da flaviomob il 02/11/2011, 1:11
«Serve una svalutazione pilotata dell'Euro»
di Vincenzo Visco
Nei ragionamenti e nelle discussioni sulla situazione e i problemi economici attuali emerge una certa confusione, talvolta un uso improprio di argomentazioni valide in un contesto diverso. Cerchiamo di chiarire alcuni punti:
A) con la grande crisi finanziaria iniziata nel 2007 e tuttora in corso, si sono prodotte una frattura e una discontinuità evidenti: una intera fase storica dell’economia mondiale e del capitalismo, quella iperliberista inaugurata dalle riforme di Reagan e Thatcher, sembra essersi (catastroficamente) conclusa. Del resto il modello di sviluppo che era stato messo in azione assomigliava come una goccia d’acqua a quello prevalente dall’inizio del secolo scorso, sfociato nella grande crisi del 1929-‘33. Non è un caso, quindi, che anche la teoria economica sottostante sia stata messa in discussione e che sia oggi in corso un dibattito teorico approfondito che riguarda l’adeguatezza dei modelli macroeconomici, il ruolo della moneta e della finanza, i compiti delle banche centrali, il sistema monetario internazionale, la regolamentazione dei mercati e delle banche. La conclusione di questi dibattiti richiederà tempo, ma non c’è dubbio che esiste un problema di legittimazione per l’analisi economica tradizionale, e si affaccia un problema ben più serio di legittimazione della stessa organizzazione dei sistemi economici attuali e cioè del capitalismo liberista: infatti l’accettabilità di un sistema economico-sociale risiede nella sua capacità di soddisfare i bisogni dei cittadini, cioè di produrre reddito, occupazione, crescita, opportunità, e di farlo in modo accettabile dal punto di vista dell’equità.
Il passaggio attuale è quindi ben più complesso di quanto molti abbiano finora percepito: nonostante che tra gli economisti ma ancora di più tra i politici (soprattutto quelli che si reputano e vengono considerati «più moderni»), esistano non pochi orfani tuttora inconsapevoli del decesso del padre, la discontinuità rispetto al passato recente si manifesterà in concreto in modo inevitabile. Questi cambiamenti sono già in corso sia pure faticosamente e si riflettono nella radicalizzazione delle posizioni politiche, dal tea party al movimento degli indignati negli Stati Uniti, nell’elaborazioni recenti della Chiesa cattolica, nel dibattito in corso nei partiti della sinistra.
Tuttavia un nuovo coerente e diviso paradigma di riferimento per la riorganizzazione delle economie per il futuro ancora non esiste; anzi vi è molta confusione in giro. Questo fa sì che (soprattutto in Italia) le critiche al modello di sviluppo neoliberista che vengono avanzate siano immediatamente interpretate (e distorte) come nostalgia per una economia statalista, dominata da politici e sindacalisti, burocratica e sprecona. E in effetti bisogna riconoscere che il pericolo di riesumare (magari inconsapevolmente) il passato remoto, mentre si critica il passato prossimo, è presente: la necessità di recuperare un ruolo rilevante per la funzione di regolazione dell’economia da parte degli Stati e delle autorità sovranazionali, nonché di recuperare autorevolezza per la funzione politica, non coincide affatto con la riproposizione di modelli organizzativi e culturali tipici degli anni anni 50 e 60 del secolo scorso.
B) La crisi ha prodotto anche in Europa un aumento dei disavanzi e dei debiti pubblici che hanno fatto emergere problemi piuttosto seri, problemi relativi alla sua interpretazione e gestione e che riflettono la difficoltà (anche culturale) di procedere ad una modifica del funzionamento tradizionale del sistema economico europeo. Fondamentale è stata in proposito la posizione della Germania. In Europa si è affermata una singolare inversione del rapporto causa-effetto per quanto riguarda la relazione tra crisi debiti e disavanzi. Mentre è del tutto ovvio che è stata la crisi economica a far lievitare i disavanzi e i debiti di tutti i paesi, in Europa si sostiene che sono stati i disavanzi e i debiti dei paesi periferici dell’Unione a determinare la crisi, e quindi si prospettano e si impongono a tutti i paesi interventi restrittivi che avranno l’effetto sicuro di mandare in recessione l’economia dell’intero continente, e che rischiano di mettere in crisi l’Euro e l’intera economia mondiale. Criticare questo approccio è quindi legittimo e doveroso.
Il fatto è che la crisi finanziaria ha rappresentato uno choc esterno non previsto che ha evidenziato i limiti ben noti della costruzione dell’Euro con un ruolo limitato della Banca Centrale, e senza politica fiscale comune. A queste carenze si è aggiunto il riflesso nazionalistico che ha coinvolto i principali paesi forti della zona Euro inducendoli ad un atteggiamento antagonistico e punitivo nei confronti dei paesi periferici, con la conseguenza di decidere interventi di sostegno sempre tardivi, sempre insufficienti, e sempre più costosi: se la Grecia fosse stata salvata un anno e mezzo fa la crisi dell’Euro non si sarebbe mai manifestata. Ed infatti oggi l’Europa si trova nella situazione paradossale che in presenza di un debito complessivo dei paesi della zona Euro pari all’85% del Pil, il costo del suo finanziamento risulta fortemente superiore a quello di Stati Uniti, Regno Unito e Giappone che si trovano in situazioni peggiori. Il fatto è che i paesi dell’ex zona del marco accusano i «pigs» di avere approfittato dell’introduzione dell’Euro e della riduzione dei tassi di interesse per evitare di mettere in ordine le loro finanze pubbliche o per finanziarie bolle speculative nei mercati domestici (free-rating); ed è difficile dare loro torto. Al tempo stesso però questi paesi dimenticano di avere approfittato dell’Euro che risulta svalutato di circa il 40% a quello che sarebbe stato il valore del marco per inondare gli altri paesi con le loro esportazioni senza sostenere la crescita comune dell’Eurozona. In altre parole l’accusa di free-rating si può estendere anche a loro.
In conclusione la politica corretta che l’Unione dovrebbe seguire oggi è molto semplice e molto diversa da quella posta in essere: i Paesi in deficit dovrebbero attuare politiche restrittive (come stanno facendo) ma quelli in surplus dovrebbero espandere, e la Bce dovrebbe accompagnare tale strategia con una politica monetaria accomodante, senza nessun rischio di inflazione, pilotando una svalutazione limitata dell’Euro. Di ciò bisognerebbe discutere apertamente in sede europea per far maturare una consapevolezza che oggi non c’è.
C) Come si colloca la situazione italiana in tale contesto? L’Italia presenta una sua specificità che la differenzia non solo dagli Stati Uniti ma anche dagli altri grandi Paesi europei. Aver accumulato un enorme debito pubblico negli anni 80, ed aver lasciato svanire il surplus primario (5,5% del Pil) trasmesso in eredità dai governi di centrosinistra nel 2001, ha fatto sì che la discesa accelerata del debito pubblico si arrestasse e che la dinamica della spesa pubblica continuasse. Al tempo stesso la necessità di riforme utili a rimettere in moto un processo di crescita è stata ignorata, con la conseguenza di una stagnazione del reddito e una insufficiente creazione di posti di lavoro; così l’impatto della crisi è stato enorme (-6,5% del Pil tra il 2008 e il 2009) e la ripresa lenta e insufficiente. Ora i nodi sono venuti al pettine nella inconsapevolezza dell’opinione pubblica che è confusa disorientata e arrabbiata, e non capisce e non accetta la necessità di sacrifici. Le polemiche contro il neoliberismo o gli errori delle politiche europee sono giuste e possono servire ad aumentare la consapevoleza dell’opinione pubblica ma non sono di grande aiuto, anzi non sono neanche pertinenti, rispetto alla soluzione dei nostri problemi che vengono da lontano e sono sempre gli stessi. Non resta che affrontarli con consapevolezza, determinazione ed equità. Berlusconi e Tremonti non lo hanno fatto e non sembrano in grado di farlo. È bene essere consapevoli che la rinuncia ad interventi immediati ed adeguati sarebbe molto più costosa, anche politicamente, degli interventi stessi.
1 novembre 2011
L'Unità
"Dovremmo aver paura del capitalismo, non delle macchine".
(Stephen Hawking)