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Gli effetti (veri) del Jobs act

Discussioni e proposte, prospettive e strategie per il Paese

Gli effetti (veri) del Jobs act

Messaggioda trilogy il 13/02/2017, 13:54

Gli effetti (veri) del Jobs act

Una delle poche riforme strutturali degli ultimi 25 anni è nel mirino delle critiche. Ma ha inciso su occupazione stabile e sicurezza di chi ha perso il posto. Anche se il tema resta creare più lavoro per i giovani
di Maurizio Ferrera

Tabelle:
http://www.corriere.it/economia/17_febb ... 45b6.shtml

Sul Jobs act è in atto un vero e proprio tiro al piccione. Eccettuati (alcuni) esperti, gli unici a parlarne bene sono ormai i commentatori stranieri. Dal dibattito politico nazionale solo critiche. In parte si tratta di mosse tattiche in vista delle scadenze elettorali. Ma questa spirale di rimproveri riflette anche un tratto profondo della cultura politica nazionale: l’eccesso di aspettative nei confronti delle norme di legge, l’intolleranza dei limiti che la realtà inevitabilmente impone, il conseguenze disfattismo, secondo cui ci sarebbe voluto «ben altro» per risolvere i problemi. Una sindrome auto-lesionista, che non ci consente di cogliere i progressi lenti e graduali, svaluta il pragmatismo e alimenta la sfiducia dei cittadini.

Modello flexicurity

Il Jobs act merita invece una discussione seria. Valutarlo non è facile: i suoi effetti si dispiegano lentamente nel tempo. Per catturarli bisogna avere dati precisi e utilizzare metodi controfattuali: che cosa sarebbe successo se non fossero cambiate le regole? Prima ancora di procedere su questa strada, è bene però riflettere sul provvedimento in sé: i suoi obiettivi generali erano in linea con le sfide sul tappeto? Negli ultimi due decenni, la maggior parte dei Paesi europei ha riorientato le politiche del lavoro verso la cosiddetta flexicurity, un modello sviluppato dai Paesi nordici e basato su regole flessibili per assunzioni e licenziamenti e tutele robuste (compresi i servizi) in caso di disoccupazione. Il Jobs act può essere considerato la «via italiana» verso quel modello. Un percorso di cui si iniziò a parlare già negli anni Novanta, ma mai seriamente imboccato. Con il risultato che il mercato occupazionale italiano è diventato uno fra più segmentati della Ue: posti di lavoro permanenti con ammortizzatori molto generosi, da un lato, e contratti a termine o «atipici» (come i co.co.co.) praticamente privi di protezioni, dall’altro. A seguito di un’enorme espansione dei secondi, soprattutto per i giovani, il nostro Paese aveva inaugurato un modello perverso che Stefano Sacchi e Fabio Berton hanno definito flex-insecurity: precarietà senza tutele. Su questo sfondo, il Jobs act si è posto due obiettivi: ridurre rigidità e dualismi, offrendo più opportunità di occupazione stabile e al tempo stesso maggiore flessibilità alle imprese; superare la polarizzazione fra garantiti e non garantiti in termini di protezione sociale. I vari strumenti della riforma potevano essere disegnati meglio? Certamente, soprattutto col senno di poi. Lo stile comunicativo di Renzi ha alimentato l’eccesso di aspettative? D’accordo, nessuno è senza colpe. Ma il Jobs act va contato fra le non molte riforme strutturali che il nostro Paese è riuscito a produrre nell’ultimo venticinquennio, nel tentativo di avvicinarsi agli standard europei sul piano dell’efficienza e dell’equità.

Gli effetti concreti

Cosa si può dire degli effetti concreti? Le valutazioni più affidabili segnalano che il Jobs act ha inciso positivamente sull’occupazione stabile: dopo la sua introduzione vi è stato un significativo aumento dei contratti a tempo indeterminato, sia rispetto al passato (prima tabella) sia rispetto ad altri Paesi, come Spagna o Francia (seconda tabella). In base a dati provvisori, sembra che la tendenza sia continuata anche nel 2016. I critici sostengono che si sia trattato di un incremento «drogato» dalla decontribuzione, ma trascurano due aspetti. Tutti i paesi Ue hanno investito grosse somme in sussidi alle nuove assunzioni nell’ultimo triennio. Inoltre, all’estero gli oneri sociali sono strutturalmente più bassi. L’esperimento della decontribuzione conferma che il nostro costo del lavoro è troppo alto e disincentiva le assunzioni. Occorre riflettere su come redistribuire il finanziamento del welfare fra i vari tipi di reddito. Il Jobs act ha avuto effetti positivi anche sulla sicurezza economica di chi perde il lavoro. Alla Naspi possono oggi accedere praticamente tutti i lavoratori dipendenti, compresi gli «atipici» (tabella 3), con importi e durate fra le più alte in Europa. Rispetto agli altri Paesi, il welfare italiano ha sempre avuto buchi enormi in questo settore. Nessuno lo sottolinea, mai il Jobs act ci ha fatto fare un salto di qualità in termini di cittadinanza sociale: le nuove prestazioni sono infatti diritti soggettivi, che non dipendono più da mediazioni politico-sindacali. La Cassa integrazione è stata finalmente ricondotta alla sua funzione fisiologica di risposta alle crisi temporanee.

Debolezze storiche

L’aspetto più problematico del Jobs act riguarda le politiche attive. L’attuazione di questa parte della riforma è in grave ritardo. Qui scontiamo debolezze davvero storiche, che riguardano in generale l’efficienza e la mentalità della nostra pubblica amministrazione, nonché la frammentazione regionale. Ma il governo avrebbe potuto fare di più. I servizi per l’impiego sono l’architrave della flexicurity. Su questo aspetto, le critiche colgono nel segno. Il Jobs act non è riuscito a dispiegare il suo potenziale per incidere non solo sulle forme, ma anche sui livelli e la qualità dell’occupazione, soprattutto giovanile. Il lavoro dei giovani resta purtroppo un’emergenza nazionale. Ricordiamo però due cose. L’Italia ha un’incapacità strutturale di creare posti di lavoro che si porta dietro dagli anni Cinquanta e che è stata esacerbata dalla grande recessione. Inoltre, i livelli occupazionali dipendono da moltissimi fattori (autonome decisioni delle imprese, congiuntura, investimenti, capitale umano e così via), solo in parte controllabili per via legislativa. Dall’estate 2014 alla fine del 2016 gli occupati sono comunque aumentati di circa 700 mila unità (Istat). Con le luci e le ombre che sempre accompagnano ogni riforma, il Jobs act ha segnato una svolta positiva. Fermiamo il tiro al piccione e avviamo una pacata discussione su come colmarne le lacune e potenziarne gli effetti positivi. Elaborando nuove proposte per le tante sfide che esulano dal perimetro di attenzione e di azione del Jobs act e che richiedono ulteriori e incisivi provvedimenti.

12 febbraio 2017 (modifica il 13 febbraio 2017 | 09:37)
http://www.corriere.it/economia/17_febb ... 64d9.shtml
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Re: Gli effetti (veri) del Jobs act

Messaggioda mariok il 13/02/2017, 14:14

nota di servizio:

l'articolo era già stato postato in altro 3d

viewtopic.php?f=4&t=8938&p=90002#p90002
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Re: Gli effetti (veri) del Jobs act

Messaggioda trilogy il 13/02/2017, 14:27

Non avevo visto il post.inserito altrove anche se è un'analisi che può meritare uno spazio ad hoc. :mrgreen:
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Re: Gli effetti (veri) del Jobs act

Messaggioda ranvit il 15/02/2017, 9:19

L’Italia cresce grazie ai privati, il freno sono Pa e sindacati
Leggere bene i dati dell’Istat prima di fare paragoni con Atene e lodare la concertazione (vero Sole 24 Ore?)
di Renzo Rosati
14 Febbraio 2017 alle 20:37

Roma. L’aumento del Pil confermato martedì dall’Istat, dopo le anticipazioni della Commissione europea – più 0,2 nel quarto trimestre 2016, più 0,9 nell’anno, più 1,1 rispetto allo stesso periodo del 2015 – non è ovviamente tale da brindare a champagne, ma neppure da abbandonarsi a lamentazioni nazionali. Di fatto se si guarda ai dati tendenziali, al paragone anno su anno, l’Italia cresce quanto la Francia. Andrebbe dunque meglio interpretata, se non aggiornata, la mappa nelle varie sfumature di azzurro esibita a Bruxelles, che per crescita vede il paese in coda all’Europa e ha scatenato il sensazionalismo mediatico: “Facciamo peggio della Grecia (più 2,7)! La Romania (più 4,4) ci fa mangiare la polvere!”. Innanzi tutto: davvero cambieremmo la nostra economia (e società) con quelle greche, bulgare, romene? E lo stesso dovrebbero fare Germania, Gran Bretagna, Francia, il cui prodotto nazionale è cresciuto di un terzo rispetto a Sofia?

La realtà è molto diversa, la sua analisi non richiede un grande sforzo, se solo ci si provasse, e ha a che fare con l’Europa a più velocità immaginata da Angela Merkel, altro discorso che qui è stato liquidato come la solita tentazione da Reich. Proprio da quella cartina si vede che l’Europa merkeliana è già un dato di fatto, non il desiderio della Cancelliera di “spedire in serie B” qualcuno. Lasciando perdere la Grecia e i suoi guai, l’est continua a crescere a livelli sostenuti – Croazia, Slovenia, Ungheria e Polonia sono tutte oltre il 3 per cento – beneficiando di società più povere ma molto più flessibili dell’Europa centrale, con contratti di lavoro quasi da paesi cacciavite, spesa pubblica più bassa (e prestazioni sociali ridotte), minore indebitamento dello stato e soprattutto tassazioni ridotte. Tutto il contrario del nucleo “core” dell’Europa centrale: molto stato sociale, anche molto politically correct, alte tasse e debiti. Qui la differenza a favore della Germania la fanno il rigore sui conti e la produttività, dell’industria privata e del settore pubblico.

Poi ci sono Irlanda e Spagna (più 3,4 e 2,3 di crescita) la cui rapidità nel tirarsi fuori dal soccorso europeo è dovuta ai contratti flessibili anche privati, alla tenuta del settore finanziario, alle tasse più basse, ai servizi che funzionano e attraggono capitali. Questa lettura dei dati, già presente nell’ultimo outlook del Fondo monetario internazionale, porta a una conclusione: per crescere quanto l’Europa centrale l’Italia ha bisogno di produttività e fiducia nel settore privato, e di cambiare radicalmente usi e costumi nella Pubblica Amministrazione. I privati si stanno rimboccando le maniche: a dicembre la produzione industriale è cresciuta del 6,6 su base annua, miglior risultato dal 2010. Come al solito la parte del leone l’hanno fatta le auto (leggi Sergio Marchionne): più 9,2 a dicembre, più 20,6 nel mese. Ma altri settori si rimettono in moto, perfino la siderurgia, e su questo incidono le aspettative per i contratti di produttività aziendale firmati nei mesi scorsi, che Fca applica da anni. E ne è causa e conseguenza anche il Jobs Act. Un bilancio esauriente pubblicato dal Corriere della Sera è stato elaborato da Marco Centra e Valentina Gualtieri (il primo docente di Statistica alla Sapienza e responsabile del servizio statistico dell’Isfol, la seconda ricercatrice sempre all’Isfol) su dati Sisco, il sistema informativo unico dei contratti del ministero del Lavoro.

Solo nel 2015, in otto mesi, il Jobs Act ha prodotto 714 mila nuovi contratti a tempo indeterminato, al netto delle cessazioni; l’occupazione temporanea è scesa all’11 per cento sul totale degli occupati, tre punti meglio della Francia e quasi al livello della Germania, con il 18 per cento di trasformazione di lavori temporanei in stabili. “Tendenze, in base a dati provvisori, proseguite nel 2016”. Eppure che fa la Cgil? Con un dossier della Fondazione Di Vittorio presentato per lanciare la campagna referendaria anti voucher denuncia la “svalorizzazione del lavoro, la sua precarizzazione, la continua crescita delle diseguaglianze, il freno allo sviluppo, la crescente sfiducia”. Un bello slogan, peccato che sbatta con la realtà. Mentre fa venire in mente una domanda: come mai la confederazione di Susanna Camusso è stata l’unica a contrastare gli accordi aziendali di Fca, che hanno rilanciato stabilimenti irrecuperabili come Pomigliano, fruttato bonus annui da 1.400-1.900 euro, e quindi ridotto le diseguaglianze, contribuito al Pil, quasi eliminata la cassa integrazione la quale, dice il rapporto sul Jobs Act “è stata ricondotta alla funzione di risposta alle crisi temporanee”?
Ma non solo Cgil.

Che cosa scrive il Sole 24 Ore, quotidiano della Confindustria? Da giorni dedica grande spazio alla riforma del pubblico impiego, i cui decreti attuativi sono oggetto di confronto fra governo e sindacati in vista della operatività. Si va dalle assenze furbastre punibili (si spera) con il licenziamento, alla produttività e ai contratti che dovrebbero evitare gli aumenti a pioggia. Il 24 Ore celebra però “il ritorno alla centralità dei contratti nazionali”, abbandonata (ingiustamente secondo il giornale confindustriale) nel 2009, in èra Brunetta e con gli accordi senza la Cgil. Ora “la parola d’ordine è la restituzione della materia ai contratti nazionali ridando alle relazioni industriali i compiti che la riforma del 2009 aveva tolto”. Una beatificazione senza distinguo della concertazione che in questi decenni ha prodotto nell’amministrazione pubblica risultati tipo: zero contributo al Pil (Istat, terzo trimestre 2016), inefficienze, sprechi e abusi pari a 16 miliardi l’anno (Cgia di Mestre su dati del Fmi), illicenziabilità dei lavativi e retribuzioni a pioggia, variabile indipendente dal merito e dai servizi forniti. Insomma, una bella mano alle diseguaglianze e alla sfiducia, direbbe la Cgil. Solo che sfugge al quotidiano dell’imprenditoria privata; che però ha in prima pagina “l’Italia che arranca”: e non si chiede il perché?

http://www.ilfoglio.it/economia/2017/02 ... ti-120496/
Il 60% degli italiani si è fatta infinocchiare votando contro il Referendum che pur tra errori vari proponeva un deciso rinnovamento del Paese...continueremo nella palude delle non decisioni, degli intrallazzi, etc etc.
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Re: Gli effetti (veri) del Jobs act

Messaggioda pianogrande il 15/02/2017, 11:41

Mi piace il concetto di diseguaglianza espresso alla fine.

Insieme all'evasione fiscale (che non va mai dimenticata nemmeno quando parliamo del tempo che fa) l'altra colossale diseguaglianza del nostro paese è quella tra i dipendenti pubblici e i dipendenti privati.

Sarà perché i soldi pubblici non sono di nessuno?
Fotti il sistema. Studia.
pianogrande
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