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Capitalismo infelice

Discussioni e proposte, prospettive e strategie per il Paese

Capitalismo infelice

Messaggioda pierodm il 08/11/2010, 22:53

Una parola in più, per rompere il muro.

Dall'Unità - Pietro Spataro
C'era una volta il Grande Mito del Mercato che da solo avrebbe dovuto portare benessere, lavoro e libertà. E c’era una volta il Grande Sogno Americano che ne era l’incarnazione: ognuno poteva farsi da solo, bastava un po’ di intraprendenza e tutti saremmo stati uguali e felici. Oggi il Grande Mito e il Grande Sogno non ci sono più, si sono infranti contro il muro della più grave crisi economica degli ultimi ottant’anni. Dopo i fasti del fondamentalismo liberista scopriamo che il mercato, lasciato a se stesso, è un formidabile produttore di ingiustizie, di povertà, di bancarotte, di disuguaglianza. E anche di infelicità. Il voto americano di Midterm è il frutto anche di questa delusione: l'americano ha paura, vede i ricchi diventare sempre più ricchi e i poveri travolti dalla disoccupazione e dai pignoramenti delle case comprate con i mutui subprime. Certo, Obama ha fatto molto, ma molti volevano che facesse di più e meglio, portando giustizia sociale in un mondo senza regole che salva le banche e punisce il lavoro. Il punto infatti è che il marchingegno liberista non funziona più: il capitalismo, quasi seguendo le previsioni del vecchio Marx, si è finanziarizzato, ha costruito castelli di carta e oggi fa i conti con la propria voracità. Potremmo dire che sta di fronte a un bivio: cambiare o morire. La domanda è: chi lo cambierà?

Questa impietosa radiografia è il risultato delle analisi convergenti di due libri. Il primo è di Joseph Stiglitz, premio Nobel per l'economia e consigliere di Bill Clinton. Si intitola Bancarotta ed è un viaggio nel capitalismo «corrotto» della bolla immobiliare. Il secondo è di due epidemiologi, Richard Wilkinson e Kate Pickett. Si intitola La misura dell’anima ed è il resoconto, documentato con dati e diagrammi, di come le diseguaglianze rendano le società più infelici: non c’è relazione tra ricchezza delle nazioni e benessere. Anzi, succede il contrario: i paesi con le economie più forti sono quelli più diseguali e hanno quindi la più alta incidenza di «malattie sociali».

La crisi economica che brucia ancora (dal tracollo della Lehman Brothers, anno 2008) non è un errore di percorso. Dice Stiglitz: non si è otturato il tubo, per cui basta un bravo idraulico e tutto torna a posto. In quell’anno horribilis si è consumato un modello di capitalismo rapace che ha travolto regole, coesione sociale e fiducia. Ha messo davanti a tutto solo il profitto e l’interesse sfruttando l’illusione che si potesse vivere «al di sopra delle possibilità». Dall’89 in poi il capitalismo si è sentito libero di gonfiarsi il petto: aveva vinto la sfida e ha imposto la cancellazione di ogni contrappeso. Forte di una pericolosa deregulation, voluta dalla destra (da Reagan a Bush passando per la Thatcher) e timidamente corretta dalla sinistra, ha creduto di essere imbattibile. Ma è stata un’illusione. La Grande Depressione è il risultato di questo pericoloso tornante dell’economia globale. Sappiamo come è andata in questi due anni, quante banche siano crollate (e poi salvate senza contropartite), quanti lavoratori siano finiti per strada, quanti miliardi di dollari siano volati via per riparare i guasti: Wall Street si è mangiata pezzi di economia reale. Ma il grido d’allarme di Stiglitz va oltre questa constatazione e tocca il cuore del modello di sviluppo. Appunto: non basta un lifting. Questa crisi invece dimostra che il capitalismo come l’abbiamo conosciuto è finito e non tornerà più. Serve, per non soccombere, un altro capitalismo, fondato su un nuovo contratto sociale tra cittadino, Stato ed economia, tra la generazione di oggi e quella futura. Nuove regole severe tra Stato e mercato, un equilibrio sociale egualitario. Ci vorrebbe, insomma, un «capitalismo dal volto umano».

È la stessa conclusione a cui arrivano Wilkinson e Pickett usando diversi strumenti di analisi, andando a guardare dentro la vita delle persone. Ne viene fuori un quadro inedito: i loro studi infatti dimostrano che la ricchezza non fa la felicità. Vuol dire che la misurazione del pil non è un buon indice di misurazione del benessere. Non basta dire che un paese è ricco per pensare che va tutto bene. Bisogna sapere come è distribuita quella ricchezza. E spesso nei paesi più forti è distribuita male: tanto nelle mani di pochi, poco nelle mani di tanti. È il disvalore della diseguaglianza: più è forte, più la società soffre di malattie sociali: ansia, insicurezza, solitudine sociale, scarsa mobilità e deficit nel rendimento scolastico. Ma non solo: violenza, droghe, alcolismo, disagi psichici, cattiva salute e bassa aspettativa di vita. Insomma, le società più diseguali stanno peggio e sono infelici. Non a caso gli Usa e l’Inghilterra, due paesi ricchi, sono nel posto peggiore in tutte le scale esaminate. L’Italia sta meglio degli Usa, ma peggio degli altri paesi europei. Il costo sociale di questa infelicità diffusa, come è facile immaginare, è enorme.

La conclusione non è nuova: l’uguaglianza resta la sfida principale in un mondo che ha sulle spalle 240 milioni di disoccupati e un esercito di precari senza futuro. Ha ragione Stiglitz a dire che il crollo della Lehman Brothers è per il fondamentalismo capitalista quello che è stato il crollo del Muro di Berlino per il comunismo. E questo apre nuovi scenari. Perché spinge a pensare a una nuova società in cui il lavoro abbia un posto centrale, la ricchezza sia redistribuita più equamente, il mercato sia mitigato con regole certe e arbitri imparziali, ci siano le tutele sociali che garantiscano gli ultimi e infine sia vietato lo sfruttamento dell’uomo. L’orizzonte della politica si allarga, la sfida diventa più difficile ma anche più avvincente. In fondo è su questi temi che si misura la forza di un’idea di futuro. Lo dicono liberal di provata fede. Dunque: crisi storica del capitalismo, diseguaglianza e infelicità. Ce n’è abbastanza di compiti per una sinistra che negli ultimi vent’anni ha troppe volte inseguito le mode liberiste. Ha ricercato una legittimazione nei salotti buoni piuttosto che dotarsi di uno sguardo nuovo del mondo. È mancata quella che Alfredo Reichlin nel suo bel libro Il midollo del leone ha chiamato «visione generale». La sconfitta della sinistra, anche qui in Italia, è figlia di questa incapacità di pensare, dopo la fine del comunismo, le nuove chiavi per una nuova società in grado di tenere insieme giustizia e equità, libertà e uguaglianza, solidarietà e benessere. Come diceva Foa, siamo troppo malati di «presentismo»: ci occupiamo solo dell’oggi senza pensare a domani. Se allarghiamo lo sguardo, invece, ogni elemento ritroverà il suo giusto posto: capiremmo meglio, per esempio, il senso del «modello Marchionne» e lo spartiacque che può segnare e anche il senso del berlusconismo e la sua capacità (un po’ grezza) di cavalcare l’onda neoliberista.

Ma la sinistra saprà avere una visione moderna che riporti sulla scena il lavoro e dia le risposte giuste a una massa di donne e uomini che vive ancora nello sfruttamento e nell’alienazione? Saprà trovare la via che conduce a un nuovo umanesimo: l’uomo al centro e non il plusvalore del consumismo? Se non lo farà, lo faranno altri a modo loro. Il problema, quindi, non è tanto trovare un leader che ci conduca alla conquista della città di Utopia. È invece ritrovare una mission: avere un pensiero sul domani per arrestare il declino di un mondo prigioniero dell’egoismo sociale e della «dittatura del prodotto interno lordo». Questo ci suggeriscono Stiglitz, Wilkinson e Pickett. Claudio Napoleoni diceva che bisogna cercare, cercare ancora. Perché se la sinistra non cerca fuori dai recinti, se non guarda avanti, se non sta dentro il futuro dell’uguaglianza, non si capisce che ci sta a fare.
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Re: Capitalismo infelice

Messaggioda trilogy il 08/11/2010, 23:29

Qui si rischia una nuova polemica..... :mrgreen:

i successi di Reagan
A metà del 1983, la disoccupazione diminuì dall'11% del 1982 all'8,2%. La crescita del PIL fu del 3,3%, la più alta dalla metà degli anni '70. L'inflazione era sotto il 5%. La crescita del PIL, comunque, andò sempre più a mettere in ombra una non equa distribuzione del reddito, la povertà crescente, e l'abbassamento dei salari reali per la metà inferiore dei percepitori di reddito....
http://it.wikipedia.org/wiki/Storia_deg ... (1980-1988)

gli effetti collaterali:
link: http://www.google.com/publicdata?ds=wb- ... ry:ITA:USA
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Re: Capitalismo infelice

Messaggioda pianogrande il 09/11/2010, 2:18

L'errore storico della sinistra è stato di voler diventare non una sinistra moderna ed evoluta ed adatta ai tempi ma una brutta copia della destra.

Superata va anche bene, niente dura in eterno.
Ma da un tipo di sinistra doveva nascere una sinistra nuova non una rinuncia alla difesa dei diritti dei più deboli in nome della modernità.
Se io mi sentissi superato come nonno, dovrei diventare un nonno nuovo e diverso.
Non posso pensare di mettermi a fare la nonna.
Fotti il sistema. Studia.
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Re: Capitalismo infelice

Messaggioda franz il 09/11/2010, 9:47

trilogy ha scritto:Qui si rischia una nuova polemica..... :mrgreen:

Sicuramente. ;)
Suggerisco di prendere in considerazione il grande afflusso di immigrati clandestini (e non) negli USA.
Sono 11 milioni gli immigrati senza documenti e 35 quelli ufficliali, in attesa di naturalizzazione.
La maggior parte è costituita da poveri che tentano la fortuna in america (come facevamo anche noi un secolo fa) e che si portano dietro i loro problemi medici, l'analfabetismo. Il fatto evidente è che questi flussi migratori si dirigono verso i posti in cui ci sono aspettative di star meglio. Naturalmente piu' questo flusso è grande, piu' influisce negativamente sulle statistiche sociali. in Usa la metà dei poveri esce ogni anno dalla soglia di povertà e questa metà è sostituita dai nuovi arrivi (inernied esterni). Stiamo a guardare gli USA ma intanto da noi non possiamo per nulla dire che la metà dei nostri poveri smette di esserlo un anno con l'altro. Sono sempre quelli. Poi se 46 milioni di immigrati su una popolazione di 310 milioni vi sembrano pochi, ricordiamoci che siamo andati in merda per 11'000 albanesi arrivati quasi tutti insieme.

Quanto al paragone tra la caduta del muro di berlino con l'attuale crisi, lo trovo esagerato e non razionale.
Ora io capisco che Spataro, come altri, preso atto del primo crollo, questo sì tremendo, non abbia null'altro da fare che attendere una crisi per poter dire "ecco!". Ed io come tutti non nego che questa crisi sia grave e profonda. Ma proprio perché è seria posso anche constatare che malgrado questo qui si vive ancora mille volte meglio di come si viveva di là dal muro. Quindi il paragone è fuori luogo. Quando il muro crollo', dall'altra parte si riverso' una marea umana in fuga. Nei primi anni furono milioni quelli che cercarono lavoro in Europa e soprattutto in Germania. Oggi con la forte crescita dei paesi dell'est questo flusso si è fermato ed in parte invertito. La crisi attuale dura da due anni ma io non ho visto masse ocenaniche di americani, inglesi, tedeschi, cercare rifugio altrove, emigrando. Morale: la crisi è seria ma non come qualcuno dice. Siamo tutti qui davanti ad un computer a discuterne.

Piu' serio invece il discorso di Richard Wilkinson e Kate Pickett. È solo parzialmente vero che i paesi con le economie più forti sono quelli più diseguali e hanno quindi la più alta incidenza di «malattie sociali».
Il quadro infatti è nettamente disomogeneo. Osservando il famoso indice di gini non è vero che le economie forti sono quelle piu' diseguali. Probabilmente dipende da come si calola la disomogeneità. Ne abbiamo già discusso a lungo.
Un paese ricco contine molti ricchi (sempre piu' ricchi) e meno poveri di un paese povero. Questo credo sia incontestabile. La povertà relativa nei paesi ricchi varia tra l'8 ed il 12%, nei paesi molto poveri supera il 60%, in quelli intermedi varia tra il 30 ed il 45%. In teoria in un paese ultrapoverissimo, dove tutti (100%) fossero poveri, non ci sarebbe disugualianza.
Eppure i poveri non ascoltano gli economisti della disugualianza e fanno di tutto (chissà come mai) per trasferirsi nei paesi ricchi. Quelli infelici, per capirci. A loro non importa che nel paese in cui si trasferiscono ci siano 1000 ultra ricchi. Importa stare meglio. E vedendo il successo di tanti immigrati in america (teoricamente lo sono tutti) direi che ci riscono.

Ma è vero che in molte economie forti ci sono elevati tassi di disagio sociale e psicologico.
Forse anche perché i casi sono comunque limitati ad una parte minima della popolazione (<15%) e quindi ce se ne puo' predere cura, mentre dove la povertà è diffusa il disagio non si nota e non è comunque risolvibile.
Canada e Svezia sono economie forti, con tassi di disugualianza diversi ma con tassi di suicidio simili. Piu' elevati ancora sono i tassi di suicidio all'est, russia compresa, dove l'economia non la possiamo certo definire forte ma la disugualianza è superiore. Discorso simile per l'alcoolismo. Sicuramente il clima nordico influisce molto di piu' della disugualianza. Che dire infatti del tasso di suicidi ogni 100'000 abitanti in Russia (54), Giappone (35) Svizzera e Austria (23) Svezia (18) USA (17) Italia (10) Albania (5)? Forse che in Italia e USA c'è meno disparità della Svezia? Non credo. Ma è noto che certe manifestazioni di disagio, come il suicidio e l'alcoolismo, sono tipiche di economie benestanti e nordiche.

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Re: Capitalismo infelice

Messaggioda ranvit il 09/11/2010, 11:20

Io trovo che la polemica sia inutile....nel senso che è inutile dialogare con certe eccelse menti!

Dice Pietro Spataro a conclusione del suo articolo :
"Ma la sinistra saprà avere una visione moderna che riporti sulla scena il lavoro e dia le risposte giuste a una massa di donne e uomini che vive ancora nello sfruttamento e nell’alienazione? Saprà trovare la via che conduce a un nuovo umanesimo: l’uomo al centro e non il plusvalore del consumismo? Se non lo farà, lo faranno altri a modo loro. Il problema, quindi, non è tanto trovare un leader che ci conduca alla conquista della città di Utopia. È invece ritrovare una mission: avere un pensiero sul domani per arrestare il declino di un mondo prigioniero dell’egoismo sociale e della «dittatura del prodotto interno lordo». Questo ci suggeriscono Stiglitz, Wilkinson e Pickett. Claudio Napoleoni diceva che bisogna cercare, cercare ancora. Perché se la sinistra non cerca fuori dai recinti, se non guarda avanti, se non sta dentro il futuro dell’uguaglianza, non si capisce che ci sta a fare."

E come non essere d'accordo?

Ma... come, con quali politiche concrete nel senso di scelte dei meccanismi istituzionali ed economici che consentano di raggiungere gli auspicati obiettivi?

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Re: Capitalismo infelice

Messaggioda franz il 09/11/2010, 12:01

ranvit ha scritto:Io trovo che la polemica sia inutile....nel senso che è inutile dialogare con certe eccelse menti!

Dice Pietro Spataro a conclusione del suo articolo :
"Ma la sinistra saprà avere una visione moderna che riporti sulla scena il lavoro e dia le risposte giuste a una massa di donne e uomini che vive ancora nello sfruttamento e nell’alienazione?

E come non essere d'accordo?

Ma... come, con quali politiche concrete nel senso di scelte dei meccanismi istituzionali ed economici che consentano di raggiungere gli auspicati obiettivi?

Vittorio

Beh, francamente io non sono tanto d'accordo. Se la sinistra pensa di avere forza perché dà risposte agli sfruttati ed alienati rimane forza minoritaria e non potrà dare risposte a nessuno. Ammettimo che ci riesca. Poi che fa? Sparisce per mancanza di sfruttati ed alienati? Spariscono i problemi?
La sinistra, come ogni forza politica, deve dare risposte a tutti e su tutti i problemi. Anche agli emarginati, sicuramente, ma a tutti i lavoratori, dipendenti e indipendneti, alle attività economiche, alle famiglie, agli studenti, ai pensionati, ai ricercatori. Se non lo fa, non è forza politica ma diventa essa stessa emarginata, alienata e sfruttata (dal berlusconi di turno che la userà come spauracchio).

Poi concretamente a mio avviso c'è poco da cercare. Le soluzioni ci sono già.
Chi voleva cercare 40 anni fa trovava Mosca, non la Svezia.
Ora che Mosca non c'è piu' ... anche la Svezia sta cambiando.
Qui non si cerca, si insegue la realtà mutevole, cogliendola sempre in ritardo.
Mentre la sinistra cerce e ricerca, il Paese ha problemi OGGI.

E a mio avviso l'Italia ha piu' problemi dovuti ad un pessimo Stato clientelare, corporativo, burocratico, elefantiaco che spreca i tanti soldi che raccoglie dalle tasche degli italiani, limitando ed oscacolando le attività imprnditoriali, senza dare quel welfare assistenziale che invece i paesi occidentali normali (non solo la Svezia) hanno.
Qui il problema non sono i capitalisti cattivi ma uno stato che a proposito di disparità, paga stipendi da due o trecento mila euro ai manger pubblici e stipendi da 800 euro ai precari, mentre mantiene piu' di tre milioni di dipendenti pubblici di cui il 10% come minimo o anche il 30% ad essere piu' larghi potrebbe essere lasciato a casa a trovare un'occupazione piu' produttiva.

Ecco, questi sono i temi (difficli, duri, che implicano scelte aspre) che una sinistra moderna dovrebbe affrontare, invece di blaterare sui nuovi umanesimi e sul consumismo.

Franz
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Re: Capitalismo infelice

Messaggioda ranvit il 09/11/2010, 14:04

Ecco, questi sono i temi (difficli, duri, che implicano scelte aspre) che una sinistra moderna dovrebbe affrontare, invece di blaterare sui nuovi umanesimi e sul consumismo.

Il problema è il "blaterare" non se sia o no giusto discutere di nuovo umanesimo e consumismo. Siamo esseri umani, mica macchine. E' quindi doveroso avere sempre presente il livello di umanità nello svolgersi della vita sociale.

E' che la sinistra intesa nel senso di sinistra-sinistra non ha mai mostrato alcuna capacità di saper affrontare il problema....

Vittorio
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Re: Capitalismo infelice

Messaggioda flaviomob il 09/11/2010, 17:29

Francesco
La crisi attuale dura da due anni ma io non ho visto masse ocenaniche di americani, inglesi, tedeschi, cercare rifugio altrove, emigrando. Morale: la crisi è seria ma non come qualcuno dice. Siamo tutti qui davanti ad un computer a discuterne.


Non ce n'è bisogno: infatti, oggi migrano direttamente le fabbriche... (Marchionne style) :lol:


"Dovremmo aver paura del capitalismo, non delle macchine".
(Stephen Hawking)
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Re: Capitalismo infelice

Messaggioda pierodm il 10/11/2010, 17:17

Il problema è il "blaterare" non se sia o no giusto discutere di nuovo umanesimo e consumismo

Perfino Ranvit riesce ad essere più accorto di Franz - di poco, non ti montare la testa.

Tra l'altro mi chiedo che diavolo siano "l'umananesimo e il consumismo" nei meandri della mente di Franz, e mi chiedo (si fa per dire, perchè la risposta già la conosciamo) come sia possibile che ogni ragionamento, ogni interesse, ogni punto di vista e ogni discorso che ne consegue diversi da quelli che fanno loro stessi siano per la premiata ditta Franz &Rnvit un "blaterare".
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