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Travaglio

Discussioni e proposte, prospettive e strategie per il Paese

Travaglio

Messaggioda flaviomob il 07/12/2010, 17:27

La prefazione di Barbara Spinelli all'ultimo libro di Travaglio "Colti sul fatto", fonte: facebook.



Mi sono chiesta, più volte, quale sia il segreto di Marco Travaglio. Probabilmente quello svelato da Indro Montanelli, quando per la prima volta lo incontrò e si chiese chi mai fosse questo personaggio che tanti dipingevano come un temibile Barbablù: «No, Travaglio non uccide nessuno. Col coltello. Usa un’arma molto più raffinata e non perseguibile penalmente: l’archivio». Per anni gli è stato impossibile insediarsi stabilmente in una redazione, essendo attaccato alle sue sterminate informazioni come a una flebo. Ci sono momenti in cui mi fa pensare ai precog di Philip Dick: quelle creature spaesanti che hanno il dono della pre-cognizione perché posseggono sterminate memorie di crimini e misfatti, commessi dai potenti in un passato tenuto nascosto. Il precog è l’Unheimlich che fa irruzione nella vita comunemente definita normale: il non-familiare, l’estraneità che inquieta. «Freud nota che la peculiarità del vocabolo risiede nella strana capacità di tramutarsi nel suo contrario, l’Heimlich (ossia ciò che è “familiare”), e viceversa. L’ambiguità linguistica lo porta alla conclusione che il “perturbante” non è cosa nuova alla vita psichica, bensì familiare da sempre, pur essendo divenuta estranea tramite il processo della rimozione».



In realtà non c’è niente di strano o fantastico in questa dote, per un giornalista che abbia a cuore il proprio mestiere. Il non-familiare e perturbante gli è da sempre familiare, fratello: la conoscenza nutrita di memoria dovrebbe essere l’aria che respira, che comunque preferisce respirare. Il giornalista senza archivi è come un ombrello senza stecche. Se Marco fa tuttavia pensare ai precog c’è un motivo preciso: perché è il depositario, nella storia italiana che ci è contemporanea e che nel frattempo è abbastanza lunga, di un Minority Report. Di depositari ce ne sono in Italia, ma il più delle volte fanno il morto o il giunco, aspettando che la piena passi. C’è un’altra versione della storia nazionale, infatti, rispetto alle contraffatte versioni ufficiali: una versione sommersa, negata, e Travaglio ne è il custode impavido da decenni.



Per forza di cose la sentinella è invisa, come nel racconto di Dick, e tanto più preziosa. È heimlich e unheimlich, di casa e non di casa. Quando le verità storiche di un paese sono sepolte per più di mezzo secolo, quando i reati s’affastellano senza mai essere chiariti e i criminali continuano a girare indisturbati, tutto diventa minority report: il senso delle leggi, le regole della civile convivenza, perfino la Costituzione del ’48. È il punto in cui la storia, come dice Roberto Scarpinato, «si ritrae nell’osceno, nel fuori scena (ob scenum), condizionando comunque in modo determinante la vita collettiva e i destini nazionali». Chi intravede e raffigura il fuori-scena mette in mostra paesaggi loschi, viene a contatto con gli universi noir di Raymond Chandler o Dashiell Hammett: costellati di malavitosi mai afferrati, solitari detective sempre aggirati, corrotte città di veleni i cui raccolti hanno il colore del sangue.



Ma c’è qualcosa di più: leggere gli articoli e i libri di Marco (non so come faccia, è un mistero dickiano anche questa sua energia) suscita due passioni apparentemente molto diverse. Suscita sdegno per gli eventi che racconta, e mette in stato di formidabile buon umore: per un giornalista resistente, il miscuglio è raro. Mi è capitato di paragonarlo al reporter Seymour Hersh, che disvela con metodica e ammirevole costanza le oscurità della politica di sicurezza americana. Ma Hersh non mette di buon umore; è più cupo. La resistenza di Ernesto Rossi durante il fascismo aveva invece questo duplice timbro, a giudicare dai disegni che faceva dei compagni di confino a Ventotene, e la sua prosa non smise mai di mescolare l’invettiva più seria alla beffa sorridente. Ricordando l’effetto dei suoi scritti sui lettori, suppongo che solo la miscela di sentimenti così contrastanti sia in grado di far nascere quella fede che Dante chiama «sustanza di cose sperate e argomento de le non parventi», e che è fatta degli stessi ingredienti quando è fede nel ritorno della legalità, dell’etica cittadina, dello Stato di diritto. Marco possiede il segreto di simile miscela, e questa, sempre parafrasando Dante, è la sua quiditate.



L’antologia dei suoi articoli sul «Fatto Quotidiano» narra un pezzo di questa storia italiana, che appunto è storia criminale e noir essendo tempestata di leggi ad personam, di giornali e giornalisti che non fanno il lavoro cui sono chiamati, della privatizzazione del nobile e rischioso compito che è la politica. Il filo conduttore che lega i testi è il rispetto dei fatti, la lotta contro le verità (e le falsità) ridotte a opinioni. Travaglio ha scritto un libro su questa vocazione all’escamotage dei fatti,5 e non è un caso che assieme ad Antonio Padellaro abbia fondato un giornale che ha proprio questo titolo: «Fatto Quotidiano». Grazie a lui, siamo in grado di percepire ancor meglio e di temere quella che Hannah Arendt chiamava defattualizzazione della realtà. Anch’essa è irruzione, nelle vite degli individui e delle nazioni, dell’Unheimlich. Gli italiani già conobbero la defattualizzazione durante la Prima Repubblica, data per morta quando si attivarono i magistrati di Mani Pulite, ma in effetti resuscitata sotto forma di Seconda Repubblica più sfacciatamente corrotta.



Nella nostra Città dei veleni il metodo si è fatto al tempo stesso più impudente e più furbo, più impalpabile ancora che nel romanzo di Hammett sul Raccolto Rosso. Il copione ricalca quasi alla lettera i testi programmatici della P2: basta inoculare nelle menti lo sprezzo della politica per adattarla alle proprie personali convenienze, e quel che conta nell’impresa è il controllo insistente, pervasivo dell’informazione, subliminale o esplicito a seconda delle opportunità. Quando Berlusconi incolpa il «teatrino della politica» – è il suo spot pubblicitario ricorrente – sa di che parla, perché tutto nel suo agire è rappresentazione, vendita, spot. È fabbricato da lui il golem mediatico che egli stesso denuncia e che, man mano che la Seconda Repubblica si slabbra, finisce col ritorcersi contro il proprio demiurgo e incatenarlo.



Nel suo memorabile saggio sull’intervento militare in Vietnam e sui Pentagon Papers che ne rivelarono l’inutilità, pubblicato sul «New York Review of Books» del 18 novembre 1971, Hannah Arendt descrive come le farneticazioni sulla guerra si scollarono dalla realtà dei fatti: «Un enorme sforzo fu dispiegato non per raggiungere obiettivi reali, buoni o cattivi, che avrebbero potuto tenere sotto controllo la pura fantasticheria: l’unico proposito fu di creare [negli americani, n.d.r.] uno specifico stato d’animo». Ma, siccome ogni suggestione s’accompagna ineluttabilmente all’auto-suggestione, la guerra sfociò nel più crudele dei paradossi: fu «un grossissimo sforzo, sprecato nel dimostrare l’impotenza della grandezza. Anche se forse bisognerebbe salutare l’inaspettato revival, su sì vasta scala, del trionfo di David su Golia». Non è dissimile l’impotente potenza dell’uomo che è stato quattro volte presidente del Consiglio, che addirittura aspira al Quirinale, che sogna di fabbricare sulle ceneri di Forza Italia un movimento ancora più fanatico, sulle orme del Tea Party americano: incapace di tener unite la ampie maggioranze che di volta in volta racimola, la sua leadership e le sue arti illusionistiche sono il suo e il nostro Vietnam. È il trionfo di David che ancora non è in vista.



Come altri libri di Travaglio, questo narra di anni di politica privatizzata, di «bande larghe» ancor più proliferanti, di un bombardamento di manipolazioni a tappeto, e dell’afonia con cui un’intera classe dirigente ha risposto alla cattura dello Stato e della realtà che caratterizza la Seconda Repubblica. Per classe dirigente non intendo solo i politici, al governo o all’opposizione, ma anche i giornalisti, i sindacati, gli imprenditori e tutti coloro che influenzano la vita degli italiani con il loro operare. Tanto per fare un esempio: c’è sicuramente una piccola dose di constatazioni giuste – diciamo un 1, massimo un 4% – nei programmi del fondatore di Forza Italia: le stesse constatazioni, approvate quando vengono da lui, sono bocciate in anticipo da sindacati o imprenditori quando a farle sono governi di sinistra. L’impotente potenza è, in fondo, un potere singolarmente insidioso: Berlusconi riesce a esercitarlo anche quando non governa, avendo creato nella maggioranza degli italiani «uno specifico stato d’animo».



Quel che viene alla luce nell’antologia è il morbo che si è insediato più forte e tenace che mai, nonostante Mani Pulite e la fine apparente della Prima Repubblica. Il pool di Milano riuscì a interromperlo solo lo spazio di un mattino, e per fortuna i magistrati e alcuni giornalisti e qualche studioso insistono nel volerlo curare, con cocciuta perseveranza, nonostante le incessanti recrudescenze. Abitualmente i medici sono considerati sovversivi, se non invasati: colpevoli in ogni caso di usurpazione dell’unica regalità emanante dall’unzione delle urne. Sono giustizialisti, quando chiedono giustizia. Moralisti, quando lottano per il ritorno o la nascita di un’etica pubblica. Il linguaggio cui si ricorre somiglia straordinariamente a quello impiegato negli anni Settanta-Ottanta contro i brigatisti. Non si disturba il guidatore, anche se ci conduce dritti contro un muro.



Il morbo – lo ha spiegato bene Gherardo Colombo il 22 febbraio 1998 in un’intervista a Giuseppe d’Avanzo sul «Corriere della Sera» – è la «società del ricatto» che fonda la politica italiana fin dal dopoguerra, quando gli alleati dovettero ricorrere alla mafia siciliana per liberare l’Italia dal fascismo. Fu allora che «venne stabilito un rapporto di “quieto vivere” con questa organizzazione criminale, che ha caratterizzato decenni della nostra storia. È stato un accordo necessariamente occulto. E ancora più occulto e opaco è stato necessariamente il suo perpetuarsi. Cosa ha potuto produrre se non il ricatto? Il ricatto dei poteri criminali sulla politica». Nel metabolismo politico-sociale del paese, «ci sono ancora le tossine dei ricatti possibili, e sono queste tossine che consigliano di organizzare le nuove regole della Repubblica non intorno al conflitto, ma intorno al compromesso».



A questo compromesso si dà il nome di normalità: uno dei vocaboli che più hanno manipolato e rimpicciolito le teste degli italiani, caldeggiato con pomposa solennità non solo a destra ma anche a sinistra, e con peculiare predilezione nella sinistra postcomunista che ama presentarsi come riformista, centrista, pronta ai più portentosi mimetismi. Tutti i mali verrebbero in Italia dal conflitto: un altro vocabolo-bandito che mette speciale paura nella vecchia dirigenza comunista. L’ex comunista introietta l’accusa di essersi solo esteriormente liberato del passato, e questo l’induce a comportarsi come chi deve costantemente espiare una macchia vergognosa: non la macchia dell’ideologia comunista, ma del conflitto in quanto tale, dell’opposizione dura, dei toni alti. Sente di aver raggiunto l’apice dell’emancipazione quando mortificato tace, quando al massimo mormora nebbiosamente e raccomanda quei compromessi che Massimo D’Alema chiamò nel 1995 inciucio, e che quattordici anni dopo minimizzò ricorrendo alla smancerosa grazia d’un diminutivo («È quasi meglio che facciano una leggina ad personam per limitare il danno all’ordinamento e alla sicurezza dei cittadini», «Corriere della Sera», 17/12/2009). Scaltrito per natura, sempre all’erta quando fiuta punti deboli nell’oppositore, il premier che ha spostato Palazzo Chigi a Palazzo Grazioli – mettendo al posto d’uno spazio pubblico uno spazio privato – ne ha profittato lungamente, non smettendo mai di eguagliare l’avversario al nemico, e il conflitto alla guerra.



Io credo che la forza di Travaglio sia quella di chi considera normale e benefico il conflitto, e anormale il compromesso opaco e occulto che sta dietro a parole come normalità, pacificazione, toni bassi, convergenza. E qui si ritorna a Philip Dick. Anche sulla patologia indicata da Gherardo Colombo, infatti, esistono due versioni, una maggioritaria e una non ufficiale, insabbiata nel minority report. La versione ufficiale spiega così la patologia: l’Italia e la sua democrazia soffrono di contrasti troppo aspri, di conversazioni troppo accese, e di un’opposizione a Berlusconi troppo ossessiva, straripante. Per la verità nessuno vede tutto questo straripare di fiumi attorno a sé, la terra è completamente secca, ma il coro è unanime e ininterrottamente invoca le più ampie intese, la riconciliazione, il superamento d’ogni contrasto. Se il contrasto si manifesta lo stesso, anche se magari flebile e sporadico, si scatenano azioni di rappresaglia di una violenza inaudita (nelle tv e nei giornali controllati dal padrone di Arcore), ma son tutte rappresaglie ordite per l’amore e la pace, come per la pace e per l’amore furono orditi in passato i massacri di San Bartolomeo e le crociate.



Ergo: il conflitto va moderato, se possibile arginato con dighe di ferro. È l’opinione dominante (chiamato anche «sentire comune») in cui nuotiamo come in una melassa, giorno e notte, da quando in Europa e Unione sovietica è finito il comunismo. E come sovente accade in Italia, il giudizio etico si mescola a quello estetico: a chi non abbraccia il comune sentire – i pochissimi che emettono toni appena un po’ più alti – viene affibbiato l’aggettivo, del tutto incongruo in politica come nell’etica, di antipatico (l’ideale italiano del simpatico è oggetto di scherno fin dagli inizi del fascismo: chi desideri saperne qualcosa troverà passaggi illuminanti nel racconto di Thomas Mann Mario e il Mago, scritto nel 1929).



Ben altro dice il minority report: il malanno italiano consiste non nel conflitto eccessivamente intenso, ma nel patto o nella concordanza eccessivamente desiderati. È la marmellata di quest’accordo che ha bisogno – urgente – di essere esposta alla luce del giorno, e regolata: in questo caso, sì, s’impone una drastica moderazione. Se non si smorza tutto questo dolciume, se non si restituisce al nostro cibo l’amaro e il sale che gli mancano, il patto prende il sopravvento, nelle forme torbide e volutamente inafferrabili che conosciamo. Se non si smaschera la potenza delle sue ramificazioni (il peso della mafia, della ’ndrangheta, della camorra), la melma in cui ci tocca vivere non svanirà. Il compromesso attorno a cui si vorrebbe ricomporre la Repubblica non elimina le tossine. Ne conferma la sopravvivenza senza intaccarle.



Il piano del majority report è chiaro: è un piano di tipo bolscevico, e pur non schierando eserciti il suo dispositivo è, come nella Tecnica del colpo di Stato di Malaparte, di natura militare. Senza pudore è messo in opera dagli uomini-esecutori del capopopolo. Il modello è l’Aquila, cioè un’emergenza nazionale assai simile per struttura e conseguenze all’emergenza bellica. Il terremoto abruzzese è stato una sorta di 11 settembre italiano, usato dai governanti per unificare la nazione e far crescere una seconda generazione di conformisti (la prima nacque nelle case modello di Milano-2 e nelle prime televisioni commerciali che vennero offerte ai felici inquilini dei verdeggianti quartieri recintati). Lo scopo è l’accentramento-privatizzazione del potere, e il primato dell’esecutivo, come nelle guerre antiterroriste dell’amministrazione Bush, sul potere giudiziario, su quello legislativo, e sui cervelli del singolo cittadino ridotto a utente-consumatore di notiziari deformati e di false rassicurazioni. Nello stato d’eccezione è l’autorità a fare la legge, non il contrario.



La frase che più mi ha colpito, detta da Berlusconi in una conferenza stampa con rappresentanti Ocse il 4 maggio 2010, fa riferimento allo «sforzo corale mai visto all’Aquila», e prosegue: «Credo che quello sia il Paese che tutti vorremmo sempre avere: un Paese unito, in cui non ci sono discussioni, non ci sono contrasti, non ci sono invidie, c’è soltanto la voglia di lavorare insieme per il bene di tutti» (i corsivi sono miei). A questo prenatalizio elenco di desideri, probabilmente inviato a Babbo Natale, s’aggiunga l’Amore: che già aveva fatto capolino qualche mese prima, a Milano, quando il capo del governo venne colpito dalla statuetta del Duomo. Stava per scoppiare Natale, era il 13 dicembre 2009, e due giorni dopo l’onorevole Fabrizio Cicchitto nell’evocare l’attentato si lasciò trascinare da un autentico slancio d’amore: «A condurre questa campagna è un network composto dal gruppo editoriale Repubblica-L’Espresso, da quel mattinale delle Procure che è il “Fatto”, da una trasmissione di Santoro e da un terrorista mediatico di nome Travaglio, oltre che da alcuni pubblici ministeri, che hanno nelle mani alcuni processi, tra i più delicati sul terreno del rapporto mafia-politica, e che vanno in tv a demonizzare Berlusconi».



Un universo da cui la discussione è bandita, un flusso di immagini continuamente truccate, imbellite, un eloquio intriso di diminutivi, di vezzeggiativi amorosi, di barzellette salaci: così nasce l’aura di fiaba e filastrocca che i dittatori da tempi immemorabili preferiscono al racconto storico nudo. Non a caso gli scrittori dissidenti hanno coscientemente usato la stessa arma: George Orwell nella Fattoria degli animali, Aldous Huxley in Brave New World (la seconda fiaba è più simile alla nostra e forse più agghiacciante delle parabole di Orwell).



Ecco: precisamente questo è il paese che non vorrei, né in Italia né in altre parti d’Europa e d’America. Questo è il motivo per cui sempre torno a leggere Travaglio per ritrovare il sale del conflitto, il sapore degli articoli di legge, lo scrivere asciutto, le emozioni che non straboccano, l’inferno intuibile dietro quella che viene contrabbandata come Armonia ed è invece, come nell’Apocalisse di Giovanni, Regno dell’Anomìa, della legge che viene meno. Per Berlusconi quest’apocalittica anomia è nientedimeno che il Paradiso. Lo ha detto egli stesso il 10 dicembre 2008, presentando uno dei libri di Bruno Vespa e premurandosi a dipingerlo come «poema dantesco»: «C’è l’inferno, il purgatorio e il paradiso (…) Il paradiso sarebbe il governo attuale, che promette all’Italia quel cambiamento che è davvero necessario». Strano che la Chiesa, invariabilmente arcigna quando parlano i cristiani adulti, non abbia avuto nulla da obiettare all’ennesima filastrocca che umilia i cittadini infantilizzandoli: che li «culculizza» per meglio addomesticarli, come nel Ferdydurke di Witold Gombrowicz. Ma non tanto strano forse: il 2 ottobre 2010, quando Berlusconi in pieno declino emette una delle sue barzellette e conclude con una bestemmia contro Dio, monsignor Rino Fisichella si precipita in aiuto del trasgressore del secondo comandamento e dichiara, a Pisa in un convegno su Chiesa e politica: «Bisogna sempre in questi momenti saper contestualizzare le cose». Chi ancora immaginava che i vertici della Chiesa lottassero contro il relativismo etico, è grande ora che si ricreda.



In questo paradiso senza discussioni si scioglie, polvere effervescente, non solo il conflitto tra cittadini ma anche il conflitto che più ha guastato l’Italia e gli italiani: il conflitto d’interessi, tumore mai reciso né sanato bensì puntualmente protetto, garantito, messo sotto vetro come si fa con un formaggio grand cru. La mia opinione personale è che esso non sia mai stato un impedimento, né una pietra d’inciampo. Berlusconi è andato al potere non malgrado, ma a causa del conflitto d’interessi (un po’ com’è avvenuto con Tiananmen: la Cina fu accolta come membro a pieno titolo del mercato mondializzato non malgrado, ma grazie a Tiananmen, e alla stabilità che la liquidazione dei dissidenti prometteva). Il conflitto d’interessi grava sulle spalle del premier come l’intera volta celeste su quelle di Atlante. Chi prende su di sé tanto fardello o è un titano o è un martire.



C’è infine un’altra infermità italiana, di cui Travaglio fa la diagnosi: il mestiere dell’informazione. Anch’esso traversa una fase di anomia, di leggi interiori che evaporano: cancellando fatti e notizie, incapace di sguardo che scruta, buona parte del giornalismo scritto tende a confondersi con i notiziari ipercontrollati delle televisioni e mostra non la realtà com’è, ma una mistificata realtà parallela, trasformata in film d’azione permanentemente affannato, distraente, e futile. La filastrocca che condanna il conflitto ha, nei giornali italiani, radici più profonde di quanto i loro redattori ammetterebbero. E il mistero di questa consapevolezza attutita è, anche qui, il conformismo. Troppo spesso i direttori spendono il tempo, la sera prima di chiudere la prima pagina, telefonando ai colleghi direttori delle altre testate per tema di apparire eccentrici e «sbagliare» i fondi, le aperture, le spalle, i titoli. Chi legge gli articoli che Travaglio scrive ogni giorno sul «Fatto» (in passato sull’«Unità») ha davanti a sé analisi dettagliate di quel che accade: ci sono dati, fatti, sentenze di tribunale, e in ogni caso nessuna paura dell’eccentricità.



C’è lavoro approfondito sulle fonti, sull’origine della notizia. C’è memoria storica, che è forse quello che più manca, oggi, in mezzi di comunicazione troppo dipendenti da interessi estranei all’editoria. Quando Marco cita la dichiarazione di un politico, non si ferma sull’istante: nella sua mente sfilano altre dichiarazioni che il politico ha fatto due o tre o dieci anni prima, in totale contraddizione con quello che dice oggi. Noi ascoltiamo alla televisione Cicchitto, per esempio, che attacca il giustizialismo e Mani Pulite. Ci dimentichiamo che la stessa persona, il 21 maggio 1981 in un lancio dell’Ansa, ammetteva l’iscrizione alla P2, e dimettendosi dal proprio incarico nella direzione del Partito socialista dichiarava: «Sono consapevole del mio errore di valutazione e non voglio che esso pesi in alcun modo sul partito e sui compagni ai quali sono politicamente legato». Il guaio è che la stessa operazione verità Travaglio la compie anche con i giornalisti, e i giornalisti – non eletti, non abituati a esser criticati e a pagare – difficilmente sopportano.



Se dovessi consigliare un principiante giornalista, gli direi che la cronaca e il giudiziario sono probabilmente il più eccelso allenamento: il cronista in particolare è il più vicino alla persona umana, e per questo le dittature hanno sempre esecrato la nera. E poi gli farei vedere come nasce un articolo di Travaglio: il tempo che spende nel cercare le fonti, nel capire, nel leggere verbali e sentenze, nel collegare l’ieri all’oggi, nell’accumulare archivi, nel formarsi infine un proprio giudizio senza badare a quel che dicono colleghi o politici. Giornalisti di questo tipo se ne trovano, nel mondo e anche in Italia. Abbiamo citato Seymour Hersh, del «New Yorker». La Germania ebbe Günter Wallraff, negli anni Settanta e Ottanta. Una delle sue inchieste undercover ebbe come oggetto, non a caso, i media: per mesi lo scrittore si immerse con un altro nome nella redazione del quotidiano «Bild». Penso che nacque allora quello che viene chiamato il giornalista-cittadino.



Il primo ingrediente del conformismo è la complicità che lega il giornalista delle testate classiche al politico, e che chiude ambedue in una sorta di recinto inaccessibile: il giornalista parla al politico e per il politico, il politico parla al giornalista di sé stesso e per sé stesso, e nessuno parla della società che ha l’impressione di non aver più rappresentanti veridici se non su Internet.



Il giornalista, il politico, la corte, le lobby: è il quadrilatero mortifero delle testate convenzionali (i giornali mainstream), che pretendono di essere benpensanti e hanno scordato il pubblico, ma mai scordano i politici, i potentati da cui in genere dipendono. Negli scritti di Travaglio i giornalisti sono esaminati con la stessa severità con cui viene analizzata la macchina politica. Hanno dimenticato la funzione cui erano destinati: quella di essere cani da guardia – watchdog – al servizio del lettore. Preferiscono sviare l’attenzione e intrattenere, più che informare. Sono diventati la prova vivente che dell’opposizione e dei contropoteri si può fare a meno. L’oppositore s’è tramutato in lobby. I giornalisti stessi sono non un quarto potere, ma uno dei tanti gruppi di pressione. Non aspirano al premio Pulitzer, ma a fabbricar politica al posto dei politici, appollaiati sulle loro schiene. Per mesi, prima che Travaglio pubblicasse Colti sul Fatto, ero convinta che stesse preparando un testo su questo mestiere bello con tante brutte abitudini. In realtà lo ha fatto, perché il libro dedica non poco spazio al tradimento degli intellettuali impiegati nella carta stampata o nella televisione.



Il conflitto d’interessi ha finito col contaminare innumerevoli professioni e vocazioni, compresa quella del cane da guardia: tanto stretto è il nesso fra marasma della politica e marasma della stampa. Il fenomeno ha cominciato ad amplificarsi in America, tra l’11 settembre 2001 e la guerra in Iraq: fu la blogosfera a raccogliere i documenti che certificavano il monumentale imbroglio concernente le armi di distruzione di massa, gli inesistenti legami di Saddam con al Qaeda, le torture, i trasferimenti illegali di prigionieri. Furono i siti Internet, fin da principio, a prendere sul serio i rapporti dell’Onu e i moniti di rari commentatori della stampa scritta. La menzogna del potere politico fu accettata da testate storiche gloriose come il «New York Times», che però il 26 maggio del 2004 chiese solennemente scusa al proprio pubblico avendo perduto, nel frattempo, lettori e prestigio. Fu quella l’ora in cui la cosiddetta antipolitica dei blog si rivelò vera partecipazione cittadina. La politica imbarbarita, forte per tanto tempo dei suoi majority report, aveva fallito, edificando sulla paura e i suoi vettori: i sondaggi, i falsi allarmi di ideologi che si travestivano da esperti, gli articoli dei giornalisti embedded, accettati come accompagnatori degli eserciti perché disposti, spesso, a esserne i fiancheggiatori.



Il giornalista cittadino o undercover è visto con grande sospetto, specialmente in Italia ma non solo. Spesso in America gli rifilano un epiteto ingiurioso: il suo non sarebbe altro che gotcha journalism, sguinzagliato soprattutto in rete per mettere in difficoltà il politico, l’opinione dominante, il comune sentire. Gotcha è una contrazione di «I got you»: ti ho beccato, ti ho preso con le dita nella marmellata. Il giornalista veramente indipendente scandaglia il politico, e lo becca lì dove quest’ultimo meno se l’aspetta. Nell’ultima campagna elettorale americana, i repubblicani se la sono presa con questa stampa-detective. In realtà se la sono presa con i giornalisti che non s’adeguano, che non stanno allo script, che non entrano nel gioco. Che non sono propaggini né parafernali del Palazzo, ma custodi d’un potere radicalmente altro: un quarto potere, separato e capace di dare a sé stesso la legge che li guidi, il nòmos, in piena auto-nomia.



Capita di sentir dire che l’autore di questo libro ha di fronte a sé tutti i poteri, ma che uno solo viene privilegiato. Che nei confronti della magistratura nutre un pregiudizio favorevole. Ma non nasce dal nulla, questa concentrazione fiduciosa sul lavoro di giudici non asservibili. È perché la separazione dei poteri non funziona – perché la democrazia italiana è un legno eccezionalmente storto – che tocca salvaguardare l’autorità di vigilanza esercitata dalla magistratura. Altrove non esiste un bisogno egualmente acuto, e di conseguenza non esistono neppure giornalisti intrisi fino alle ossa di passione giudiziaria. Altrove non ci sono capi di governo con enormi conflitti d’interessi, con tanti processi ancora pendenti. Non esistono uomini che per vent’anni hanno evitato l’appuntamento con la giustizia per prescrizione, o perché il reato è per decreto cancellato da chi lo commette, o perché decine e decine di leggi ad personam (e ad aziendam) hanno dato loro immunità e ricchezza. Altrove, chi ha le redini del governo ha il buon gusto di non chiamare tutto questo: Paradiso.

In tanto Paradiso, comunque, è bello che ci sia un piccolo Mefistofele iniettatore di dubbi. Descartes lo chiamava malin génie: lo aiutava a pensare, a dubitare, dunque a essere. Come Marco appunto. È un genio astuto, un dèmone malizioso, e per di più – non sembra vero – mette di buon umore!


"Dovremmo aver paura del capitalismo, non delle macchine".
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Re: Travaglio

Messaggioda pierodm il 07/12/2010, 18:23

Gli spunti e gli agomenti interessanti, in questo articolo della Spinelli, sono tanti, ma mi piace sottolinearne un paio che corrispondono a ciò che ho spesso tentato di dire, e di praticare anche in prima persona nelle nostre discussioni: chissà che, dette con altre parole e con un'altra firma, queste cose siano più chiare o meglio accolte.

c’è sicuramente una piccola dose di constatazioni giuste – diciamo un 1, massimo un 4% – nei programmi del fondatore di Forza Italia: le stesse constatazioni, approvate quando vengono da lui, sono bocciate in anticipo da sindacati o imprenditori quando a farle sono governi di sinistra. L’impotente potenza è, in fondo, un potere singolarmente insidioso: Berlusconi riesce a esercitarlo anche quando non governa, avendo creato nella maggioranza degli italiani «uno specifico stato d’animo»…
…A questo compromesso si dà il nome di normalità: uno dei vocaboli che più hanno manipolato e rimpicciolito le teste degli italiani, caldeggiato con pomposa solennità non solo a destra ma anche a sinistra, e con peculiare predilezione nella sinistra postcomunista che ama presentarsi come riformista, centrista, pronta ai più portentosi mimetismi. Tutti i mali verrebbero in Italia dal conflitto: un altro vocabolo-bandito che mette speciale paura nella vecchia dirigenza comunista. L’ex comunista introietta l’accusa di essersi solo esteriormente liberato del passato, e questo l’induce a comportarsi come chi deve costantemente espiare una macchia vergognosa: non la macchia dell’ideologia comunista, ma del conflitto in quanto tale, dell’opposizione dura, dei toni alti. Sente di aver raggiunto l’apice dell’emancipazione quando mortificato tace, quando al massimo mormora nebbiosamente e raccomanda quei compromessi che Massimo D’Alema chiamò nel 1995 inciucio…
…Io credo che la forza di Travaglio sia quella di chi considera normale e benefico il conflitto, e anormale il compromesso opaco e occulto che sta dietro a parole come normalità, pacificazione, toni bassi, convergenza. E qui si ritorna a Philip Dick. Anche sulla patologia indicata da Gherardo Colombo, infatti, esistono due versioni, una maggioritaria e una non ufficiale, insabbiata nel minority report. La versione ufficiale spiega così la patologia: l’Italia e la sua democrazia soffrono di contrasti troppo aspri, di conversazioni troppo accese, e di un’opposizione a Berlusconi troppo ossessiva, straripante. Per la verità nessuno vede tutto questo straripare di fiumi attorno a sé, la terra è completamente secca, ma il coro è unanime e ininterrottamente invoca le più ampie intese, la riconciliazione, il superamento d’ogni contrasto…
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