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Berlusconi, il capitombolo e l'economia al palo

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Berlusconi, il capitombolo e l'economia al palo

Messaggioda franz il 13/10/2011, 10:43

L'agonia del governo Berlu­sconi ha un nuovo capito­lo: la bocciatura alla Ca­mera, per un voto, assenti il ministro dell'Economia e altri par­lamentari, del rendiconto dello Sta­to. Ora, più che riformulare o meno la legge e ripresentarla, il centrode­stra dovrà chiedersi se e come potrà arrivare al voto del 2013 con una maggioranza risicata e ballerina. È soprattutto di questo aspetto che si discute in Italia. Così, nessuno parla del capitombolo dal quale è difficile che il Paese si risollevi. Il bi­lancio dello Stato registra - al net­to degli interessi del debito - un sal­do attivo. Le entrate superano le uscite. Sarebbe una buona notizia, se fosse accompagnata da quella che l'economia cresce. Invece, la cre­scita è di poco superiore allo zero. La buona notizia diventa, allora, una cattiva notizia perché rivela che gli italiani lavorano più per lo Stato - sei mesi l'anno per pagare le tasse - che per se stessi.

Ci sarà qualche statalista che di­rà che gli italiani, lavorando per lo Stato, lavorano per sé. Ma è falso. Quando i bolscevichi na­zionalizzarono i mezzi di produ­zione, si illusero che avrebbero eliminato in tal modo lo sfrutta­mento dell'uomo sull'uomo, cioè l'accumulazione capitalistica pri­vata di ricchezza. Ma, poi, quan­do lanciarono l'industrializzazio­ne del Paese, scoprirono che sen­za accumulazione di ricchezza non si va da nessuno parte.
Lo sfruttamento dell'uomo sull'uo­mo rispuntò ad opera dell'accumu­lazione da parte del capitalismo di Stato; la nomenklatura pubblica occupò ogni settore della società ci­vile, i cittadini si impoverirono e il Paese crollò (nel 1991). Con le ov­vie e dovute proporzioni, all'Italia sta accadendo la stessa cosa. A in­cidere sulla spesa pubblica, e a in­centivare lo Stato a rincorrerla, au­mentando le tasse, contribuisce una prima distorsione. Poiché il tenta­tivo di industrializzare il Meridio­ne con le acciaierie e altre industrie di Stato è fallito, ora, la politica supplisce al proprio fallimento assorbendo nell'impiego statale la disoccupazione che ne è derivata.

Dove basterebbero «n» impiegati ce ne so «n più m», a carico dalla fiscalità generale. Il Nord che produce, e paga le tasse, sopporta i costi dei fallimenti della politica al Sud. Poiché gli impiegati pubblici in soprannumero hanno spesso un doppio lavoro, sarebbe bastato impiegarli in lavori a domicilio per lavori limitati e specifici, pagarli meno, e lasciarli liberi di fare legalmente quello che già adesso fanno illegalmente - lavorare in nero nei ritagli di tempo - e non si spenderebbero tanti soldi improduttivi. Si dovrebbe anche far pagare a chi ne usufruisce il prezzo di costo dei beni e dei servizi che lo Stato produce e che fornisce ai cittadini a prezzi più bassi. È l'illusione di ogni politica «sociale». I cittadini pagano lo stesso il costo intero dei beni e dei servizi, che credono di ottenere dalla beneficenza pubblica. Li pagano con la fiscalità generale, con le tasse. Così, anche l'aspetto sociale va a farsi friggere: poiché le rette universitarie sono più basse dei costi di esercizio e la differenza fra le une e gli altri si scarica sulla fiscalità, i poveri finiscono col pagare, con le loro tasse, l'università ai figli dei ricchi.

Per far fronte alla spesa pubblica la politica deve aumentare le tasse e il Paese non cresce. Basterebbe far pagare la retta piena e dare borse di studio ai meno abbienti e meritevoli. Nel centrodestra, si tende a dare la colpa del cul di sacco in cui è finito il governo al ministro dell'Economia, Giulio Tremonti; che ha certamente le proprie colpe, ma è lui stesso prigioniero di un pasticcio istituzionale. Nel ministero dell'Economia sono finiti quelli del Bilancio, delle Finanze e del Tesoro e al ministro di questo superministero - che ha accumulato, così, un potere politico-decisionale che annulla la capacità di direzione dello stesso capo del governo - è stato dato il compito di fare da cane da guardia del bilancio. Tremonti non poteva che affidarsi a una burocrazia vorace e autoreferenziale, che ha accumulato un enorme potere tecnico, e che giustifica la propria esistenza torchiando i cittadini di tasse e di misure liberticide. Se entro sessanta giorni non ti metti in ordine con l'ingiunzione di pagamento delle tasse ti bloccano il conto corrente e l'automobile, ti ipotecano l'appartamento. Non c'è un giudice terzo, fra il contribuente e l'amministrazione, che lo ha dichiarato moroso. Vale dunque il principio, illiberale, del solve et repete (pagare subito e far valere dopo le proprie ragioni); e anche una volta che si fosse appurato che il contribuente aveva ragione ci vorranno anni prima che gli restituiscano il maltolto.

Berlusconi, probabilmente, ce la farà a sopravvivere ancora per un po' acquistando qualche parlamentare disposto a trasferirsi dalla sua parte. Ma è dubbio che l'Italia ce la faccia a uscire rapidamente dal paradosso di un'azienda-Stato che finanziariamente sta benino e un sistema-Paese che sta maluccio.
Piero Ostellino sul Cdt del 13 ottobre 2011
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