OLTRE LE MIMOSE
L’onda lunga delle donneÈ il giorno più politico per ricostruire insieme.
Siamo alla presenza di una nuova antropologia permettere in discussione l’andro-centrismo e uscire dalla nicchia Con un pensiero che unisce e finalmente deborda dai confini
NOI DONNE NON REGALIAMO MIMOSE. OGNI ANNO ANCHE GLI SCONOSCIUTI CI OFFRONO FIORI, COME NEL GIORNO DEI MORTI, per abitudine o per devozione a un mistero dell’immaginario nazionale.
Quest’anno stimiamo un’inversione di tendenza. Qualcuno acquisterà certamente un mazzetto di fiori, all’uscita della metro. Pagandolo forse più del dovuto. Ma non c’è dubbio: gli uomini stanno cambiando. O così vogliamo credere. Questo otto marzo non sarà una festa e non sarà una ricorrenza. In Italia non si annuncia una primavera anticipata: sulle donne tira lo stesso vento, lo stesso soffio di incredula disperazione che sfiora il cuore profondo dell’Italia. È una un’aria strana, non mappata dalla rosa dei venti. Non sappiamo distinguere il Libeccio dal Maestrale. È tutto così freddo, e caldo, insieme. Per la prima volta, allora, la giornata internazionale delle donne sarà la giornata del Paese. Il giorno più politico per l’Italia. Abbiamo infatti bisogno di pensare a quello che c’è da fare, insieme, mentre intorno tutto è incerto, e frana nella crisi, come nella «Bufera» di Montale. Anche se le elezioni del 25 febbraio ci restituiscono un risultato storico, non stappiamo lo spumante. Nella legislatura appena conclusa la presenza delle donne era pari al 21% alla Camera e al 19% al Senato: nel nuovo Parlamento le donne saranno il 32% alla Camera e il 30% al Senato. Ma basta guardare i dati delle regionali del Lazio (dei 40 consiglieri eletti col sistema delle preferenze, solo 5 sono donne. Al dato si aggiungono le 5 donne elette nel listino, portando la presenza femminile al 20%) per capire che proprio ora non si può cedere alla tentazione di giocare, noi donne, il ruolo delle metafore. Non possiamo offrirci per puntellare simbolicamente le rovine di questa Terra Desolata. Non dobbiamo dire grazie a nessuno, se non a noi. Ci abbiamo messo tempo e fatica - il lavoro è ancora in corso - per uscire dalla vulgata delle «quote» e dal concetto di tutela. In questo scorcio iniziale di millennio, la stessa democrazia viene messa sul banco degli imputati. Tutti vogliono intestarsi rivoluzioni. Palingenesi. Cambi di sangue. E allungano, come vampiri, i canini sul collo delle nuove generazioni.
L’unica parola nuova viene dalle donne - «democrazia paritaria» - espressione troppo sbrigativamente derubricata sotto la voce «rappresentanza». Si tratta di un pensiero difficile da decifrare nei tempi compulsivi di twitter, delle adesioni istantanee di facebook. Perché stavolta dietro il claim c’è anche un pensiero. Un lavoro di fino, e di fatica, che viene da lontano.
La posta in gioco non è una nuova lobby a uso e consumo del genere femminile. Non stiamo parlando di nicchie di mercato politico. Di targeting. Di «indice Klout» e altri algoritmi alla Casaleggio. Non c’è nessun profetismo all’orizzonte. Siamo oltre la propaganda binaria del vecchio contro il nuovo. Della femmina contro il maschio. Dell’acciaio contro l’elettricità. Della vittima contro il carnefice. È ora di dirlo: un voto on line non ci salverà l’anima nel sistema solare.
Stiamo parlando di una nuova antropologia. Una rivoluzione che scuote le fondamenta del pensiero. Il nostro essere al mondo. Non è un mantra per calmare gli animi irrequieti dell’Occidente. Qui si mette in discussione l’androcentrismo due punto zero. Noi donne siamo già oltre il movimento millenaristico della rete, che promette la salvezza universale: stavolta, come sempre, la verità discenderebbe da un uomo solo, un carismatico, e si propala come un riverbero. Come luce riflessa verso milioni di corpi altrimenti opachi.
Invece ci vuole più rigore, vera gioia e vera umiltà. Il nuovo pensiero delle donne, per fortuna, deborda dai nostri confini. È digitale e concreto. Non ha profetesse. Non divide ma unisce.
È in India, in Russia, in Bangladesh, in Africa. Contagia tutti i continenti. E, volendo, perfino lo Stato del Vaticano.
In questo otto marzo noi donne noi siamo nicchia. Abbiamo un’egemonia culturale. Per capire la Storia adesso si passa da noi. Con noi. Siamo nel cuore di un nuovo pensiero meno spiccio della lotta tra globale e locale. Abbiamo tracciato il discrimine filologico della parola «femminicidio»; abbiamo detto che nel crollo del welfare le donne non intendono supplire al lavoro di cura; abbiamo raccontato le nuove forme di famiglia, di maternità, di libertà, di lavoro. Di violenza. Abbiamo i dati, ma non ce ne facciamo niente: siamo le più laureate e le meno occupate. Siamo ancora divise tra il doppio lavoro, e il doppio sfruttamento. Siamo donne in nero.
Siamo donne invisibili. Una su due non ha occupazione, e non la cerca più. Gli accordi di Lisbona ci dicono che potremmo sollevare il Pil nazionale del 7 per cento, raggiungendo l’obiettivo occupazionale del 60%. Ma oggi le statistiche sono fredde. Inservibili. E il Pil, lo sappiamo, è un parametro che gli esperti di decrescita ci invitano a rottamare. Ma non ci troveranno impreparate. Il pensiero delle donne è tranquillamente travolgente. Un’onda feconda, non uno tsunami. Non devasta i campi come una piena eccezionale, ma porta acqua dove serve. Inforcando le lenti della storia, possiamo dire che la grande ondata del 13 febbraio 2011 di Se non ora quando aveva già rimesso in circolo gli anticorpi per guarire la nostra povera patria: la dignità del Paese, la qualità della vita e delle relazioni tra le donne e gli uomini. Non si è trattato di una sciabolata postmoderna, né di un colpo di teatro. Quei milioni di donne e di uomini in piazza erano già oltre la mitologia, tardonovecentesca, della bandiera dei dirittti individuali. Dell’io per tutti. Il 13 febbraio 2011 è stata la prefigurazione di un nuovo sentimento condiviso.
Quest’anno le donne non ricevono e non offrono. Tutt’al più mettono in comune. C’è da ricostruire, pezzo a pezzo, la casa comune che ancora ci ostiniamo a chiamare democrazia.
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