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Habilis

Discussioni e proposte, prospettive e strategie per il Paese

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Messaggioda flaviomob il 09/04/2013, 13:05

A Lucca, a parlare di Abilità…

di Franco Bomprezzi

Già. Me lo hanno chiesto con garbo, dando quasi per scontato che avrei detto di sì. E aveva ragione Giulio Sensi, blogger e molto altro. Ho detto di sì. Poi mi sono reso conto dell’enormità. Chi sono io per parlare, al festival del Volontariato di Lucca, di “abilità”? Non ho titoli accademici, sono al massimo un cavaliere a rotelle, e un giornalista da tanto tempo. Poi, fra l’altro, convivo dalla nascita con una “dis-abilità”, frutto degli esiti impazziti del dna, che ha giocato al piccolo chimico, regalandomi ossa fragili e testa dura.

E soprattutto, che cosa vuol dire, oggi, parlare di “abilità” in un mondo che costantemente ti chiede di essere “performante”, “veloce”, “flessibile”, possibilmente anche “bella presenza”? Ho accettato da incosciente, ora lo so. Curiosamente mi introdurrà, sabato mattina, uno dei protagonisti dell’associazione “Diversamente disabili” che molto concretamente racconta esperienze possibili di promozione dello sport, anche dopo una menomazione determinata da un incidente. La loro vivacità mi aiuterà a tagliar corto, e a non fare troppo il filosofo. Ma il punto resta.

Abilità è una parola strana. Viene dritta dal latino, da “habilis”. Dove, guarda un po’, c’è un “acca” che non si legge, è muta. Abile è dunque “colui che possiede”. Ma che cosa possiede? Direi soprattutto la percezione di se stesso. La stima di sé. Il rispetto per sé. Abilità è dunque avere cognizione delle proprie capacità, in qualunque forma si manifestino. E dunque mettere la persona al centro. Non lasciarsi guidare dagli altri, ma tornare alla saggezza dei greci: “conosci te stesso”. Abilità è il contrario di inganno, di ipocrisia, di pietismo. Non è è non deve essere una forzatura, ma una constatazione.

Parliamo di “abilità” perché ne conosciamo la versione “dis”. Senza il difetto, senza la mancanza, un ragionamento sull’abilità sarebbe fuorviante, assurdo, teorico. Il fatto è che il termine “abilità” è autoassolutorio per tutti coloro che sono convinti di essere “abili” e giudicano dunque, con il loro metro di supposta “normalità”, ogni situazione, ogni relazione umana. Il “dis”, questo prefisso di svantaggio, che a molti dà fastidio, crea agitazione emotiva, fino a preferire il “diversamente”, versione edulcorata e fuorviante della solidarietà umana, è invece un prefisso fondamentale per fotografare l’esistente, per renderne conto, per renderlo compatibile con il quadro delle relazioni, del contesto sociale, ambientale, culturale.

Orgoglioso della mia disabilità. Sì, posso dirlo. Non per rivendicare una specie di aristocrazia dell’handicap, ma perché mi sono reso conto, nel trascorrere degli anni e dei decenni, che il lungo lavoro interiore su di me, sulle mie abilità, sui miei difetti, sui miei limiti, sulle aspettative degli altri, sul pregiudizio e sullo stigma, sul senso della partecipazione, del servizio, del volontariato e della professione, mi ha plasmato fino a raggiungere uno stato di benessere mentale, e di relativa soddisfazione, che forse spiega come mai, adesso, mi si chieda di render conto anche dell’uso delle parole.

Le parole infatti sono pietre, sono mattoni. Possiamo, con le parole, erigere muri e pareti, oppure costruire ponti e pavimenti, delimitare finestre. “Abilità” oggi significa prima di tutto riconoscere la persona, accoglierla e accettarla così com’è, offrire opportunità, strumenti, supporti, perché le abilità di ciascuno siano a disposizione di tutti. Chi vive su di sé la disabilità può davvero essere una risorsa per un Paese impegnato ad affrontare il cambiamento e la crisi. Ma se rimane, invece, un peso e un problema, lo si deve, forse, a quell’idea balzana di abilità come “onnipotenza” e “superiorità”. Le abilità, ad esempio, comportano come corollario le “competenze”. E in questo senso le persone con disabilità, fisica, sensoriale, ma anche intellettiva, sono giacimenti di competenze, di esperienze, di soluzioni di problemi.

Il volontario si interroga spesso sul senso del proprio impegno, e quando incrocia, o cerca, la disabilità, spesso arriva a concludere di essere “arricchito”, di “ricevere” più di quanto in effetti si è donato, in termini di impegno, di tempo, di gratuità. Ecco, io penso che anche questo luogo comune andrebbe superato e rivisto. Penso al film “Quasi amici” e alla reciprocità della relazione. E’ lo scambio alla pari che ci deve guidare. E questa, forse, è la nuova “abilità” da costruire insieme.

http://blog.vita.it/francamente/2013/04 ... i-abilita/


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Re: Habilis

Messaggioda flaviomob il 10/04/2013, 12:52


Autismo a colpi di forbice


di Franco Bomprezzi

Per quale motivo un episodio di cronaca, gravissimo, come l’arresto di un’insegnante di sostegno e di un’assistente educativa, a Vicenza, per i maltrattamenti inferti a colpi di bacchetta, righello e forbice, nei confronti di un ragazzo con sindrome autistica, stenta a trovare una eco adeguata a livello mediatico? Me lo ha chiesto stamattina, a bruciapelo, l’amico e collega Gianluca Nicoletti, che conduce splendidamente Melog, il programma di Radio 24. La mia risposta ha a che fare con il giornalismo, con un mestiere nel quale la competenza, nel campo sociale, è purtroppo scarsa. Ma il punto è forse ancora più doloroso. Una vicenda come questa è imbarazzante per la sua sostanza, perché in molti, forse troppi, ritengono ancora che un ragazzo con una disabilità impegnativa e difficile da affrontare come l’autismo dovrebbe essere “curato” in luoghi diversi dalla scuola, e comunque seguito direttamente dai genitori, senza essere un “problema” per la scuola.

Ovviamente nessuno lo dice in modo aperto. Ma le forbici non sono soltanto quelle che avrebbero usato le due persone cui il ragazzo era stato affidato (il condizionale è solo per rispetto delle garanzie nei confronti di persone inquisite per reati gravi). Le forbici sono anche quelle di una censura non dichiarata, strisciante e subdola. Oggi il programma di Nicoletti avrebbe dovuto occuparsi soprattutto di parole, e del “parlare civile”, come viene descritto nel bel libro pubblicato da Bruno Mondadori e frutto del lavoro dell’agenzia di stampa “Redattore sociale” che su questo tema ha organizzato un importante seminario per giornalisti e operatori della comunicazione a Roma, il 18 aprile prossimo.

Il fatto è che le parole, come spesso abbiamo scritto anche qui (di recente con l’ottimo post di Claudio Arrigoni), sono pietre, e funzionano come filtri per non raccontare la realtà, per chiamarsi fuori, attraverso l’uso degli stereotipi e dei luoghi comuni. Com’è possibile che una vicenda drammatica e dolorosa – scoperta solo grazie all’intuito dei genitori (il ragazzo autistico ovviamente non parlava, ma manifestava, negli ultimi tempi, un autentico terrore nel momento di essere accompagnato a scuola) e alla collaborazione dei carabinieri, che hanno creduto alle parole del padre e hanno svolto indagini eccellenti, con uso di telecamera nascosta – rimanga confinata nelle cronache di provincia oppure nello spazio dell’eccellente blog di Nicoletti, che peraltro è padre di un ragazzo con autismo?

Temo che una ragione – terribile – sia da ricercare nella corretta e doverosa mancanza di immagini. In questo caso non c’è un video da far circolare sul web o nei talk show televisivi. Non c’è nessuno che insegue col microfono in mano. C’è soltanto la notizia, vera e documentata, e i carabinieri hanno semplicemente dichiarato di aver utilizzato la telecamera e la registrazione audio, ma definendo “insopportabili” le scene alle quali hanno assistito. Ci hanno risparmiato dunque le “sevizie in diretta”. E ormai, in un mondo che sembra drogato dalla “civiltà” dell’immagine, anche un fatto come questo non “buca” il muro dell’indifferenza. E la reazione di tutti, in qualche modo, diventa paradossalmente autistica: un disagio forte, una difficoltà a comunicare, un silenzio privo di spiegazioni razionali. Vorrei sbagliarmi. Parliamone.

http://invisibili.corriere.it/2013/04/1 ... i-forbice/


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