"Femminicidio è una brutta parola?
Ma dobbiamo imparare a usarla"All'Altana delle Oblate l'incontro "L'ho uccisa perché l'amavo" con Michela Murgia, Loredana Lipperini e Adriano Sofri
di MARIA CRISTINA CARRATU'
Davvero la parola femminicidio è brutta, falsa, se non addirittura pericolosa, come qualche "revisionista" sostiene? Se le parole sono pietre, cioè veicolano concreti contenuti culturali, la scomoda espressione si rivela, in realtà, altamente significativa di una situazione storica in cui ogni due giorni una donna viene uccisa da un uomo. E per nessun altro motivo se non perché è una donna. Di questo, e di molto altro, parla "L'ho uccisa perché l'amavo" il libro dal titolo paradossale di Loredana Lipperini e Michela Murgia, di cui le due autrici hanno discusso nell'altana delle Oblate con Adriano Sofri, intervistate da Laura Pertici. "E' un fatto che ci sono più fattori di rischio di morte delle donne in quanto donne" ha subito chiarito Murgia, "vale a dire motivi culturali che non hanno niente a che vedere con ciò che le donne uccise hanno fatto", ma "con una cultura complessiva, in cui tutti siamo immersi, e da cui nessuno può chiamarsi fuori". Nemmeno le donne, che loro malgrado condividono "quella sorta di automatismo mentale diffuso per cui il rapporto maschio-femmina comprenderebbe sempre una certa dose di violenza naturale", una logica perversa da cui, dunque, si tratta ora, per le femmine del genere umano, di "decolonizzarsi". Se dunque è vero, per rispondere a chi considera eccessiva l'attenzione sui femminicidi, che le "donne morte non sono più morte degli altri", è anche vero, insiste Murgia, "che
fino a un attimo prima di morire, come la morte poi dimostra, sono molto più a rischio degli uomini".
"Femminicidio brutta parola?" si è chiesta Lipperini, "anche spread lo è, eppure abbiamo imparato tutti a usarla". Ciò di cui avere paura in realtà non sono le parole, ma quel che c'è dietro, "una cultura intera di cui fanno parte comportamenti e pensieri che appartengono a tutti", e che ha espresso anche contenuti alti, "segnando letteratura, arte, cinema, e creando addirittura un'estetica della donna morta". Mentre è inutile negare, dice Murgia, che "il modo stesso di parlare di amore veicola, nella nostra cultura, qualcosa di sbagliato, come l'ambiguo rapporto stabilito, a accettato, fra seduzione e violenza", quasi che "un amore di qualità superiore fosse solo quello più vicino alla natura pià bestiale".
Conferma Adriano Sofri: "Il modo stesso di stare al mondo dei maschi ha a che fare con un paradigma da sempre centrato sul potere", e, come ha così ben mostrato Machiavelli, "esercitato in politica esattamente come nei riguardi della donna". E nonostante ciò costituisca per l'uomo stesso, sottolinea Murgia, "una spaventosa fatica, un dominio pagato caro, costretti alla difesa dagli altri maschi, e dalle donne che da questo schema sfuggono continuamente". Perchè è inutile illudersi, nota Sofri: "L'uomo ha cominciato a schizzare di rabbia da quando la donna ha deciso di prendersi il suo piacere svincolandosi dal recinto in cui lui l'aveva costretta, temendone, in realtà, la terribile potenza". Uomo che di donne, e femminicidi, si è molto occupato, Sofri ricorda le battaglie di autodifesa militante del femminismo storico, a causa del quale, d'altra parte, "la generazione di maschi a cui appartengo ha poi dovuto impegnarsi in una faticosa riconquista delle donne che, per quella via, stavamo perdendo". Non resta che augurarsi che questa fin troppo lunga era di guerre a senso unico finisca, cominciando, intanto, da parte delle donne, "a riprendersi la politica", anche se l'augurio migliore da fare a tutti, dice Lipperini, "è che la nuova era sia costruita da donne e uomini nuovi, insieme". Ma intanto, avvertono Murgia, Lipperini e Sofri, non si tema di usare la parola femminicidio: "Le parole generano realtà", dice Murgia, "e finché un problema non è chiamato con un suo nome, non è inserito in una cornice di riconoscibilità che ci consente, poi, di affrontarlo e risolverlo davvero".
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