Boldrin & co. cattivi maestri
di Pierfranco Pellizzetti, da Critica Liberale
“That’s ammerican, that’s all right”. Fece epoca la sgangherata quanto immortale battuta dell’Alberto Sordi - Nando Mericoni, alias Sante Baylor, nel film di Steno “Un americano a Roma”. Era l’anno di grazia 1954: la profetica denuncia dell’omolgazione al ribasso nel consumismo bulimico di beni e simboli massificati provenienti da oltreoceano, ancora agli albori. Poi il fenomeno regressivo è proseguito, raggiungendo livelli parossistici nelle ultime decadi del secolo scorso, in cui l’effetto pavlovizzante delle televisioni commerciali berlusconiane “tette a strisce” ha definitivamente devastato gli immaginari collettivi.
Oggi, nel dibattito economico nostrano, la palma dell’eccellenza quale “Americano a Roma credere-obbedire-combattere” è sicuro appannaggio di padani. E non c’è limite al peggio. Perché se si pensava che il prototipo insuperabile fosse incarnato dal meneghino Franco Giavazzi, quello in grigio bancario, adesso campeggia sulla scena pubblicistica e televisiva (vedi il talk-show Ballarò, condotto dallo sciapo Floris) un altro american-americanista senza se e senza ma: il professore patavino Michele Boldrin, classe 1956, emigrato negli States - come ama ricordare con malcelato vittimismo, ventisette anni fa. Attualmente parcheggiato alla Washington University di St. Louis.
Due tipi inquadrabili a pieno titolo nella formula (boldriniana) di “economisti mercatisti”. Ma se il bocconiano rivela di primo acchito - già dal look perbenista - lo stigma del conformismo, il più giovane migrante ti spiazza con un aspetto “da centri sociali” (brillantino nel lobo, maglione sformato e taglio dei capelli alla Luciano Ligabue): il novismo finto-alternativo della tenuta a mascheramento di una sostanza spaventosamente retrò. Un po’ come le chitarre in chiesa, le apparenti spregiudicatezze linguistiche di CL (a coprire ben altre spregiudicatezze) o l’esibizione plateale dei propri martiri inflitti dalla gerarchia ecclesiastica di un Don Gallo (che dal consesso con le gonne continua a essere - tutto sommato - ben accetto, visto che ne accredita il presunto pluralismo tollerante. Intanto continuava a pubblicare con Mondadori, fino a quando farlo non è diventata questione di “politicamente corretto”). Così come il vice premier garante politico di un G8 dei poliziotti massacratori di inermi, ora veste impunemente i panni di tutore della legalità democratico/repubblicana e c’è chi lo chiama “compagno Gianfranco Fini”.
Ma torniamo al mimetismo del simil coatto di periferia Boldrin, che molte anime candide identificano con l’up to date dell’analisi economica innovativa, quando ciò che dice trattasi semplicemente di restyling del packaging, il confezionamento di merce obsoleta; ormai in scadenza e - dunque - avariata: le ricette liberistiche più estreme, in via di precipitoso accantonamento alla luce degli accertati disastri che avevano prodotto in questo quarantennio egemonizzato dal thatcherismo-reaganismo neocon; giunto alla fase terminale del bellicismo suicida grazie alla presidenza di Bush jr. (e al suo imperialismo a fumetti).
Quel radicalismo reazionario che fece le sue prove generali nella California governata da un attore di serie B (Ronny Reagan) con la rivolta anti-fiscale, culminata nel vittorioso referendum del 1978. La famigerata Proposition 13, marchingegno della Destra repubblicana al fine di scardinare il blocco sociale newdealistico e avviare la controrivoluzione del privatismo radicale. I cui effetti tardivi sono piombati su capo e collo di noi poveri italiani grazie alle privatizzazioni degli anni Novanta; quelle che hanno svenduto il patrimonio pubblico creando lucrosi e inefficienti monopoli privati (dalla telefonia alla sanità, al sistema autostradale).
Infatti il nostro eroe si è subito intruppato nella schiera degli ottocento economisti anti statalisti, con alla testa il ben noto James Buchanan (fondatore della scuola Public Choice dedita al gioco delle tre tavolette, per cui i ricorrenti “fallimenti del mercato” sarebbero imputabili solo e soltanto a “fallimenti del governo”), che nel gennaio 2009 denunciarono il neokeynesianesimo (socialista?) del presidente Obama (un islamico? Un comunista?).
Mossa destinata a fornire apprezzate coperture ideologiche ai revival reazionari che stanno ricacciando il dibattito pubblico degli Stati Uniti nei deliri del passato (e certo non ripianto) clima terroristico da cui si era testé sfuggiti; dagli arruffapopoli irresponsabili tipo New Tea Party, al ritorno sulla scena del rieccolo in gonnella Sarah Palin, madonna pellegrina di un’America Profonda inchiodata mentalmente ai tempi della Guerra Fredda e del maccartismo.
Bravo Boldrin! Ma è proprio questo il nuovo che avanza? Nient’altro che l’apoteosi dell’anarco-capitalismo come segnale ringhioso e truculento dell’autunno di un ordine che, esaurita la sua fase industrialista, torna a riprodurre il denaro nei rapporti collusivi tra plutocrazie e regolatori degli accessi alle opportunità di sovraprofitti. In altra sede ho parlato di “capitalismo dei gatekeepers” (i guardiani dei varchi), nella dissipazione di quell’etica weberiana che poneva freni agli spiriti animali capitalistici. Che finisce per rivalutare perfino il malaffare, tanto che un autore della nidiata di pervicaci difensori del mercato purchessia - Walter Block - arriva a fare l’apologia di figure border line quali “il ruffiano, lo spacciatore, il ricattatore, il bagarino, il crumiro, lo strozzino, il poliziotto corrotto...”. Non a caso alcuni parlamentari di Casa delle Libertà hanno eletto il Block a proprio maître à penser...
Eppure le anime candide continuano ad accreditare l’esule da Padova di un pedigree progressista. A riprova che ormai sono saltate tutte le categorie interpretative del senso intrinseco - dunque, effettivo - nelle posizioni propugnate; il loro obiettivo reale. Basta e avanza la collocazione nel Circo Massimo dove pugnano gli odierni gladiatori. Il “chi è contro chi”.
Per cui Boldrin viene arruolato d’ufficio nel fronte anti-berlusconiano perché una volta fece a capocciate televisive con il molliccio ministro Calderoli o ha scritto, con i colleghi italoamericani del sito noiseFromAmerika, un testo intitolato “Tremonti, istruzioni per il disuso”, che attacca il “fanfan-peronismo” del Ministro (soprannominato Voldemort, l’antagonista del maghetto Harry Potter) nella sua attuale fase colbertiana.
In ogni caso - se la si legge con un briciolo d’accortezza - una critica “da destra”, all’insegna del più bieco laissez-faire, che disdegna la benché minima ipotesi di politica industriale; che consegna all’astrazione pelosa dei cosiddetti Mercati (vulgo, i signori del denaro) il compito di stabilire le priorità collettive. Insomma, la società gettata in ceppi e sottomessa all’arbitrio della speculazione finanziaria in marcia, guidata da quella nuova scritta nel cielo che proclama “avido è bello”.
Insomma, che tipo d’opposizione alla linea politico-economica berlusconiana pratica il Boldrin? Per saperlo bastava leggere il suo blog del 30 marzo 2010: “l’alternativa politica a Voldemort [Tremonti, ndr.], almeno sul piano della politica economica, è MOLTO peggio di lui”. Capita l’antifona? Ciò nonostante, oggi gli scritti di questo antiberlusconiano più berlusconiano dei berlusconiani sono sulle pagine delle testate più critiche del berlusconismo. Con effetti francamente sorprendenti: se il giornale pubblica cronache drammatiche sulle condizioni del lavoro manuale sotto attacco, ecco la controreplica boldriniana che proclama il “Io sto con Marchionne” (tra l’altro, evidenziando uno spaventoso livello di disinformazione: secondo lui le attuali lotte operaie metterebbero in discussione “la mobilità intersettoriale” e non l’abrogazione di ogni diritto per una manodopera precarizzata).
Il massimo dell’effetto estraniante lo si è ottenuto ai primi di settembre, con un editoriale sulla scuola (“Forse c’è un’altra strada”) in cui si realizzava il triplo salto carpiato di fondere in un unico pastrocchio Leghismo e Liberismo: la proposta di una scuola federalizzata (scelta che - di fatto - determinerebbe situazioni a pelle di leopardo nell’education nazionale, contrarie allo spirito della Costituzione) e - qui viene il bello - istituendo il buono-scuola per le famiglie, chiamate a spenderlo in base alle loro personali valutazioni dell’offerta didattica.
A parte la demenzialità di ritenere gli odierni genitori - in larghissima maggioranza assenteisti, per non dire indifferenti (con la scuola ridotta a parcheggio dei figli) - in grado di esprimere tale giudizio competente, il malfamato “buono” (antica pensata di Milton Friedman, boss della iperliberistica Scuola di Chicago) è da tempo il cavallo di Troia cavalcato da Comunione e Liberazione per scardinare l’istruzione pubblica a vantaggio di quella (molto più accomodante) privata, segnatamente confessionale.
Sicché - a partire dal caso Boldrin - qui si pone un problema di fondo, che potrebbe aprire un dibattito proprio su queste pagine: quali sono i criteri di perimetrazione del fronte avverso all’attuale corso politico (purtroppo abbastanza bipartisan, nel senso che i suoi vizi contagiano trasversalmente gli apparenti oppositori organizzati); sulla base di quale metro misurare le convergenze coalizionabili, in modo da creare masse critiche dotate del minimo irrinunciabile di coerenza?
Al contrario, quello che sembra ora prevalere è una maldestra rivisitazione dell’antico pas d’ennemis à gauche; slogan novecentesco non particolarmente sagace, a fare mazzo con altre sciocchezze depistanti (di più, che hanno fatto capottare il puro buon senso, con irreparabili danni conseguenti); dal “socialfascismo” del Comintern staliniano al sessantottardo “siamo realisti, chiediamo l’impossibile”. Tutte strade che condussero alla sconfitta.
Oggi il pas d’ennemis è misurato sul metro dell’antiberlusconismo e per essere aggregati basta segnare con una crocetta il modulo con su scritto “Silvio fa schifo”.
Certo, fa schifo. Ma il solo convenirne è un po’ poco per garantire identità di vedute. A qualcuno, nella fine delle “grandi narrazioni” ideologiche, tutto questo sembra il massimo del postmoderno e si teorizza il superamento della classica antitesi Destra-Sinistra. Come scriveva il solito Boldrin, in un pistolotto intriso di patavinitas padaneggiante, il 25 settembre scorso: “devo ammettere di non sapere bene quali siano le cose di sinistra e quelle di destra... la fissa di classificare qualsiasi minchiata come appartenente a una delle due scatole”.
Altri affermano che la discriminante non è più politica e sociale, ma tribunalizia: la diade “legale/illegale” cara ai cronisti di giudiziaria. Come se la legalità non fosse strettamente intrecciata con l’idea di società buona ed equa, perseguita sulla base di scelte ideali: l’Inclusione a sinistra (la parte che sceglie ragione, consenso, progresso...), l’Ordine a destra (dove sta chi privilegia tradizione, autorità, gerarchia...). E poi - a differenza dei legalisti naif - come non percepire quel pericoloso ronzio (“la legge è la volontà del più forte”) che dal tempo di Trasimaco ci mette in testa qualche dubbio riguardo all’essenza della legalità?
Non di postmoderno smaliziato si tratta, dunque. Semmai trattasi di evaporazione delle categorie analitiche, di smarrimento delle attitudini critiche.
In questa messa fuori uso delle antiche bussole, gli spiriti credenti vagolano alla ricerca di una fede purchessia, intercambiabile quanto superstiziosa. La fiducia cieca in entità astratte quali la Giustizia o il Mercato non è poi così diversa da quella in una altrettanto astratta capacità taumaturgica del Cavaliere di Arcore.
Il risultato finale è la trasformazione del confronto pubblico in una sorta di guerra di religione, in cui eserciti crociati si combattono all’insegna del Dio lo vuole!
Ritornando al tema dell’imbarcata priva di criteri selettivi nel vascello in navigazione verso il dopo-Berlusconi, vogliamo dircelo che sulla sua tolda stazionano crocieristi molto diversi tra loro, al limite antitetici? Che c’è un antiberlusconismo di sinistra e uno di destra? E se il primo parte da motivazioni etico-politiche, l’altro risponde in prevalenza a criteri estetici (Berlusconi come disordine; dunque urticante per una visione nostalgica del mondo piccolo borghese, sostanzialmente Legge e Ordine)?
C’è compatibilità tra siffatte motivazioni divergenti? Mi si risponde: primo sconfiggere il Cavaliere.
Può darsi. Ma come dimenticare che, nel corso della crisi sistemica di Tangentopoli, fu proprio il polverone a consentire gli sgattaiolamenti e i riciclaggi che salvarono la gran massa e i quadri di una classe dirigente corrotta. Di più: come dimenticare “a sinistra” che la teoria dei “due tempi” (si conquista il Potere e poi si cambia tutto) sono almeno due secoli che produce cocenti delusioni. Ricorrenti Restaurazioni.