la diffusione del capitale umano e delle reti di sicurezza che favoriscono l’innovazione.

Il prevalere di queste politiche di corto respiro, che tendono a valutare la spesa sociale come un costo che pregiudica la crescita anziché un investimento che la favorisce, ha contribuito al cosiddetto declino dell’economia italiana, alimentando il circolo perverso della corsa al ribasso delle condizioni economiche e sociali.

-o-o-o-

La nostra spesa sociale complessiva, pari al 26,7% del PIL sembra di poco inferiore alla media europea, che è pari al 26,9%, ma questo dato è influenzato dalla minore crescita negli ultimi anni; infatti, se si fa pari a 100 la media europea della spesa procapite, il dato italiano è pari solo a 83.

La complessiva spesa sanitaria italiana rapportata al PIL è inferiore a quella media sia dei paesi europei sia di quelli OCSE, ed è pari a poco più della metà di quella degli Usa.
La quota pubblica della nostra spesa sanitaria complessiva è del 77%, in linea con quanto avviene mediamente nei paesi europei e di poco superiore rispetto alla media dei paesi Ocse tra i quali, però, ci sono anche gli Stati Uniti, dove la quota pubblica è solo del 46%.

Quest’ultimo dato aiuta a spiegare il fatto che circa il 15% dei cittadini americani non sono sufficientemente poveri da poter avere una copertura pubblica, ma non sono nemmeno sufficientemente ricchi da potersi permettere una assicurazione sanitaria privata.

Questa sconcertante combinazione di una spesa sanitaria che è elevatissima ma non consente una copertura completa nel paese più ricco del mondo – mentre in Europa è la norma – è la riprova empirica di quanto la stessa teoria economica liberale ha ben spiegato, ovvero che nel settore sanitario il mercato incontra serie difficoltà a soddisfare la domanda di buona salute e di igiene pubblica in modo efficace, efficiente ed equo. Non è un caso che negli Stati Uniti, seppure a fatica, proprio in connessione alla crisi che evidenzia i limiti del mercato, sia stata attuata una nuova politica sanitaria tesa a colmare le lacune del sistema di welfare.

In Italia, l’incidenza della spesa sanitaria pubblica sul PIL è di circa il 7%, cioè quasi un punto in meno rispetto alla media dell’Europa a 15. Il divario però è molto più sensibile se si considera la spesa procapite a parità di potere d’acquisto: la nostra è inferiore del 20% rispetto alla media europea. Questo divario nel 2001 era solo del 12%.

Tuttavia, con l’intento di contenere ulteriormente la spesa sanitaria pubblica, sono in corso i cosiddetti piani di rientro i quali dovrebbero accentuare il controllo d’efficacia delle prestazioni ma – più strategicamente – intendono modificare i rapporti centro-periferia e pubblico-privato nel settore sanitario.

I costi standard, che sembravano essere la grande novità del federalismo, non sono ancora esattamente definiti, ma, per come sono stati presentati di recente dal governo, non influenzeranno affatto il fabbisogno sanitario nazionale; la loro adozione come criterio di ripartizione territoriale del fondo sanitario potrebbe peggiorare le diseguaglianze finanziarie regionali senza migliorare l’efficienza, l’efficacia, e l’appropriatezza della spesa nelle regioni meno virtuose.

Obiettivi strategici per la collettività come la prevenzione e la sicurezza dell’igiene ambientale e alimentare, naturalmente perseguiti con l’intervento pubblico, saranno resi più difficili dai tagli di spesa ipotizzati, con il rischio aggiuntivo di accentuare le differenze territoriali.

Il Libro Bianco del Ministero del Lavoro, pur essendo stato varato un anno dopo l’esplosione della crisi, che segna uno spartiacque anche nella teoria economica, non sembra averne colto le implicazioni per il dibattito stato-mercato; mentre in tutto il mondo si prende atto della necessità di arginare gli effetti drammatici della crescente incertezza che regola le scelte di mercato, appare ancor più fuori luogo l’idea di ridurre il welfare pubblico e il finanziamento a ripartizione, sostituendoli con iniziative private e fondi a capitalizzazione, che anziché contrastare l’instabilità dei mercati l’amplificano.

Una vita «buona» – come è evocata nel Libro Bianco – è sicuramente auspicabile, ma ridurre l’offerta pubblica di sicurezza sociale non accresce le possibilità di realizzarla, anzi, la riduce.

(sbilanciamoci)


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Re: Europa al capolinea?

Messaggioda franz il 28/11/2010, 11:22

flaviomob ha scritto:manifesto... la mia vicinanza a questa analisi: ;)

L'Europa paga gli errori di Berlino

Martin Wolf
...
(soldellavvenire)

Veramente avevo letto l'articolo giorni sul sole24ore, che non mi sembra cosi' "dell'avvenire" :lol:
Ma venendo al merito, l'analisi è giusta ma scivola via su un fatto importantissimo.

In un contesto di tassi di interesse bassi, determinato principalmente dalla cronica debolezza della domanda nei Paesi chiave del vecchio continente (nel 2008 la domanda interna reale in Germania era cresciuta del 5% rispetto al 1999), in diversi Paesi della periferia dell'euro c'è stato un boom dei prezzi delle attività e del credito.

I tassi di interesse bassi pero' non erano affatto determinati dal mercato (cronica debolezza della domanda) ma dalla politica delle banche nazionali. Loro hanno tenuto artificialmente bassi i tassi (decisione politica, non decisione di mercato) e le banche ci si sono buttate. La Bolla (il boom di prezzi delle attività e del credito) è stata articifialmente gonfiata dalla politica. In buona sintesi c'è stata una notevole crescita del credito (pilotato dall'autorità politica tramite le banche nazionali) che ha fatto andare a mille le banche. Poi quando la bolla è scoppiata (per via dei subprime) lo Stato è intevenuto a salvare le banche ed ora è lui stesso sull'orlo del fallimento.
Ma secondo voi dare ancora piu' credito (quindi insistere con le politche che hanno creato il disastro) è veramente la soluzione? La Germania dice di no. Tutto qui. Ed io sono d'acccordo.
Bisognava far fallire le banche iralndesi e tutte quelle che si erano sbilanciate con la bolla del credito.
Invece ora il rischio è che la socializzazione delle perdite bancarie si trasformi in inflazione e svalutazione dell'euro.
Il che danneggia tutti gli europei (mezzo miliardo) molto piu' che il fallimento di una decina di grosse banche.

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Re: Europa al capolinea?

Messaggioda flaviomob il 30/11/2010, 10:45

Nei fatti, la grande ingiustizia è proprio questa: per salvare il sistema bancario ci si indebita e poi agli stati più deboli viene chiesto di fare macelleria sociale per ripagare i debiti. Finché non si mette un freno a questo andazzo andrà avanti così, oggi l'Irlanda, domani Portogallo, Spagna e Italia. Non si può accettare supinamente questo ordine delle cose, i debiti vanno ripianati cum grano salis, senza ammazzare l'economia e soprattutto la società.


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Re: Europa al capolinea?

Messaggioda franz il 30/11/2010, 12:50

flaviomob ha scritto:Nei fatti, la grande ingiustizia è proprio questa: per salvare il sistema bancario ci si indebita e poi agli stati più deboli viene chiesto di fare macelleria sociale per ripagare i debiti. Finché non si mette un freno a questo andazzo andrà avanti così, oggi l'Irlanda, domani Portogallo, Spagna e Italia. Non si può accettare supinamente questo ordine delle cose, i debiti vanno ripianati cum grano salis, senza ammazzare l'economia e soprattutto la società.

Diciamo piu' saggiamente che i debiti non vanno fatti, non oltre una certa misura.
Altrimenti le conseguenze sono piu' gravi dei fallimenti che si vorrebbero evitare.
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Re: Europa al capolinea?

Messaggioda chango il 30/11/2010, 14:42

franz ha scritto:
Ma secondo voi dare ancora piu' credito (quindi insistere con le politche che hanno creato il disastro) è veramente la soluzione? La Germania dice di no. Tutto qui. Ed io sono d'acccordo.
Bisognava far fallire le banche iralndesi e tutte quelle che si erano sbilanciate con la bolla del credito.
Invece ora il rischio è che la socializzazione delle perdite bancarie si trasformi in inflazione e svalutazione dell'euro.
Il che danneggia tutti gli europei (mezzo miliardo) molto piu' che il fallimento di una decina di grosse banche.

Franz


la soluzione quindi è/era il collasso del sistema bancario e finanziario europeo, con conseguenze ancora più gravi delle attuali sull'economia reale.

se il rischio della socializzazione delle perdite fossero solo inflazione e svalutazione dell'euro, non sarebbe un rischio particolarmente grave.
purtroppo, la socializzazzione delle perdite bancarie è il pretesto per applicare politiche inutilmente restrittive e per evitare di affrontare i problemi e i limiti reali dell'Unione europea e la totale inadeguatezza della teoria economica che ha caratterizzato gli ultimi 30 anni nell'offrire soluzioni concrete.
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Re: Europa al capolinea?

Messaggioda pierodm il 30/11/2010, 15:27

Di economia non capisco un granché, ma penso che nemmeno ci perdo un granché - fatta eccezione per la possibilità di intervenire nel dibattito con un po' di latinorum, che mi servirebbe soltanto a sostenere meglio le mie impressioni.
Gli economisti si danno arie da scienziati, ma sono poco più che indovini, e per di più indovini che spesso non ne indovinano una.

La cosa curiosa però riguarda il giudizio che da alcune scaturigini politico-tecnocratiche si dà sulla condizione dei cittadini e sulle loro opinioni.
Se una massa, una maggiornaza di imbecilli, o di ignoranti, di disinformati si esprime con il proprio voto, si tratta di "popolo sovrano", che è lesa maestà mettere in discussione - sia da parte di chi è beneficiato da quel voto, sia da parte di chi ne viene punito, per una forma di leccapiedismo elettorale e d'ipocrisia.
Se però un gran numero di cittadini è insoddisfatto delle banche, dell'economia, del sistema delle grandi holding, della socializzazione delle perdite e della privatizzazione dei profitti, etc, si tratta di una massa di stronzi, magari permeati di "ideologie sbagliate".
Se il pragmatismo degli individui li porta ad essere dei praticoni, dei cinici, dei furbastri, si tratta di gente che va al sodo e che merita ogni considerazione.
Se con altrettanto pragmatismo gli individui vedono che qualcuno li sta fregando, che gli vengono raccontate cazzate, che la loro vita è una schifezza mentre altri se la spassano, allora si tratta di "invidia sociale", o peggio, si tratta di gente che non capisce di avere ciò che si merita, parassiti, "popolino" che vorrebbe essere coccolato e "assistito".
Bah.
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Re: Europa al capolinea?

Messaggioda franz il 30/11/2010, 16:31

chango ha scritto:la soluzione quindi è/era il collasso del sistema bancario e finanziario europeo, con conseguenze ancora più gravi delle attuali sull'economia reale.

Non credo. Se il fallimento di una banca o di un gruppo di banche portasse al collasso del sistema bancario e finanziario europeo allora c'è qualche cosa che non funziona in esso, malgrado Basilea1, Basilea2 e anche il tre, in dirittura d'arrivo.
Per prima cosa ci sono le garanzie universali, per cui i risparmiatori non perdono i contanti depositati fino ad una certa cifra (mi pare che sia stata alzata a 100'000 euro). Poi se uno ha depositato in banca azioni, obbligazioni, fondi d'invenstimento, questi non fanno parte della massa fallimentare. Infatti sono un deposito, non proprietà della banca. Eventualmente si perdono soldi se uno aveva comprato azioni oppure obbligazioni di quella banca. Fa parte del rischio normale. Presti i soldi ad uno che fallisce. Non tracolla il sistema ma solo chi avesse (incautamente) prestato tutti i soldi a quella banca oppure avesse un portafogli costituito solo da titoli bancari, cosa sconsigliata a tutti.
A me pare che il "too big to fail" sia solo una scusa del potere politico per intervenire e quindi dettar legge in un settore importante come quello bancario (ricordate Bossi?) e chiaramente le banche non si ritraggono (come tutti) dall'idea di essere salvati e continuare il loro azzardo morale.
Un fallimento invece farebbe emergere nuove banche, piu' serie.
Salvate le banche spegiudicate e premierete solo i pescecani che a parole deplorate.

Franz

PS: dimenticavo che oltre a svalutazione ed inflazione, la bestia dell'apocalisse che è sempre presente in questi casi si chiama disoccupazione. Vedi tu se tu sembra grave oppure no.
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Re: Europa al capolinea?

Messaggioda chango il 30/11/2010, 17:38

franz ha scritto:Non credo. Se il fallimento di una banca o di un gruppo di banche portasse al collasso del sistema bancario e finanziario europeo allora c'è qualche cosa che non funziona in esso, malgrado Basilea1, Basilea2 e anche il tre, in dirittura d'arrivo.
Per prima cosa ci sono le garanzie universali, per cui i risparmiatori non perdono i contanti depositati fino ad una certa cifra (mi pare che sia stata alzata a 100'000 euro). Poi se uno ha depositato in banca azioni, obbligazioni, fondi d'invenstimento, questi non fanno parte della massa fallimentare. Infatti sono un deposito, non proprietà della banca. Eventualmente si perdono soldi se uno aveva comprato azioni oppure obbligazioni di quella banca. Fa parte del rischio normale. Presti i soldi ad uno che fallisce. Non tracolla il sistema ma solo chi avesse (incautamente) prestato tutti i soldi a quella banca oppure avesse un portafogli costituito solo da titoli bancari, cosa sconsigliata a tutti.
A me pare che il "too big to fail" sia solo una scusa del potere politico per intervenire e quindi dettar legge in un settore importante come quello bancario (ricordate Bossi?) e chiaramente le banche non si ritraggono (come tutti) dall'idea di essere salvati e continuare il loro azzardo morale.
Un fallimento invece farebbe emergere nuove banche, piu' serie.
Salvate le banche spegiudicate e premierete solo i pescecani che a parole deplorate.

Franz

PS: dimenticavo che oltre a svalutazione ed inflazione, la bestia dell'apocalisse che è sempre presente in questi casi si chiama disoccupazione. Vedi tu se tu sembra grave oppure no.


il fallimento di una banca, soprattutto se di grandi dimensioni, genera panico.
le garanzie universali funzionano fino a che nessuno le usa. o se le usa un numero molto limitato di persone.
se in Italia fallisse Unicredit o Intesa le garanzie universali serivrebbero veramente a poco.

basta vedere cosa è successo lasciando fallire una banca d'affari come Lehman Brothers per immaginare quello che potrebbe succedere se fallisero nello stesso periodo alcune grandi banche che raccolgono il risparmio.

il "too big too fail" esiste anche nell'ambito privato: per una banca un'impresa con un debito di 10 mila euro e una di 1 milardo non sono proprio la stessa cosa.
la politica può permettersi di lasciare fallire la cassa di risparmio di casalpusterlengo se ha 4 sportelli in croce e raccogli il riaprmio di 4 mila persone, non può invece permettersi di lasciar fallire un grande operatore nazionale (e internazionale) con migliaia di sportelli nel paese che raccoglie il risparmio di milioni di persone.
così un banca può permettersi di lasciar fallire l'officina pincopallino nei confornti dei quali vanta un credito di 10 mila euro, non può invece permettersi di lasciar fallire grandi imprese nei confronti dei quali vanta crediti per centinaia di milioni di euro.

un fallimento non fa necessariamente emergere banche più serie.
per quello è necessaria una politica diversa sia in termini di legislazione sia in termini di controllo/vigilianza.

per quanto riguarda la disoccupazione, anche un fallimento genera un aumento della disoccupazione, almeno per quanto riguarda le banche coinvolte.
anche se gli effetti del fallimento si faranno sentire anche nell'economia reale.
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Re: Europa al capolinea?

Messaggioda franz il 30/11/2010, 17:50

chango ha scritto:un fallimento non fa necessariamente emergere banche più serie.

E la garanzia del salvataggio invece cosa comporta, se non che tutte o quasi rischiano oltre il limite, tanto le perdite possono essere socializzate?
Ma non eravate voi ad essere contrari alla privatizzazione dei profitti ed alla socializzazione delle perdite? :o
La perdita di posti di lavoro per una grande banca che fallisce è poca cosa rispetto a quello che capita quando si socializzano le perdote. Tanto per chiarire una cosa poi è il bancario (quante mensilità hanno? :o ) ed altro è il lavoratore metalmeccanico che perde il posto.

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