Un recente post di Myosotis, basato su sentimenti, situazioni ed aspettative sue personali, propone una riflessione su noi stessi e sul modo che abbiamo di dialogare e di metterci in relazione gli uni con gli altri.
A dirla in breve, a me sembra che sia sopravvenuta una notevole discrasia con abitudini che un tempo ci caratterizzavano – o forse no, non caratterizzavano esattamente noi italiani, ma erano comuni a gente di ogni paese che era capace di non confondere l’intellettualità con l’assenza, con la cura perfino ad evitare ogni “odore di umanità”.
Noi italiani forse, in certe occasioni, esageravamo, quando usavamo buttare tutto sul sentimentale, così certa letteratura appare ridicola nel suo esasperato biografismo,alla pari con una visione politica e civile che si esaurisce nella percezione esclusiva di ciò che avviene nel ristretto raggio d’azione del proprio orizzonte e dei propri interessi.
Del resto una forma degenerata, di questa tendenza a puntare tutto sul sentimentalismo e sullo psicologismo, persiste e dilaga tuttora nel giornalismo mediocre e nella pornografia televisiva dei reality, che proprio per questo appaiono più che mai contraddittori con ciò che pretendono di essere, ossia appaiono grottescamente irrealistici e portatori di una umanità artificiosa.
Quello che distingue tali forme degenerative di “personalizzazione”, di “realismo”, è l’assenza, anzi la rinuncia dichiarata e sistematica non solo alla riflessione critica, ma a mettere in relazione la propria sfera personale con l’insieme dei rapporti sociali, con la cultura diffusa, con idee più generali.
Ebbene, io credo che in una sede di dialogo con fini politici e culturali – com’è un forum di questo genere – dovrebbe essere benvenuta la testimonianza dialettica che cerca di mettere in relazione l’esperienza personale con i temi di carattere generale: non solo “tollerata” ma accolta con piacere, con semplicità, come si fa con le cose buone, giuste e normali.
Anzi, secondo me un atteggiamento di questo genere distingue la buona politica, la buona letteratura, la buona filosofia da quelle “cattive”, dai simulacri, e anche dalle innocenti illusioni di chi pensa che depurare il proprio discorso (e il proprio pensiero) da ciò che è “personale” sia una forma superiore di intelligenza e di cultura.
Naturalmente non intendo dire che questo tipo di valutazioni debba diventare una regola, o peggio, una discriminante ottusa e dogmatica.
Io parlo di spontaneità, di libertà interiore e di libertà di pensiero, e quindi risulta ugualmente libero e spontaneo anche chi, in tutta coscienza, sente di non voler esternare i propri sentimenti, di non voler raccontare le proprie aspettative o descrivere la propria situazione, e di essere portato invece a sublimare tutto in una forma di pensiero ideologizzato, più teorico.
Ma non credo che questa possa essere considerata la cifra prevalente in una discussione politica e culturale, o peggio ancora la cifra preferibile, o peggio che fosse una qualità per così dire “obbligatoria”, quasi che i nostri interventi fossero delle tesi di laurea in miniatura, e che insomma ogni spiffero di “umanità personalizzata” fosse un’irruzione di sapore troppo forte, inopportuna, imbarazzante, in qualche modo dequalificante: ciò che in molti casi viene definito, con squallida supponenza, uno “sfogo”, da chiudere e dimenticare al più presto.
Io vedo, percepisco in molti, anzi nella quasi totalità dei partecipanti al forum la buona disposizione alla conversazione vivace e intelligente, che spazia con naturalezza tra il personale e il generale.
Ma vedo anche una sorta di freno, una timidezza, che non è dovuta soltanto all’indirizzo che i gestori del forum vogliono dare alla discussione: c’è una sorta di cedimento all’idea che “teorico è meglio”, nel senso che il teorico, l’astratto, il politicante sono la migliore o l’unica alternativa al demagogico, al volgare, al populistico, allo sbracato.
Io credo invece che ciò non sia vero, e che la migliore alternativa al demagogico e allo sbracato sia l’intelligenza, sia che si manifesti con un buon approfondimento teorico, sia che prenda la forma di un racconto personale, di un sentimento.
Solo una vecchia mentalità, che sopravvive appunto solo in una vulgata demagogica, fa distinzione tra filosofia e vita, tra cultura “alta” e cultura “bassa”: una mentalità non solo vecchia, ma assolutamente antitetica al concetto stesso di “politica”, che è invece la sede elettiva dell’incontro e la fusione tra esistenziale e intellettuale, tra teoria e pratica, tra filosofia e cronaca.
In questo senso voglio proporre un’ulteriore angolazione del problema.
In due post, che immetto nel forum contemporaneamente a questo, cito per esteso due articoli, comparsi rispettivamente sull’Unità e sul web magazine di Farefuturo, non solo perché interessanti in sé, ma soprattutto in quanto sono esempi di qualcosa che in questo forum – come ormai in tutta l’area di centro-sinistra – sembra non solo assente, ma volutamente, scientemente escluso. Mi verrebbe da dire, più che escluso, ormai “perduto”: perduta la voglia, perduta la sensazione dell’importanza, della ”necessità” di certi discorsi, di certe riflessioni.
Io non credo che la maggior parte di noi – noi qui - abbia perduto, come persone, la voglia e la capacità di fare certe riflessioni: credo che sia la faccia con la quale si presenta la politica, il partito, e la forma che si è voluta dare al forum che scoraggiano tali riflessioni. Certo, non le vietano espressamente – non siamo ancora arrivati a questo livello di autolesionismo – ma certamente le scoraggiano.
Basta guardare a come è organizzato il forum stesso: puntigliose suddivisioni che offrono e suggeriscono una griglia di lettura della realtà sociale e politica già chiaramente caratterizzata da una visuale molto “politicante” , alla quale segue e si affianca una “costituzione di fatto” che accoglie malvolentieri, spesso con un rimbrotto esplicito da parte della moderazione e di alcuni che sembrano molto in sintonia con la moderazione stessa, qualunque escursione in ciò che appare e che viene definito “intellettualistico”, sociologico, letterario, e peggio che mai filosofico o “poetico” – tutto ciò, in poche parole, che sembra cadere fuori da ciò che è politica politicante, ossia una discussione sulle cifre dell’economia, sul sistema delle candidature, sulle riforme e sui risultati elettorali.
Come per le “confessioni” di Myos di cui all’inizio, ciò che cade fuori dalla politica politicante è accolta con indifferenza o con fastidio, la stessa mescolanza di fastidio ed “educata” indifferenza che può esserci in un salotto verso la cacca di cane o la puzza di sudore – la stessa, per altro, che mi è capitato di sperimentare nella partecipazione politica da parte di certi assessori o parlamentari, quando intervenivano in una sezione del partito ad espletare i cinque minuti di obbligatorio “bagno democratico” a contatto con le persone in carne ed ossa.
Nel leggere specialmente l’articolo di Farefuturo mi sono tornate alla mente le tante volte che ho cercato - fin dai tempi della vecchia ML, e ancora prima negli anni ’80 in altre sedi di comunicazione – di puntare l’attenzione sulle ragioni di una crisi della sinistra che si prospettava come disaffezione e come afasia, come incapacità di saper articolare un discorso attrattivo che coinvolgesse l’intera sfera culturale ed emozionale di un insieme che era fatto di “persone” prima ancora di essere un “elettorato”.
Nella mia rivista pubblicammo un numero speciale su John Lennon, che si chiudeva – guarda caso – proprio con una tavola di Corto Maltese.
Io non mi aspetto dai politici che si occupino di arte e letteratura, anche se sarebbe molto bello e giusto, e utile, che lo facessero.
Mi aspetto però che se ne occupino, ognuno nei confini delle proprie inclinazioni e del proprio stile, coloro che politici non sono, e che ce ne possiamo occupare noi, in una sede come questa, che non è chiamata ad amministrare un ministero o un assessorato, e nemmeno l’ufficio elettorale di un partito. Che ce ne possiamo occupare senza avere la sensazione di essere cacca di cane nel salotto buono, intendo dire, e senza dover combattere e polemizzare sistematicamente con chi considera il “culturame” un retaggio puzzolente del laicismo e del comunismo sovietizzante.
Quando, per esempio, si parla delle ragioni di una crisi, di una disaffezione, di un’afasia, si tiene in poco o nessun conto il peso di quei valori, di quelle dimensioni che sono accennate – solo accennate, ma chiaramente – nell’articolo di Farefuturo, e che personalmente io riconosco fin dai tempi nei quali la destra era prevalentemente costituita da manipoli di picchiatori o di eversori collusi con frange devianti (?) dei Servizi. Non tutti quei ragazzi erano picchiatori, e molti avevano una sincera ansia di “idealità”, uguale sebbene nutrita di visioni, idee e sentimenti diversi da quella che muoveva il popolo giovane e meno giovane di sinistra.
Da quindici, venti anni la sinistra – il centro-sinistra, se si vuole – non solo non è più capace di sostenere ed offrire questa “apertura”, questa dimensione, ma anzi cerca di spegnerla e di esiliarla, in nome di una folle ed autodistruttiva pretesa di “concretezza”, e di una riduzione della politica al “buon governo”, come se questo si realizzasse con la pubblicazione di un “documento congressuale” e con l’innalzamento alla leadership di un burocrate o un economista capace di parlare solo agli “interessi” di un “target” elettorale.
Una politica, insomma, fatta su misura per gente vecchia, ed irrimediabilmente – sebbene educatamente – egoista e felice di essere approdata all’età in cui la debolezza della vista la libera dal faticoso piacere di guardare lontano, di immaginare ciò che non c’è, ma anche di guardare con amore e con rabbia ciò che gli sta vicino. L’amore e la rabbia, non solo l’interesse e le statistiche muovono il mondo e danno sostanza alla politica.
La destra ha sempre avuto questa capacità di parlare con le parole dell’amore e della rabbia – intendo quelle davvero sentite, non la loro parodia mal recitata del marketing berlusconiano – e ha fatto di questa vocazione il suo punto di forza.
Ora più che mai, in un contesto inaridito e pragmatico, la destra è alla ricerca di nuove parole d’amore e di rabbia, di desiderio e di “avventura”, nuove prospettive per l’eterna necessità del “viaggio”, e lo fa a tutto campo, senza reticenze, rivisitando, riappropriandosi di valori, di figure, di mitologie un tempo caratteristici della sinistra, e più in generale della cultura progressista.
Lo stesso avviene sul piano pratico, con la forma-partito, con una Lega della quale ci si sbraccia ad indicare la vitalità trionfante e si trascura il fatto che riproduce in fotocopia il centralismo democratico del vecchio PCI e la struttura capillare e territoriale del medesimo.
In poche parole, da questa parte ci sentiamo tanto furbi perché ci sforziamo di rottamare il vecchio, senza renderci conto che questo che chiamiamo vecchio è lo stesso che celebriamo sotto un altro aspetto come il “nuovo che avanza”, e anzi come “il nuovo che vince”.
Farefuturo parla di anima, la vecchia Unità parla del senso delle parole, e noi qui – che ci sentiamo furbissimi e salvi dal pericolo di essere “infantili e velleitari” – stiamo a discutere all’infinito sulle primarie, sull’alleanza con Casini e sull’accorciamento della pausa-cesso proposta da Marchionne, pensando che questo sia l’hoc signo vinces che fulminerà i cuori degli “elettori”, paternamente vigilati affinché nessuno di noi si allontani dal pascolo segnato e prenda le sembianze di una pecora mannara.