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Antimafia e magistratura.

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Antimafia e magistratura.

Messaggioda ranvit il 12/05/2016, 8:01

Antimafia e magistratura. L’alleanza malsana che Falcone rifiutò
Indagine sui professionisti della patacca che hanno trasformato l’antimafia in una macchietta della giustizia politica
di Giuseppe Sottile | 12 Maggio 2016 ore 06:11


Prologo. “Tutto pagato mio”. Quando l’onorevole Salvo Lima varcò la soglia del bar “Rosanero”, i picciotti di don Masino Spadaro, boss della Kalsa e re del contrabbando, formarono – così, spontaneamente – due piccole ali di folla. L’onorevole si inconigliò nel mezzo e salutò prima a destra e poi a sinistra. Raggiunse il banco e ordinò il caffè. “Lei, carissimo onorevole, merita questo ed altro”, declamò cerimonioso don Masino. Ma senza fortuna. Perché l’onorevole continuò a masticare il suo bocchino di madreperla, quello con la molletta interna e la cicca estraibile, senza pronunciare sillaba. Si limitò solo a guardarli, quei picciotti. E guardandoli gli significò che se avevano qualcosa da dire potevano anche dirla. Tanto lui era in campagna elettorale e li avrebbe certamente ascoltati. Figurarsi però se don Masino poteva mai lasciare una simile entratura a Vincenzo Mangiaracina, detto “Scintillone”, pizzicato otto anni prima per tentato omicidio, e appena uscito dall’Ucciardone; o a Filippo Paternò, detto “Cardone”, che nell’aprile del 1989 andò per sparare e fu sparato, e parlava con mezza bocca perché l’altra era praticamente affunata in un nodo cavernoso di osso, muscolo e pelle; o a Lillo Trippodo, detto “Cacauovo” perché prima di ogni tiro, scippo o rapina che fosse, aveva sempre un dubbio da manifestare ma poi puntava la pistola ch’era una meraviglia. “Tutti bravi ragazzi, onorevole”, disse don Masino presentando cumulativamente i picciotti disposti a semicerchio, come gli ami di una paranza. Ma l’onorevole Lima ostinatamente non parlava. Se ne stava appoggiato al bancone, con la tazzina di caffè appiccicata alle dita. Fino a quando, don Masino – e che boss sarebbe stato, altrimenti – non si armò di coraggio e mirò a quello che, per lui, era il cuore del problema. “Mi dica, onorevole: che dobbiamo fare con quei cornuti di Ciaculli che si sono inventati questa minchiata del rinnovamento…”. Il tema, in effetti, era molto delicato. Delicatissimo. “La sbirrame di Leoluca Orlando e padre Pintacuda ha fatto breccia. Ora fanno tutti gli antimafiosi, anche a Ciaculli, ma in realtà sono semplicemente cornuti. Così cornuti che, nei loro confronti, il fango è acqua minerale”. Ciaculli, Orlando, Pintacuda. L’onorevole si cambiò di faccia. Posò la tazzina sul bancone e ringraziò per il caffè. Ma don Masino gli puntò al petto l’ultima domanda: “Sono o non sono cornuti, quelli di Ciaculli?”. L’onorevole si bloccò sulla soglia. Si abbottonò il cappotto, alzò il bavero del colletto, infilò un’altra sigaretta nel bocchino di madreperla e sentenziò: “Gentuzza… Gentuzza e nulla più”.

Svolgimento. Che Dio ce ne guardi. Nessuno qui si azzarderà a definire “gentuzza” gli uomini dell’antimafia, anche se dentro la compagnia di giro ci ritrovi qualche pataccaro, come Massimo Ciancimino, già processato e condannato per avere invischiato in storiacce di mafia dei galantuomini che non c’entravano nulla; o come quel Pino Maniaci, che per anni si è spacciato come giornalista coraggioso ed è finito sotto inchiesta per estorsione: secondo la procura di Palermo sparava fuoco e fiamme ma, sottobanco, prometteva benevolenza soprattutto a chi aveva la compiacenza di allungargli la mille lire.

No, nessuno qui si azzarderà a definire “gentuzza” gli uomini dell’antimafia. Perché dentro quel mondo non ci sono solo degli inquisiti sui quali prima o poi dovrà essere detta una parola di verità. Ci sono anche e soprattutto figli che hanno assistito al martirio del padre, come Claudio Fava o Lucia Borsellino o Franco La Torre; o sorelle, come Maria Falcone, che portano ancora negli occhi il terrore di avere visto, su un tratto di autostrada sventrato dal tritolo, il sangue versato dal proprio fratello. No, questi nomi non possono essere trascinati in polemiche da quattro soldi. Nemmeno quando uno di loro – ed è il caso di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, il giudice assassinato in via D’Amelio – se ne va in giro per Palermo ad abbracciare Massimuccio Ciancimino, il figlio di don Vito, prima celebrato come “icona dell’antimafia” e poi gettato negli abissi chiari dell’inattendibilità dagli stessi pupari che lo avevano offerto a giornali e talk-show come il testimone del secolo, l’unico in grado di rivelare gli intrighi delle cosche e di scardinare finalmente l’impero di Cosa nostra, con le sue ricchezze e i suoi misteri, con i suoi boss e i suoi picciotti, con le sue coperture e le sue complicità.

Non chiameremo “gentuzza” neppure quelli che hanno utilizzato l’antimafia per amministrare al meglio i propri affari, per intramare nuove e più sofisticate imposture, per costruire nuove e più spregiudicate carriere; o per meglio aggrapparsi alla grande mammella dei beni sequestrati ai mafiosi – terreni, case e aziende – diventati all’improvviso una immensa terra di nessuno sulla quale hanno mangiato a quattro mani, fino a ingozzarsi, magistrati e cancellieri, avvocaticchi e commercialisti.

E non chiameremo “gentuzza” nemmeno i tanti narcisi che pure popolano questo mondo. Non c’è magistrato che non abbia i suoi quattro angeli custodi, non c’è papavero dell’antimafia che non abbia diritto a una sorveglianza, non c’è pentito, vero o fasullo, che non pretenda una tutela particolare. Ah, le scorte. A volte hai il sospetto che siano diventate gli svolazzi del nuovo potere: Rosario Crocetta, il governatore della Sicilia che ha trasformato l’antimafia in una macchietta della politica, può contare su cinque blindate, pagate dalla regione a peso d’oro. Uno spreco? Guai a pensarlo, ma immaginate l’effetto che fa il suo scorrazzare in lungo e in largo per l’Isola con tutto questo fragore o il suo arrivo, a ogni fine settimana, a Gela o a Tusa Marina, dove altri militari sono impegnati a presidiare le sue case. Oppure pensate a quale timore o a quale riverenza vi spingerà, se mai capiterete all’aeroporto di Palermo, la visione di Roberto Scarpinato, procuratore generale del Palazzo di giustizia e Gran Sacerdote dell’Antimafia, scortato all’imbarco per Roma non da uno ma da cinque agenti in borghese. Tre dei quali non lo mollano nemmeno quando tutti i passeggeri sono già dentro l’aereo. Ragioni di sicurezza, si dirà. E sarà anche vero, ma una domanda andrebbe comunque posta: e se la mafia fosse ancora governata da quegli stragisti che rispondevano al nome di Totò Riina e Bernardo Provenzano quanti uomini sarebbero necessari per scortare il dottore Scarpinato? Forse sette, forse sette volte sette.

La verità, tanto per andare subito al sodo, è che il Piazzale degli eroi – nel quale sono stati collocati tutti i campioni della lotta a Cosa nostra – rifiuta tenacemente di accettare quello che gli storici più coscienziosi, come Salvatore Lupo, hanno accertato con la forza dei loro studi e della loro onestà. E cioè che, dopo una guerra durata oltre trent’anni, il risultato è che la mafia ha perso e lo stato ha vinto.

Una verità semplice ma capace di mandare a gambe per aria non solo il concetto mistico di antimafia ma anche tutte le impalcature – e i privilegi e i narcisismi – che attorno a un tale concetto sono state costruite. Questo spiega perché la tesi del professore Lupo sia stata tanto sbeffeggiata durante una infausta audizione alla commissione parlamentare presieduta da Rosy Bindi. E spiega anche perché una fetta ancora consistente della magistratura palermitana insiste nel portare avanti un processo senza capo né coda qual è quello sulla fantomatica trattativa tra la mafia e alcuni vertici degli apparati statali. Quel processo serve per tenere in piedi il postulato che la storia della Repubblica abbia un doppio fondo, e che dietro ogni verità, anche dietro quella processualmente accertata, ci sia sempre una verità nascosta. Un azzardo, non c’è dubbio. Ma che consente a quei magistrati particolarmente votati alla militanza politica, di chiamare in causa qualunque esponente del potere costituito. Ricordate cosa combinò Antonio Ingroia, procuratore aggiunto oltre che maestro compositore e arrangiatore della Trattativa, pochi mesi prima di presentarsi con una sua lista, Rivoluzione civile, alle elezioni politiche di tre anni fa? Intercettò il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e ci impiantò sopra un casino mediatico di proporzioni tali da fare tremare le colonne del Quirinale.

Nel braccio di ferro, Ingroia ha perso e Napolitano ha vinto. Ma il partito dei magistrati che vogliono tenere sotto tiro il potere politico resta ancora forte e agguerrito. Con una aggravante: che questo partito ha saputo anche costruirsi un’antimafia di supporto. L’antimafia di Massimo Ciancimino e di Salvatore Borsellino, tanto per fare un doloroso esempio: dove il fratello del giudice assassinato diventa fraternissimo amico del figlio di don Vito per il semplice fatto che il pataccaro è stato contrabbandato dalla magistratura politicizzata come l’unico grimaldello capace di violare il sancta sanctorum dei segreti mafiosi.

Ai tempi di Giovanni Falcone, questa alleanza malsana non si sarebbe stretta. E non si è stretta. Ricordate il caso del falso pentito Giuseppe Pellegriti? Eravamo alla fine degli anni Ottanta e l’antimafia di quel tempo – i leader erano Leoluca Orlando e il gesuita Ennio Pintacuda – si era aggrappata all’indiscrezione secondo la quale il pentito Pellegriti, un delinquentucolo di periferia, avrebbe accusato Salvo Lima, plenipotenziario di Giulio Andreotti in Sicilia, di essere il mandante dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Falcone andò al carcere di Alessandria. E, dopo avere verificato che Pellegriti sosteneva soltanto cose non vere, lo incriminò per calunnia.

Non la passò liscia. L’antimafia di Orlando e Pintacuda – quella che aveva inventato la formula del “sospetto come anticamera della verità”– se la legò al dito e scatenò contro Falcone una offensiva senza precedenti. Fino ad accusarlo di tenere le prove nascoste nei cassetti; o a esporlo, nel corso di un indimenticabile Maurizio Costanzo Show, a una gogna tanto ingiusta quanto feroce.

L’antimafia di oggi, quella finita nella polvere con tutti i suoi imbroglioni e i suoi pataccari, si è prestata invece a tutte le manovre giudiziarie, anche le più avventate e le più spregiudicate. E forse anche per questo, alla fine, è rotolata nel burrone profondo dell’irrilevanza.

Chi è quell’uomo? – chiede a un certo punto il Signore. “E’ uno che imbratta di tenebra il pensiero di Dio. Parla senza sapere quello che dice”, risponde Giobbe.
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http://www.ilfoglio.it/politica/2016/05 ... e_c213.htm
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Re: Antimafia e magistratura.

Messaggioda pianogrande il 12/05/2016, 11:22

Insomma, l'antimafia va migliorata o l'antimafia non serve o l'antimafia è un covo di "cornuti" per sua stessa natura e quindi bisogna sempre sputargli in un occhio?

Un articolo che rappresenta la crema della crema del linguaggio mafioso.
Un articolo così pieno di non che uno si chiede perché sia stato scritto.

Dire e non dire.

Mavalà.
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Re: Antimafia e magistratura.

Messaggioda flaviomob il 12/05/2016, 11:30

Beh basta vedere il "foglio" che lo ha pubblicato. Espressione di quelli che "con la mafia bisogna convivere"


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Re: Antimafia e magistratura.

Messaggioda ranvit il 12/05/2016, 17:41

Chiacchiere e pregiudizi....contro fatti! 8-)
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Re: Antimafia e magistratura.

Messaggioda pianogrande il 12/05/2016, 17:46

ranvit ha scritto:Chiacchiere e pregiudizi....contro fatti! 8-)


I "fatti" è anche importante vedere con che stile sono riportati.

Gli accenni pelosi e viscidi sono anch'essi dei fatti e sono fatti veramente odiosi.
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Re: Antimafia e magistratura.

Messaggioda flaviomob il 12/05/2016, 18:34

I fatti sono che quando Falcone e Borsellino hanno provato a indagare sui legami tra cupola mafiosa e politica sono stati spediti al creatore.


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Re: Antimafia e magistratura.

Messaggioda ranvit il 13/05/2016, 11:08

Fermare la magistratura militante
Argomenti fuffa con cui i pm giustifcano il proprio protagonismo. Catalogo
di Giovanni Fiandaca | 13 Maggio 2016


Facendo seguito a un primo commento del caso Morosini (cfr. il mio intervento su questo giornale del 10 maggio), può essere utile passare in rassegna le principali argomentazioni avanzate da alcuni magistrati per giustificare il loro impegno nella campagna referendaria relativa alla riforma costituzionale. Ma, nel farlo, ometterò riferimenti nominativi a questo o a quell’esponente del mondo giudiziario che ha ritenuto di dover prendere posizione nel dibattito pubblico. Ciò per evitare confronti personalistici, nel convincimento che la fondatezza delle opinioni manifestate sia da vagliare anche a prescindere dalla notorietà personale, dalla autorevolezza o dal carisma mediatico di quanti sono intervenuti.

Richiamo, innanzitutto, il percorso argomentativo che pretende di collocarsi in un orizzonte di riflessione di respiro particolarmente ampio. Che cioè non solo abbraccia la missione della giurisdizione nel quadro costituzionale e nella contingente cornice politica domestica, ma – dilatando al massimo il campo di osservazione – si spinge sino a includere le tendenze politico-economiche emergenti nello scenario globale. Viene da rilevare subito che esisterebbe, in ogni caso, una grande sproporzione di scala tra il potere d’intervento della magistratura italiana (e, più in generale, la complessiva capacità di incidenza del sistema politico-istituzionale nostrano) e le pericolosissime minacce, in termini di involuzioni autoritarie e di eccessi liberistici, che si paventa derivino dall’attuale modo d’atteggiarsi del capitalismo mondiale. Sicché, non risulta affatto chiaro per quali ragioni una riforma costituzionale volta a rafforzare la governabilità del sistema italiano, con temuto ridimensionamento del ruolo del Parlamento, dovrebbe provocare – come automatico e ineluttabile effetto – una deriva del nostro sistema democratico, tale da impedire addirittura alla stessa magistratura di salvaguardare efficacemente i diritti fondamentali dei cittadini e, in particolare, di quelli appartenenti alle fasce più deboli. A prescindere dall’obiezione dell’involversi del ragionamento in una manifesta petizione di principio, le valutazioni pessimistiche relative alla paventata riconversione oligarchica del potere mondiale hanno natura politica, e poco hanno a che fare con la dimensione strettamente costituzionale (a meno che non si sia convinti della impossibilità di distinguere tra diagnosi politica su scala internazionale e approccio costituzionale, ma allora proprio questa ritenuta indifferenziabilità di piani di osservazione fornirebbe la conferma delle valenze “politiche”, e non soltanto costituzionali, della campagna referendaria!). Quanto poi alla missione strategica che si ritiene i nostri padri costituenti avrebbero affidato alla magistratura, e cioè il compito di vigilare sulla lealtà costituzionale delle contingenti maggioranze politiche di governo, diciamo che si tratta di un assunto abbastanza ardito proprio sul versante costituzionale. Non c’è bisogno di essere costituzionalisti di mestiere per sapere che gli artefici della nostra Costituzione concepirono la Corte costituzionale proprio perché diffidavano dal consegnare il controllo di costituzionalità nelle mani della magistratura comune. Lungi dall’avere una qualche legittimazione costituzionale, la tesi che vorrebbe assegnare alla magistratura penale prioritariamente il compito di esercitare un controllo di legalità sul potere politico ha, in realtà, una genesi riconducibile alla cultura giudiziale dei magistrati di sinistra e, in particolare, di quelli appartenenti a Magistratura Democratica.

Si tratta, com’è evidente, di una tesi che presta il fianco a non poche obiezioni, ma che risulta coerente con l’attenzione privilegiata che gli iscritti a Md tradizionalmente rivolgono alle dinamiche politiche.

Rispetto all’ulteriore argomento posto a fondamento giustificativo dell’impegno referendario, e cioè il fatto che il giudice sia tenuto a interpretare le leggi in modo conforme alla Costituzione, anche questa volta ci troviamo di fronte a una mancanza di connessione logico-giuridica: la riforma costituzionale concerne infatti la seconda parte della Costituzione relativa all’organizzazione statuale, mentre lascia intatti i diritti fondamentali e tutti i princìpi invocabili ai fini di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle leggi. Dove sta, allora, il problema? Forse, nella preoccupazione emotiva che il rafforzamento dell’esecutivo comporti, anche come messaggio simbolico, una limitazione delle libertà fondamentali e una svalutazione dei diritti sociali.

Ma vi sono approcci argomentativi sviluppati in un orizzonte di riflessione meno generale e impegnativo, e dunque più interessati alle ragioni concrete delle polemiche contingenti. Così, si è da parte di qualcuno osservato che, se la riforma costituzionale ha assunto valenze politiche anche in termini di consenso o dissenso all’attuale governo, la colpa sarebbe tutta di Renzi per avere impropriamente voluto includere la revisione della Costituzione nella contesa politica, mentre ai magistrati impegnati contro la riforma starebbe a cuore soltanto la questione costituzionale in sé considerata. Questo modo di ragionare è capziosamente formalistico: a magistrati interessati più alla sostanza delle cose, che al rispetto di formali regole di deontologia, non dovrebbe sfuggire che l’avvenuta politicizzazione – piaccia o non piaccia – della campagna referendaria conferisce (oggettivamente) il ruolo di attori politici anche a quanti vorrebbero avversare la riforma sulla base di (soggettive) motivazioni di ordine puramente costituzionale. Da parte di altri si è obiettato che non pochi magistrati italiani sono stati attivi protagonisti della precedente campagna referendaria del 2006, schierandosi pubblicamente, senza che ciò – a differenza di oggi – sollevasse alcun problema di legittimità o di opportunità. E si aggiunge, più o meno maliziosamente, che questa militanza sarebbe stata tollerata forse perché alla sinistra di allora faceva comodo avere la magistratura progressista alleata contro Berlusconi, mentre l’attuale sinistra al governo non gradirebbe l’opposizione politica di questa stessa magistratura. Fondata o meno, una simile obiezione rimane circoscritta pur sempre nell’ambito delle valutazioni politiche, e non tocca ancora il piano delle argomentazioni costituzionali. Lo toccherebbe, invece, se si volesse anche sostenere che la tolleranza manifestata nel recente passato abbia avuto l’effetto di legittimare costituzionalmente, in chiave per così dire di Costituzione materiale, la partecipazione di singoli magistrati o di gruppi associativi alla battaglia referendaria. Sennonché, ribadendo quanto ho osservato nel mio precedente articolo, non basta un precedente atteggiamento di tolleranza “di fatto” a dare vera copertura costituzionale alla militanza attiva dei magistrati: se fosse decisiva la “forza normativa del fattuale”, se fosse sufficiente riuscire a occupare uno spazio per rendere (costituzionalmente) legittimo questo spazio, che bisogno più si avrebbe di una Costituzione scritta?

Inoltre, è diffuso il rilievo che la militanza magistratuale sarebbe giustificata dal fatto che le competenze professionali dei giudici sarebbero utilissime per affrontare i problemi giuridici connessi alla riforma costituzionale. Sennonché, anche qui, il mestiere di magistrato ordinario (di merito o di legittimità) di per sé non conferisce alcuna speciale competenza nell’ambito del diritto costituzionale; e se ne ha una riprova considerando – come è già stato osservato – che non risulta che i magistrati finora intervenuti nel dibattito abbiano fornito contributi originali, in termini di analisi o di proposta, ai lavori di riforma.

Non si è, infine, mancato di obiettare che è preferibile consentire ai magistrati una leale battaglia di idee professate a viso aperto e col coraggio di esporsi, piuttosto che costringerli a un impegno referendario timoroso e manifestato in modi ambigui o sotterranei. Questo tipo di argomentazione perde di vista che non è in questione il profilo etico di una eventuale militanza referendaria, per cui il viso aperto sarebbe da preferire al sotterfugio. In ballo vi è qualcosa di diverso e di molto importante, che attiene alla natura stessa della funzione giurisdizionale vista con gli occhi dei cittadini. I magistrati militanti, infatti, trascurano che la loro militanza risulta alquanto sgradita a una parte consistente del popolo italiano, la quale vede appannata l’immagine di terzietà che il giudice dovrebbe riuscire sempre a preservare.
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Re: Antimafia e magistratura.

Messaggioda ranvit il 13/05/2016, 11:22

flaviomob ha scritto:I fatti sono che quando Falcone e Borsellino hanno provato a indagare sui legami tra cupola mafiosa e politica sono stati spediti al creatore.


A proposito di fatti, riporto un paragrafo dell'articolo (forse sfuggito...):

Non la passò liscia. L’antimafia di Orlando e Pintacuda – quella che aveva inventato la formula del “sospetto come anticamera della verità”– se la legò al dito e scatenò contro Falcone una offensiva senza precedenti. Fino ad accusarlo di tenere le prove nascoste nei cassetti; o a esporlo, nel corso di un indimenticabile Maurizio Costanzo Show, a una gogna tanto ingiusta quanto feroce.
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Re: Antimafia e magistratura.

Messaggioda flaviomob il 14/05/2016, 0:30

Orlando sbagliò a fare insinuazioni su Falcone, ma ebbe ragione a sostenere il coinvolgimento mafioso di Andreotti.


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