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Diritti umani, informazione e comunicazione

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Re: Diritti umani, informazione e comunicazione

Messaggioda flaviomob il 24/08/2014, 15:02

dal Fatto:

Israele: se i media sono complici dell’ipocrisia
di Roberta Zunini | 24 agosto 2014


Israele“In Israele ormai non abbiamo praticamente più una stampa indipendente“. A denunciare l’autocensura, la mancanza di critica dei media israeliani, è il trentacinquenne avvocato israeliano Iftach Cohen, noto per le sue battaglie umanitarie. “I media hanno retto il gioco sporco del premier Netanyahu nascondendo la verità sia nel caso del rapimento dei 3 giovani coloni sia sulla devastazione di Gaza, fatti tra l’altro legati. Con titoli del tipo “dobbiamo trovarli a costo di guardare sotto ogni sasso”, hanno aumentato nell’opinione pubblica l’illusione di trovare vivi quei ragazzi, pur sapendo che erano stati subito uccisi.

Nei circoli che contano tutti erano a conoscenza della telefonata che uno di loro aveva fatto alla polizia e agli spari che si erano sentiti mentre denunciava il rapimento. Tutti sapevano della macchina su cui erano stati fatti salire, trovata crivellata di colpi con tracce di sangue. Eppure negli studi televisivi si è continuato a fare dibattiti con i soliti militari guerrafondai, senza che i conduttori adombrassero minimamente ciò che tutti gli addetti del mestiere sospettavano”. Secondo l’avvocato questa retorica televisiva martellante protratta per settimane non solo ha convinto l’opinione pubblica che i ragazzi erano vivi, ma l’ha predisposta al massimo della frustrazione nel caso di un risultato negativo, puntualmente verificatosi.


“Con questo carico di frustrazione, la vendetta più spietata diventa l’unica consolazione possibile”. Per quanto riguarda questa ennesima offensiva contro Gaza, Cohen sostiene che i media continuano a essere complici dell’ipocrisia e del cinismo del governo, facendo vedere in continuazione le immagini dei razzi che esplodono nel cielo israeliano o le poche case danneggiate, o i volti dei soldati uccisi ma non una della devastazione, delle centinaia di morti e delle sofferenze dei feriti tra i civili della Striscia. “Si è visto solo qualche collegamento con qualche abitante sopravvissuto al quale il giornalista chiede sempre perché non si ribella ad Hamas, come se fosse una cosa facile e ovvia quando tutti sanno che Hamas perseguita chi si oppone al suo potere, o, al massimo, uno scambio di battute tra un abitante di Gaza e uno dei villaggi israeliani presi di mira dai razzi. Il tenore di queste brevissime conversazioni è talmente sbilanciato da risultare comico se non fosse tragico. Ma la maggior parte degli israeliani si lascia fuorviare dalla retorica e non sa più distinguere tra autodifesa e punizione collettiva. Mi ha particolarmente colpito vedere una mamma israeliana, ben vestita e truccata, di Sderot che diceva in diretta tv a un abitante di Gaza : ‘Sa che i miei bambini adesso hanno paura a fare la doccia da soli’. E l’uomo le ha risposto in ebraico: ‘Lo sa che i miei non possono farla da settimane perché le bombe hanno interrotto l’afflusso d’acqua e centinaia non la possono più fare perché sono morti.La sete di vendetta israeliana è una delle conseguenze di un’informazione scorretta. I nostri media stanno violando da anni il diritto alla conoscenza, alla critica, principi base di un vero stato democratico. Del resto molti editorialisti hanno detto che prima di essere giornalisti sono israeliani. La democrazia qui sta diventando un guscio vuoto”.


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Egitto: regime omofobico?

Messaggioda flaviomob il 09/09/2014, 2:18

dal manifesto:

Gay senza più primavera

—  Giuseppe Acconcia, 8.9.2014

Egitto. Vanificata ogni speranza di rinnovamento per gli omosessuali egiziani. Al Cairo, 7 arresti per il video di un presunto «matrimonio»


Dal colpo di stato mili­tare del 2013, gli omo­ses­suali egi­ziani non hanno pace. Ormai nel mirino delle auto­rità non ci sono solo gli atti­vi­sti poli­tici ma tutti i movi­menti gio­va­nili. Inclusa la comu­nità Lgbt in Egitto che, dopo le rivolte del 2011, punta sulla riven­di­ca­zione dei diritti omo­sex in un paese con una schiac­ciante mag­gio­ranza di musul­mani pra­ti­canti, dove le libertà ses­suali sono un tabù.

E così, in seguito alla repres­sione del dis­senso, voluta dall’esercito, anche gli omo­ses­suali egi­ziani sono finiti tra le sbarre. L’ultimo caso riguarda un pre­sunto «matri­mo­nio gay» che avrebbe avuto luogo al Cairo. La pra­tica è abba­stanza comune in Egitto, soprat­tutto nelle aree urbane, e pre­vede che i due coniugi, dello stesso sesso, vivano insieme senza alcuna regi­stra­zione uffi­ciale ma con una certa con­di­scen­denza del vici­nato che cono­sce lo sta­tus dei due com­pa­gni e non indaga troppo. Ma que­sta volta, la pra­tica, uffi­cial­mente ine­si­stente, è stata ripresa da una tele­ca­mera, susci­tando non poche polemiche.

La repres­sione dei gay egiziani

La scorsa dome­nica la poli­zia ha arre­stato sette uomini che avreb­bero preso parte a un matri­mo­nio gay sul Nilo. In assenza di una legge che proi­bi­sca diret­ta­mente le pra­ti­che omo­ses­suali, i sette sono accu­sati di «liber­ti­nag­gio» e «vio­la­zione della pub­blica decenza». Il video cir­cola da mesi su You­tube e raf­fi­gura due uomini in abiti ele­ganti che si scam­biano gli anelli davanti a un gruppo di amici a bordo di uno dei lus­suosi bar­coni che ormeg­giano lungo il Nilo. Tut­ta­via, per difen­dersi, uno degli uomini pre­senti nel video ha tele­fo­nato alla popo­lare tra­smis­sione tele­vi­siva di Tamer Amin, spie­gando che si trat­tava sola­mente di una festa di com­pleanno. L’uomo, che ha assi­cu­rato di avere una com­pa­gna, ha anche aggiunto, in con­di­zioni di ano­ni­mato, che dal giorno della dif­fu­sione del video, sta subendo gravi minacce.

Ma non si tratta di un caso iso­lato. Lo scorso aprile, tre uomini sono stati con­dan­nati a otto anni e un quarto a tre anni di pri­gione in rife­ri­mento alle loro pra­ti­che omo­ses­suali. Gli uomini sareb­bero stati arre­stati in un appar­ta­mento di Medi­nat Nassr, quar­tiere resi­den­ziale del Cairo, men­tre erano vestiti da donne. Non solo, lo scorso otto­bre, 14 uomini sono stati arre­stati nel quar­tiere peri­fe­rico di el-Marg, in una cli­nica, dove avreb­bero com­messo «atti osceni». Il cen­tro medico è stato in seguito chiuso. Eppure dall’inizio delle rivolte, nel cen­tro del Cairo con­ti­nuano ad aprire locali «gay friendly», dai caffè siriani su via Hoda Shaa­rawy al bar Kafein, senza susci­tare par­ti­co­lare clamore.

Pri­ma­vera Lgbt, spe­ranza fallita

Nel 2011, piazza Tah­rir rac­colse le riven­di­ca­zioni di tutti gli emar­gi­nati della società egi­ziana: dalle donne ai migranti, dai tifosi di cal­cio ai poveri, dai lavo­ra­tori ai ven­di­tori ambu­lanti. Non solo, all’incrocio tra la piazza e via Talaat Harb, all’angolo della fer­mata della metro Sadat e sui can­celli di fronte al fast food KFC, si svol­geva un’altra silen­ziosa rivo­lu­zione. Si rac­co­glie­vano lì, durante le mani­fe­sta­zioni anti-Mubarak prima e anti-Morsi poi, o in nor­mali giorni di lavoro, gruppi di gio­vani omo­ses­suali. Ora con­ti­nuano ad incon­trarsi in luo­ghi diversi del cen­tro urbano sem­plici amici, rigo­ro­sa­mente solo uomini, pas­seg­giando per le stra­dine, cir­con­date dai palazzi di ini­zio Nove­cento, e spesso rag­giun­gendo Borsa, un’area pedo­nale com­po­sta da decine di minu­scoli caffè, di fronte alla chiesa cristiano-armena e a due passi dalla «Piazza Affari» egiziana.

Que­sti ragazzi si ritro­vano ancora in punti di incon­tro ano­nimi come piazza Ram­sis, a due passi dalla moschea el-Fatah. Ma un alone di tri­stezza, mista a otti­mi­smo, si legge nei volti di que­sti ragazzi seduti al Borsa. Anche i gio­vani omo­ses­suali egi­ziani hanno ten­tato di fare la loro rivo­lu­zione. Per esem­pio, i due atti­vi­sti Lgbt, Moham­med e Yosri hanno dato per decine di volte appun­ta­mento ai loro amici per una sorta di «Cairo Gay Pride» in piazza Tah­rir, ma spesso non si sono pre­sen­tate che poche persone.

Non ci sono casi di ecla­tanti repres­sioni degli omo­ses­suali egi­ziani. Ma un epi­so­dio è rima­sto negli annali. Si tratta della «Queen Boat». Era l’11 mag­gio 2001 quando uffi­ciali della poli­zia e della sicu­rezza di Stato hanno fatto irru­zione su que­sta imbar­ca­zione, anco­rata sul Nilo, e hanno arre­stato oltre cin­quanta per­sone. Era noto che si tenes­sero qui feste a cui pren­deva parte la comu­nità omo­ses­suale egi­ziana. L’accusa mossa con­tro alcuni degli arre­stati è stata di pro­sti­tu­zione maschile. Secondo testi­mo­nianze rac­colte da alcuni atti­vi­sti per i diritti umani, gli impu­tati sono stati umi­liati fisi­ca­mente e psi­co­lo­gi­ca­mente, sot­to­po­sti a inu­tili visite anali per veri­fi­care se aves­sero avuto rap­porti ses­suali. Tut­ta­via, gli arre­stati non hanno mai ammesso di essere omo­ses­suali nel corso del processo.

ll caso «Queen Boat», è stato ampia­mente rac­con­tato dalla stampa. L’attivista per i diritti umani, Hos­sam Bah­gat col­legò il caso diret­ta­mente alla repres­sione poli­tica della Fra­tel­lanza. In que­gli anni, i Fra­telli musul­mani accu­sa­vano il regime di non fare abba­stanza con­tro le ten­denze con­tra­rie all’islamizzazione della società egi­ziana. E con la pun­tua­lità tipica dei regimi auto­ri­tari ecco ser­vito il caso «Queen Boat». In realtà, tra il 2000 e il 2005 aumen­tava note­vol­mente il numero di arre­sti di omo­ses­suali in con­co­mi­tanza con le nuove riven­di­ca­zioni della comu­nità Lgbt egiziana.
Nelle ete­rie tra cinema e hammam

E così, gli egi­ziani hanno spesso dovuto tro­vare luo­ghi par­ti­co­lari, iso­lati, bui o poco fre­quen­tati per vivere la pro­pria omo­ses­sua­lità. I luo­ghi dove sono comuni gli incon­tri tra uomini sono i pochi e anti­chi ham­mam rima­sti nella città antica, dal souk del quar­tiere Bab el-Louk all’antichissimo ham­mam di Bab Share­yya. Il vapore nasconde i volti di que­sti uomini che spesso festeg­giano come in un’eteria il loro addio al celibato.

Altro tipico luogo di incon­tro sono i cinema di quar­tieri disa­giati. A Bou­laq Abul-Ela, nel buio del cinema M., si attar­dano decine di gio­vani e anziani che entrano alla rin­fusa. Già nel fare i biglietti si nota qual­cosa di strano. Ma all’ingresso si apre un luogo incre­di­bile: la luce entra dalle fine­stre le cui tende sono quasi com­ple­ta­mente strap­pate. Il palco al cen­tro ha sta­tue grandi ai lati, segni di un tempo fastoso in cui il cinema era fre­quen­tato da altro pubblico.

Men­tre thril­ler e film com­mer­ciali scor­rono sugli schermi, solo gli occhi di qual­cuno sono rivolti alla pel­li­cola: forse gente di pas­sag­gio che non sa dove si trova. Gli altri che occu­pano le sedie semi­di­strutte del cinema si alzano alla ricerca di incon­tri. È chiaro che, repri­mendo la comu­nità omo­ses­suale che avanza le prime richie­ste di diritti omo­sex in Egitto, l’esercito crede di mostrare di opporsi a ogni ten­denza anti-islamica, pre­sente nella società, per avere le mani libere e con­ti­nuare a repri­mere i movi­menti isla­mi­sti, dura­mente cen­su­rati dopo il colpo di stato militare.


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Re: Diritti umani, informazione e comunicazione

Messaggioda flaviomob il 12/09/2014, 10:39

Cinquanta giorni di stragi in Palestina:

http://imeu.org/article/50-days-of-deat ... ctive-edge

Quattro anni di austerity in Grecia (fotogalleria):

http://www.vice.com/it/read/four-years- ... res/151326


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Re: Diritti umani, informazione e comunicazione

Messaggioda flaviomob il 15/09/2014, 14:21

dal Fatto:

Bahrain, l’appello per scarcerare Maryam Al-Khawaja
di Riccardo Noury | 15 settembre 2014
Commenti
Bahrain, l’appello per scarcerare Maryam Al-Khawaja

Più informazioni su: Amnesty International, Bahrain, Diritti Umani, Ergastolo, Esilio.
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Domani, se non ci sarà un nuovo rinvio, Maryam Al-Khawaja comparirà di fronte a un giudice del Bahrain per aver “umiliato e aggredito agenti di polizia nell’esercizio delle loro funzioni”: l’ennesima accusa pretestuosa, un’ulteriore prova dell’accanimento della famiglia reale Al-Khalifa nei confronti degli Al-Khawaja.

Abdulhadi, il padre, il più noto difensore dei diritti umani del Bahrein, già presidente del Centro per i diritti umani del Bahrain e fondatore del Centro per i diritti umani del Golfo, sta scontando l’ergastolo per aver organizzato manifestazioni pacifiche e aver denunciato le violazioni dei diritti umani con cui le autorità del regno – aiutate nel 2011 dalle truppe saudite e degli altri paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo – hanno stroncato e continuano a stroncare la rivolta partita il giorno di San Valentino di tre anni fa.

Abdulhadi Al-Khawaja è in sciopero della fame dal 24 agosto.

Il 28 agosto la sua figlia maggiore, Zainab, al settimo mese di gravidanza, è stata incriminata per “ingresso illegale in una zona ad accesso ristretto”: si era presentata di fronte al carcere per sincerarsi delle condizioni del padre, dopo che questi aveva avuto un collasso al quarto giorno di rifiuto del cibo. Rischia di essere processata a ottobre e, se condannata, di partorire in carcere.

Le condizioni del padre hanno spinto Maryam, la figlia più piccola, a rientrare dall’esilio. Il 30 agosto l’hanno bloccata, appena atterrata all’aeroporto internazionale di Manama, perché sul suo passaporto danese non c’era il visto d’ingresso. Maryam, oltre che cittadina della Danimarca, è cittadina del Bahrain.

Secondo l’accusa, quando i poliziotti le hanno chiesto di andare a fare il visto, Maryam li avrebbe aggrediti. Il tanto pubblicizzato referto medico che attesterebbe le ferite riportate da un agente non è ancora stato reso pubblico. L’altra versione è che sia stata Maryam a essere aggredita da quattro agenti, che volevano strapparle il telefono dal quale stava twittando in tempo reale cosa stava accadendo.

La scandalosa situazione dei diritti umani in Bahrain rimane nascosta a gran parte dell’opinione pubblica internazionale e anche in Italia se ne sa poco. Stati Uniti d’America e Gran Bretagna proteggono il regno. A Washington e a Londra molte agenzie di pubbliche relazioni sono al lavoro, pagate profumatamente, per tutelare l’immagine del regno.

Amnesty International ha lanciato un appello per l’annullamento di ogni accusa nei confronti di Maryam Al-Khawaja e per la sua immediata scarcerazione.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09 ... a/1117984/


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Re: Diritti umani, informazione e comunicazione

Messaggioda flaviomob il 16/09/2014, 22:47

https://www.ilgiornaledigitale.it/ricca ... -6615.html

Il portavoce nazionale di Amnesty International Riccardo Noury parla del flusso migratorio in Italia, denuncia la pulizia etnica contro le minoranze in Iraq e spiega che da tempo non si hanno più notizie delle studentesse nigeriane rapite dagli estremisti di Boko Haram.


In un contesto italiano e internazionale in cui prevale la paura e la diffidenza verso il prossimo ci sono numerose associazioni e organizzazioni non governative (ONG) che lavorano con umiltà e fra mille difficoltà per difendere i diritti umani riconoscendosi in un concetto oggi sempre più dimenticato: la solidarietà.
Fra queste ONG ce n’è una, Amnesty International, che lavora ogni giorno per far emergere i casi di violazione dei principali diritti umani: dalla campagna di sensibilizzazione alla lotta contro la pena di morte e la tortura fino agli appelli per salvare le popolazioni che rischiano la pulizia etnica. Il Giornale Digitale ha intervistato, in esclusiva, il portavoce nazionale di Amnesty International Riccardo Noury che da oltre 30 anni si dedica ai temi della salvaguardia e difesa dei diritti umani nel mondo.

Lei, Riccardo Noury, da sempre ha dato voce soprattutto alle campagne contro la pena di morte e le torture. Uno Stato può dirsi veramente democratico se contempla una condanna come la pena di morte?

Tutte le definizioni che possiamo dare di democrazia fanno a cazzotti con l’idea che uno Stato possa avere un potere supremo e definitivo di togliere la vita a una persona. L’idea che ci sia una persona che rappresenta lo Stato che si arroga il diritto di avere la verità e che sulla base di quella verità toglie la vita a un essere umano mi porta a concludere che manca un elemento fondamentale per definire quello Stato democratico.
La pena di morte non è mai una violazione singola e residuale di violazione dei diritti umani ma si accompagna a tante altre come i processi residuali, l’uso della tortura per estorcere informazioni, diniego del diritto alla difesa. Se vediamo bene anche in Stati Uniti e Giappone si verificano queste cose. In Giappone i processi di appello dopo una condanna a morte sono molto rari, i processi capitali negli Stati Uniti a volte sono influenzati da pregiudizi di natura razziale se non sociale. Dunque dove c’è pena di morte la democrazia è quantomeno molto incompiuta.

Passando al tema della tortura, uno dei casi più recenti è quello di Raif Badawi, condannato a 10 anni di prigione, a 1000 frustate e una multa di quasi 200mila dollari per aver creato un forum in cui si discuteva del ruolo della religione in Arabia in Saudita. Come si può arrivare a un caso così palese di negazione di manifestazione del pensiero?

L’Arabia Saudita è uno dei Paesi in cui qualunque espressione di pensiero, off line oppure on line, è considerata un attentato alla sicurezza e/o un’offesa ai valori sacri dell’Islam. Nel caso di Badawi oltre alla condanna, c’è anche una pena aggiuntiva particolarmente dolorosa come può essere quella delle frustate che viene emessa a mo’ di monito. Infliggere dolore attraverso una sanzione giudiziaria è una cosa aberrante. Ciò non accade solo in Arabia Saudita ma anche in Kuwait, Qatar e Bahrein. Sono tutti Paesi in cui non è possibile prendere la parola o rivendicare diritti o anche scrivere un tweet contenente delle critiche. Proprio sul Bahrein abbiamo lanciato un appello per la nostra collega Maryam Al-Khawaja, attivista per i diritti umani per il Bahrein e che fa parte di una famiglia perseguitata dalla autorità vicine alla famiglia al-Khalifa, dopo un periodo di esilio è tornata in Bahrein ed è stata arrestata appena arrivata all’aeroporto con un’accusa pretestuosa di resistenza a pubblico ufficiale.
Riccardo Noury: Italia chieda aiuto all’UE per ricerca e soccorso migranti (INTERVISTA)Credits Photo: Facebook Badawi profile

Uno degli ultimi appelli di Amnesty International sul proprio sito internet era rivolto agli Stati Uniti affinchè non fornissero più armi a Israele che nel corso dei conflitti delle ultime settimane a Gaza ha commesso crimini di guerra. In quel caso chi fornisce le armi può avere una specie di concorso di colpa per quanto sta facendo lo Stato che usa tali armi?

A livello morale, politico ed extragiudiziario chiunque fornisca armi a un Paese in cui c’è una tradizione di diritti violati sapendo che tali armi potrebbero essere usate violando ancora una volta i diritti umani si rende corresponsabile di quelle violazioni. Da un punto di vista morale e politico il concorso di colpa c’è. Con l’entrata in vigore del trattato sul commercio delle armi, che dovrebbe raccogliere il numero minimo di firme il prossimo anno, potrebbero arrivare anche le sanzioni a chi fornisce armi a governi o gruppi di altra natura che violano i diritti umani. Ma il fatto che il mondo si sia impegnato a non dare armi a chi le usa violando i diritti umani è una novità rivoluzionaria.

L’Isis sta portando in atto una vera e propria pulizia etnica contro le minoranze del nord dell’Iraq. Come si sono formati questi gruppi jihadisti sunniti?

Tutto comincia quando l’amministratore provvisorio dell’Iraq, Paul Bremer, nel 2003/2004, decise di liquidare l’esercito iracheno licenziando tutti i militari senza pensione per far passare il concetto della “Desaddamizzazione” dell’Iraq. Ma fare questo ha permesso di lasciare liberi migliaia di uomini rancorosi che si sono riorganizzati in vari gruppi come quello che uccise Baldoni 10 anni fa, poi al-Qaeda in Iraq, poi lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante e poi lo Stato Islamico. Questi sono gli errori di altri che oggi pagano le popolazioni del nord dell’Iraq, gli assiro-caldei, gli yazidi, i curdi, comunità contro le quali lo Stato Islamico ha avviato una campagna di sistematica pulizia etnica.
Riccardo Noury: Italia chieda aiuto all’UE per ricerca e soccorso migranti (INTERVISTA)Credits photo: Al Jazeera

La campagna “Bring back our girls” aveva sollevato un gran clamore sulla questione delle studentesse nigeriane rapite da Boko Haram ma dopo poche settimane la questione è stata dimenticata dai mass media e dai social network. Ormai non ne parla più nessun mass media. Quali sono le ultime notizie che avete su di loro?

I media sono macchine che producono notizie ed emozioni in maniera molto veloce e questo è il difetto principale. In secondo luogo il governo nigeriano è stato abile a far passare il messaggio che meno se ne parlava e meglio era in maniera tale anche da nascondere le proprie responsabilità sulla vicenda. Di queste ragazze, sinceramente, non se ne sa più nulla. I media nigeriani non ne parlano perché parlare di Boko Haram mette paura e può anche finire sotto la censura governativa mentre i media main streaming passano dalla Nigeria, a Gaza poi in Iraq e in Ucraina per cercare di stare dietro al fatto del momento. Noi di Amnesty continuano a tenere aperto il nostro appello ma resta il fatto che non ne sappiamo più nulla.
Riccardo Noury: Italia chieda aiuto all’UE per ricerca e soccorso migranti (INTERVISTA)Credits photo: Amnesty

Negli ultimi anni è aumentato il numero di persone che cercano di raggiungere l’Europa fuggendo da contesti difficili in Asia e Africa. L’Italia ha dimostrato di essere impreparata nella gestione di questi flussi migratori. Quale possono essere le soluzioni per permettere all’Italia di gestire al meglio il fenomeno e per consentire agli immigrati un futuro quantomeno dignitoso?

Noi dovremmo spingere all’interno dell’Unione Europea, e il semestre di presidenza italiana è un’opportunità, per fare due cose: pretendere aiuto dall’Ue per la gestione di attività preziosissime come quelle di ricerca e soccorso in mare; riformare tutta la normativa che l’Ue si è data e che penalizza fortemente i Paesi mediterranei come Italia, Grecia, Malta, Cipro e Spagna. Le attuali norme impongono a un richiedente asilo di fare domanda di asilo politico nel Paese in cui ha messo piede per la prima volta e ciò significa che i Paesi dell’Europa meridionale rispetto a Lussemburgo o Germania hanno un onere infinitamente superiore. Dopo un anno di Mare Nostrum, con più di 100mila persone salvate in mare, l’Italia ha tutte le carte in tavola per chiedere un aiuto all’Ue e noi sosteniamo questa richiesta dicendo che l’Ue deve fare ricerca e soccorso in mare. Detto questo bisogna dire che l’Italia resta un Paese con un flusso migratorio modesto. L’Italia ha accolto il 10% dei profughi siriani rispetto a quanto ha fatto il Libano. Poi l’Ue dovrebbe fare altro e l’Italia dovrebbe chiedere altro come, ad esempio, i corridoi umanitari via mare creando dei meccanismi sicuri e legali per entrare in Europa a chiedere asilo. L’Europa dovrebbe anche cercare di aiutare Paesi come la Giordania accogliendo, come noi chiediamo, alcuni gruppi di profughi che, ad esempio, hanno alcuni parenti in qualche nazione europea. Ma l’approccio dell’Unione Europea è di chiusura e di tenuta delle frontiere e non di accoglienza.

Rimanendo in tema di immigrazione, infine, c’è il tema legato ai venditori abusivi di strada (e di spiaggia), quelli che Alfano ridefinì “vucumprà” scatenando non poche polemiche. Se da una parte quella di Alfano fu un’uscita infelice va detto, però, che spesso la merce venduta dagli ambulanti è contraffatta e che gli stessi migranti che troviamo per strada lavorano per la criminalità organizzata.

Basta uscire da Roma e arrivare in territorio pontino, ad esempio, per ritrovare nei campi decine di persone con coloratissimi turbanti chini a raccogliere meloni, cocomeri pagati 1 euro l’ora, quando vengono pagati, con passaporti trattenuti, con impossibilità di denunciare i loro datori di lavoro perché se si presentano alle autorità italiane vengono trovati non in regola e quindi espulsi. Quella degli immigrati che lavorano per le organizzazioni criminali è una situazione difficile e si dovrebbe riuscire a colpire la criminalità cercando di tutelare queste persone.
Riccardo Noury: Italia chieda aiuto all’UE per ricerca e soccorso migranti


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Re: Diritti umani, informazione e comunicazione

Messaggioda flaviomob il 18/09/2014, 10:10

dal Fatto:


Francia, al via processo per morte Franceschi. “Regione e governo assenti”


Daniele Franceschi è morto in carcere a Grasse nel 2010. Sul banco degli imputati per homicide involontaire ci sono il medico del penitenziario Jean Paul Estrade e le infermiere Françoise Boselli e Stephanie Colonna. Alla sbarra anche il direttore dell'ospedale della città, Frédéric Limousy. La mamma Cira Antignano: "Potrò partecipare al processo solo grazie al sostegno dell'Associazione contro gli abusi in divisa e il Comitato delle vittime della strage di Viareggio e del 29 Giugno"

di Ilaria Lonigro | 18 settembre 2014



Era stato imprigionato nel carcere francese di Grasse per mesi, senza un processo. Il 25 agosto 2010 il viareggino Daniele Franceschi, 36 anni, ne è uscito morto, in circostanze non chiare. Oggi, a quattro anni di distanza, la Francia dà il via al processo. Non più per il reato di cui si sarebbe macchiato – avrebbe usato una carta di credito falsa mentre era in vacanza – ma per far luce sul suo decesso. Sul banco degli imputati per homicide involontaire, l’omicidio colposo nel codice italiano, per il quale la Francia prevede fino a 5 anni, ci sono il medico del carcere Jean Paul Estrade e le due infermiere Françoise Boselli e Stephanie Colonna, queste ultime colpevoli, secondo alcuni detenuti, di aver ignorato per ore le richieste di aiuto di Franceschi e del suo compagno di cella. Da due giorni l’operaio viareggino accusava violenti dolori al torace. Tutti e tre sono stati rinviati a giudizio. Solo Colonna non si è presentata alla prima udienza, mercoledì, perché incinta. Alla sbarra c’è anche il direttore dell’ospedale di Grasse, Frédéric Limousy.
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All’apertura del processo nella cittadina della Costa Azzurra celebre per i profumi c’era la mamma di Daniele, Cira Antignano. Con lei i familiari delle vittime della strage ferroviaria del 2009, per dare sostegno all’anziana, cui la Francia non ha risparmiato dolori, neanche dopo la morte del figlio, di cui fu informata tre giorni dopo. Alla prima autopsia, il 31 agosto 2010, che rivelò un infarto, non fu ammesso il medico di parte della famiglia Franceschi. E la salma non fu concessa all’Italia neanche per il funerale. I resti di Daniele tornarono a casa solo il 16 ottobre 2010. Senza organi, quelli che la mamma chiede ancora a distanza di quattro anni. Come ribadisce a conclusione della lettera che pochi giorni fa ha indirizzato al presidente del consiglio Renzi, a Federica Mogherini, ministro degli Esteri, al presidente della commissione giustizia in senato Luigi Manconi e a quello della Regione Toscana Enrico Rossi.

Durissimi i toni che usa la donna. “Il suo corpo – scrive Cira – mi è stato restituito dalle autorità francesi in avanzato stato di decomposizione e senza gli organi interni. Soprattutto senza una risposta, una spiegazione (…) Il 13 ottobre 2010 sono andata a manifestare davanti al carcere di Grasse, per mio figlio, con un lenzuolo bianco con su scritto: “Carcere assassino, me lo avete ammazzato due volte. Voglio giustizia”. La protesta non è però piaciuta ai vertici carcerari che hanno chiamato la polizia. Ho cercato di spiegare che volevo manifestare pacificamente ma loro mi hanno messo in ginocchio e mi hanno ammanettato. Uno con il tacco della scarpa me l’ha premuto contro il petto fino a rompermi tre costole”. Quel giorno Cira fu arrestata e portata in gendarmeria. Solo grazie all’intervento del console italiano a Nizza fu liberata e poté tornare in Italia.

La donna conclude denunciando il silenzio della politica: “Il 17 e 18 settembre prossimi si terrà presso il Tribunale francese di Grasse il processo per omicidio colposo a carico del medico del carcere e per due infermiere, ma ancora una volta, come in tutti questi anni, lo Stato e la Regione di cui Daniele era cittadino saranno assenti. Io stessa, in gravi difficoltà economiche, potrò partecipare al processo solo grazie al sostegno di Acad, Associazione contro gli abusi in divisa-Onlus, e il Comitato delle vittime della strage di Viareggio e del 29 Giugno. Vi pare giusto che ci sia qualcuno che svolge il vostro compito anche in questi termini?”.


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Hong Kong, la dittatura avanza

Messaggioda flaviomob il 28/09/2014, 12:18

Mentre in Italia permettiamo ai grandi capitali cinesi di penetrare nei settori più delicati e strategici, il regime rivela il suo volto ad Hong Kong. Quanto diventerà influente la dittatura cinese in Italia nel prossimo futuro? Saremo definitivamente compromessi sulla strada antidemocratica?

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http://www.lastampa.it/2014/09/27/ester ... agina.html

Hong Kong, arrestati i leader della rivolta. Guerriglia con la polizia e decine di feriti
Gli studenti in piazza da diversi giorni chiedono elezioni libere nell’ex colonia britannica. Pechino ha concesso il suffragio universale ma imposto tre candidati di suo gradimento


27/09/2014

Migliaia di persone di tutte le età sono scese oggi nelle strade di Hong Kong per sostenere gli studenti che da una settimana reclamano una vera democrazia sfidando apertamente Pechino. La mobilitazione dei ragazzi, che hanno disertato le lezioni nelle Università e nei licei e hanno dato vita ad una serie di manifestazioni di protesta, si è conclusa la notte scorsa con tafferugli e 74 arresti.


La polizia è intervenuta con la forza dopo che un gruppo di giovani aveva sfondato la porta del quartiere generale del governo nella cosiddetta «civic square» ad Admirality, l’area dell’isola di Hong Kong adiacente a Central, il quartiere delle grandi imprese e delle grandi banche internazionali che hanno qui una base fondamentale per le loro operazioni in Cina e nel resto dell’Asia.

Da tre giorni i giovani chiedono di essere ricevuti dal «chief executive» - capo del governo locale - C.Y.Leung, che finora ha respinto la richiesta. Tra gli arrestati c’è Joshua Wong, un ragazzo di 17 anni che ha fondato e guida il gruppo studentesco «Scholarism», uno di quelli che hanno organizzato la protesta. Secondo voci non confermate gli sarebbe stata negata la cauzione. Le autorità dell’ex colonia britannica non hanno ancora chiarito con quali accuse il giovane sia trattenuto.


La leader del Partito Democratico Emily Lau e quelli del Partito Laburista Lee Cheuk e del Partito Civico Alan Leong hanno espresso la loro solidarietà agli studenti e hanno chiesto che vengano «immediatamente» rilasciati tutti i giovani che sono stati fermati. Benny Tai, leader del gruppo «Occupy Central», alleato degli studenti, ha invitato la popolazione ad esprimere la propria solidarietà coi giovani. All’invito hanno risposto, riferiscono testimoni sul posto, in migliaia e in piazza sono scese «famiglie e vecchi».


Ad innescare le proteste dei giovani, di una portata senza precedenti nell’ex colonia britannica, è stata la decisione di Pechino di limitare a due o tre il numero dei candidati alla carica di «chief executive» o capo del governo locale di Hong Kong nelle elezioni che nel 2017, per la prima volta, si svolgeranno col suffragio universale. Inoltre, il governo centrale ha stabilito che i candidati devono essere approvati da una apposita commissione elettorale i cui membri vengono nominati da Pechino.



Secondo gli studenti che hanno dato vita alle proteste, questa decisione equivale ad una marcia indietro rispetto alla promessa di instaurare una piena democrazia politica. Tale impegno è contenuto nella Basic Law, la Costituzione di Hong Kong che dal 1997 è una Speciale Regione Amministrativa della Cina. Deng Xiaoping, il leader cinese che firmò insieme alla premier britannica Margaret Thatcher l’accordo per il ritorno di Hong Kong alla Cina, sancì questa promessa inventando la formula «un paese, due sistemi». In altre parole, mentre la Cina avrebbe continuato ad essere governata dalla «dittatura democratica» del Partito Comunista, Hong Kong avrebbe avuto un sistema pluripartitico e il suffragio universale.



Una formula che, nelle speranze dei dirigenti cinesi, avrebbe potuto far propendere per la riunificazione i dirigenti di Taiwan, che è di fatto indipendente dal 1949 e che da quasi trent’anni è retta da un efficiente sistema democratico. Riunificazione che, alla luce dei recenti avvenimenti nell’ex colonia britannica, appare sempre più problematica.


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Re: Diritti umani, informazione e comunicazione

Messaggioda flaviomob il 28/09/2014, 17:07

Dal Manifesto:

Internazionale

A Hong Kong si alza l’urlo di Occupy

—  Simone Pieranni, 27.9.2014

Cina. Universitari in piazza per chiedere democrazia. Un movimento che pare essere sfuggito di mano agli organizzatori


Secondo i rap­pre­sen­tanti di Occupy Cen­tral, ieri a Hong Kong ci sareb­bero state almeno 50mila per­sone in piazza. Ci sono stati scon­tri con la poli­zia, che ha usato lacri­mo­geni e spray al pepe­ron­cino, alcuni arre­sti (36 per­sone sono state poi rila­sciate). Pechino, ad ora, non ha risposto.

Innan­zi­tutto, i motivi della pro­te­sta: da una set­ti­mana sono in corso mani­fe­sta­zioni di stu­denti, per richie­dere sostan­zial­mente che nel 2017 il «chief exe­cu­tive», il primo mini­stro dell’ex colo­nia, possa essere eletto con metodi demo­cra­tici. Su que­sto argo­mento, nei mesi scorsi, era stato anche indetto un refe­ren­dum infor­male, per deli­be­rare la forma attra­verso la quale eleg­gere il rap­pre­sen­tante. Pechino ha tenuto duro, riba­dendo la sua teo­ria di «un paese, due sistemi», che tra­dotto nella pra­tica signi­fica che a Hong Kong una for­mula «simile» alla demo­cra­zia basta e avanza. Ovvero, il primo mini­stro con­ti­nuerà ad essere eletto da un comi­tato di grandi elet­tori, in gran parte con­trol­lato da Pechino. Il gesto sim­bo­lico di un’elezione, per il Pcc è suf­fi­ciente. Per molti stu­denti e atti­vi­sti di Hong Kong, no.

Ma natu­ral­mente c’è dell’altro. Negli anni scorsi Hong Kong ha vis­suto un momento eco­no­mico par­ti­co­lare: Pechino ha spinto su Shan­ghai e l’isolotto di Pudong come hub finan­zia­rio nazio­nale, finendo per cal­pe­stare i piedi pro­prio agli affari di Hong Kong. La comu­nità busi­ness dell’ex colo­nia si è pre­oc­cu­pata, ma ha capito fin da subito che per­dere il treno cinese sarebbe troppo rischioso. Tanto vale, dun­que, accet­tare il sistema poli­tico impo­sto da Pechino, pur­ché si pos­sano con­ti­nuare a fare affari. Hanno patito i lavo­ra­tori: non a caso gli addetti por­tuali, ad esem­pio, entra­rono in mobilitazione.

Oltre alla demo­cra­zia, quindi, la par­tita è ben più ampia. Que­sto ha finito per creare situa­zioni para­dos­sali, piut­to­sto tipi­che dell’isola: la comu­nità finan­zia­ria non ha appog­giato Occupy Cen­tral, temendo una rea­zione troppo dura da parte di Pechino. E ieri, per­fino gli orga­niz­za­tori delle pro­te­ste, sono apparsi in dif­fi­coltà di fronte alla mani­fe­sta­zione, come se fosse sfug­gita di mano. Tanto che hanno annun­ciato uffi­cial­mente di aver «rin­viato» le azioni di disob­be­dienza civile pre­vi­ste. La ten­sione è altis­sima, la poli­zia di Hong Kong in alcuni casi è inter­ve­nuta, in altri ha addi­rit­tura rimosso alcune bar­riere, per con­sen­tire il pas­sag­gio di una massa di mani­fe­stanti che nelle ore serali aumen­tava a vista d’occhio.

Alle richie­ste di demo­cra­zia di stu­denti e atti­vi­sti, infatti, si affianca un sen­ti­mento anti cinese che negli ultimi anni è tra­ci­mata in accuse pesanti tra «con­ti­nen­tali», i cinesi, e gli abi­tanti dell’ex colo­nia. È ipo­tiz­za­bile che anche lo spi­rito di molti appar­ten­tenti alla poli­zia, alla fin fine, sia fon­da­men­tal­mente anti cinese. A Hong Kong si respira in modo evi­dente la volontà di con­si­de­rarsi diversi dai cinesi, di rimar­care pro­fonde dif­fe­renze, alcune delle quali sto­rid­scono la super­fi­cia­lità occi­den­tale. Ad esem­pio il fatto di sen­tirsi «più cinesi dei cinesi», avendo man­te­nute intatte tra­di­zioni smem­brate in Cina (come ad esem­pio i carat­teri tra­di­zio­nali). Sen­ti­menti che uni­scono, in que­sto caso, Hong Kong all’altro grande pro­blema «esterno» di Pechino, ovvero Taiwan.

Pechino ha fatto sapere il pro­prio pen­siero, per ora, solo attra­verso alcuni com­menti sui media uffi­ciali. Il Glo­bal Times ha rila­sciato un edi­to­riale nel quale si accusa aper­ta­mente Washing­ton di inge­renze negli affari interni cinesi, a seguito della sco­perta di incon­tri e dia­lo­ghi tra fun­zio­nari ame­ri­cani e rap­pre­sen­tanti di Occupy. Niente di più facile: gli Usa da sem­pre lavo­rano ai fian­chi la Cina sul tema dei diritti umani e della demo­cra­zia e Hong Kong per­mette abili mano­vre, pro­prio gra­zie alle pos­si­bi­lità che il «sistema misto» per­mette. Quando ci fu il refe­ren­dum infor­male e ven­nero annun­ciate mani­fe­sta­zioni, la Cina fece capire che non avrebbe esi­tato a spe­dire i pro­pri mili­tari per tenere sotto con­trollo la situa­zione. Una minac­cia che i rap­pre­sen­tanti di Occupy ricor­dano; forse, anche per que­sto motivo, ieri hanno pro­vato a cal­mare i pro­pri attivisti.

E men­tre Hong Kong affronta una pro­te­sta come non si vedeva da tempo (ci sarà da capire se la com­po­ne­nente sociale dei lavo­ra­tori si unirà alle pro­te­ste) in Cina si discute di mili­ta­riz­za­zione della poli­zia. Una sorta di minac­cia incom­bente sull’ex colo­nia, qua­lora le cose doves­sere pren­dere una piega defi­ni­ti­va­mente poco gra­dita a Pechino.


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Re: Diritti umani, informazione e comunicazione

Messaggioda franz il 29/09/2014, 9:08

Alberto Forchielli (Su facebook)

Molti di Voi mi hanno chiesto che cosa sta succedendo a Hong Kong, ecco un succinto resoconto.

A HK c'è subbuglio perché il governo Cinese non ha concesso la democrazia elettiva che i cittadini di HK si aspettavano in base al trattato di cessione dell'isola dalla GB alla Cina nel 1997. Il trattato parlava di suffragio universale, cosa che i Cinesi hanno mantenuto, ma si sono tenuti il privilegio di nominare loro i candidati, insomma una burla. Del resto HK è parte della Cina e comanda Pechino. Gli Honkongini, sopratutto i giovani, abituati a tutte le forme di libertà ed aperture non ci stanno e fanno casino, ma è una battaglia persa. Ciò però è un pessimo precedente per Taiwan che ben se ne guarderà dal farsi assorbire politicamente dalla Cina.
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Re: Diritti umani, informazione e comunicazione

Messaggioda flaviomob il 29/09/2014, 23:38

In tema di diritti, ripropongo questa petizione, magari avete dimenticato di far firmare la zia o il cognato ;)

Siamo a quota 514, vediamo se prima dell'Expo arriviamo ai... mille!

http://www.change.org/p/comune-di-milan ... e-stazioni


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