Travaglio: "La verità sulle mie vacanze"
D'Avanzo: ecco quello che non dice
ROMA (Ansa) - Marco Travaglio mette on line (www.voglioscendere.it) l'assegno e l'estratto conto della carta di credito con cui pagò la vacanza del 2002 all'Hotel Torre Artale di Trabia (Palermo), dove soggiornò con la sua famiglia nell'estate del 2002. E' la coda di una polemica scoppiata a maggio di quest'anno quando Giuseppe D'Avanzo, su Repubblica, rivelò di aver saputo da fonti investigative siciliane che il costruttore Michele Ajello, poi arrestato e condannato in primo grado per mafia, aveva pagato la vacanza di Travaglio su richiesta. La "notizia falsa" - ricorda il giornalista e scrittore - rimbalzò sui principali media italiani.
"Bene - dice Travaglio - sono spiacente di informare lorsignori che, dopo lunghe ricerche, ho finalmente trovato l'assegno e l'estratto conto della carta di credito Diners con cui pagai il conto di quella vacanza all'hotel Torre Artale di Trabia. L'assegno, emesso il 19 agosto 2002 dal mio conto presso il San Paolo-Imi di Torino e poi negoziato dal Banco di Sicilia (che lo conservava nei suoi archivi di Palermo), ammonta a 2.526,70 euro. I restanti duemila euro li pagai con la carta Diners (versamento datato 18 agosto 2002)".
"So che nessuno mi chiederà scusa per aver messo in circolo quelle menzogne sul mio conto. Ma - conclude Marco Travaglio - spero almeno che, in cuor suo, si vergogni".
La risposta di Giuseppe D'Avanzo
Ricapitoliamo, una buona volta questo affare, le questioni che sono in discussione e i benedetti "fatti" che, per Marco Travaglio, dovrebbero farmi vergognare.
Partiamo dai "fatti".
Travaglio non parla mai di Giuseppe Ciuro, come se la presenza di questo signore fosse marginale. Al contrario, è essenziale. E non per sostenere che l'integrità di Travaglio è compromessa dalle vacanze comuni con un infedele poliziotto poi definito da una sentenza "criminale" e condannato a quattro anni e mezzo di galera. Quando vi ho fatto cenno in maggio, volevo dimostrare quanto fragile e pericoloso fosse un metodo di lavoro che - abusando della parola "verità" - declina la conoscenza di Schifani con un tizio, quattro anni dopo indagato per mafia, come prossimità alla mafia. Come mafiosità.
Travaglio sembra non comprendere di che cosa voglio discutere. O forse non ne ha voglia. Gli interessa soltanto difendere se stesso (lo capisco) e insultare e invitare i suoi lettori a farlo (lo capisco meno).
Purtroppo anche la sua difesa, presentata come definitiva, come esaustiva, è alquanto debole, se si deve proprio parlarne. Cincischia un po' sulle mie fonti. Fa confusione. Fa credere che la mia fonte sia l'avvocato di Michele Aiello. Chi lo ha mai detto o scritto?
Ho scritto: "Marco [Travaglio] e Pippo [Ciuro] sono in vacanza insieme, concludono per approssimazione gli investigatori di Palermo. Che, durante le indagini, trovano un'ambigua conferma di quella villeggiatura comune. Prova maligna perché intenzionale e non indipendente. Fonte, l'avvocato di Michele Aiello. Il legale dice di aver saputo dal suo assistito che, su richiesta di Pippo, Aiello ha pagato l'albergo a Marco. Forse, dicono gli investigatori, un residence nei dintorni di Trabia". E' di tutta evidenza che l'avvocato di Aiello non è la mia fonte, nonostante gli sforzi di confondere le acque.
Ma queste, come direbbe Michele Santoro, sono "quisquilie". Travaglio vuole dimostrare, "carta canta", che si è pagato di tasca sue le sue vacanze siciliane.
Travaglio tiene, soprattutto, a smentire una frase del mio articolo.
Questa: "[Dice l'avvocato che] Aiello ha pagato l'albergo a Marco".
Con enfasi, annuncia dal suo sito: "Ho finalmente trovato l'assegno e l'estratto conto della carta di credito Diners con cui pagai il conto di quella vacanza all'hotel Torre Artale di Trabia. L'assegno, emesso il 19 agosto 2002 dal mio conto presso il San Paolo-Imi di Torino e poi negoziato dal Banco di Sicilia (che lo conservava nei suoi archivi di Palermo), ammonta a 2.526,70 euro. I restanti 2 mila euro li pagai con la carta Diners (versamento datato 18 agosto 2002)".
Ora Travaglio sa - e lo ha ammesso - che con il "criminale" Giuseppe Ciuro ha trascorso una vacanza nel 2003.
Racconta al Corriere della Sera (15 maggio 2008): " [L'anno successivo, mese di agosto del 2003] Andai con la famiglia per dieci giorni al residence Golden Hill di Trabìa [si confonde: il Golden è ad Altavilla Milicia] dove di solito alloggiavano Ciuro e Ingroia [è un pubblico ministero del pool di Palermo] e ci fu quella buffa storia dei cuscini poi finita nei brogliacci delle intercettazioni".
"Ma al Golden Hill chi pagò il conto?", chiede il Corriere.
Risponde Travaglio: "Io ho pagato la prima volta il doppio di quanto stabilito e per il residence ho saldato il conto con la proprietaria. Tutto di tasca mia, fino all'ultima lira e forse se cerco bene trovo pure le ricevute".
E' il saldo del soggiorno al Golden Hill, dunque, a dover essere confermato, se proprio si vuole. Perché l'avvocato di Aiello indica, come pagato dal suo assistito a vantaggio di Travaglio, il soggiorno al residence di Altavilla (2003) e non le vacanze all'Hotel Artale di Trabìa (2002).
Dice infatti al Corriere (15 maggio 2008) l'avvocato Sergio Monaco, difensore di Aiello (e naturalmente le sue parole, come quelle di Aiello, non sono oro colato): "Posso solo dire che l'ingegner Aiello conferma che a suo tempo fece la cortesia a Ciuro di pagare un soggiorno per un giornalista in un albergo di Altavilla Milicia. In un secondo momento, l'ingegnere ha poi saputo che si trattava di Travaglio".
Ora sono sicuro che Travaglio, come ha trovato i cedolini del pagamento del 2002, possa agevolmente rintracciare anche quelli dell'anno successivo.
E' quel che mi auguro perché Travaglio dovrebbe sapere, come lo so io, che vivere delle colpe altrui è un po' "come vivere a spese altrui".
Per vergognarsi c'è allora tempo. Più urgente è ragionare. Non di Aiello, ma di Ciuro e di un modello giornalistico.
Vediamo qual è, a mio avviso, il nocciolo della discussione.
Marco Travaglio, in maggio, è ospite a Che tempo che fa.
Questo è l'esordio (il video è su Youtube).
Travaglio: "L'elemento di originalità [della situazione italiana] è che noi non siamo stati sempre così. E' molto istruttivo quando vengono elette le alte cariche dello Stato. Tutti i giornali pubblicano tutti i nomi dei personaggi che hanno ricoperto quella carica. E uno si rende conto che una volta avevamo De Gasperi, Einaudi, De Nicola, Merzagora, Parri, Pertini, Nenni, Fanfani. Possiamo fare una lunga lista, poi uno arriva e vede Schifani. E' la seconda carica dello Stato... Schifani... Mi domando chi sarà quello dopo. In questa parabola a precipizio c'è soltanto la muffa; probabilmente, il lombrico (applausi scoscianti)... dalla muffa si ricava la penicillina: era dunque un esempio sbagliato (nuovi applausi con rumorose risate, ride anche Travaglio)".
Sarà dunque un lombrico, il successore di Schifani. Il lombrico è il nome comune dei vermi della famiglia dei Lombricidi. Le parole di Travaglio significano dunque questo: dopo Schifani, soltanto un verme potrà fare il presidente del Senato.
Temo che quest'affermazione - che marca l'altro come indegno - non possa essere considerata "un fatto" da nessuno - sia che faccia giornalismo o che con il giornalismo non abbia nulla a che fare. Non è neanche un'opinione sostenuta da un argomento, più o meno condivisibile.
Il prossimo presidente del Senato non sarà un uomo magari più screditato e opaco di Schifani. No, Schifani è già ai bordi dell'umanità. Già annuncia l'arrivo dell'inumano, la "parabola a precipizio" nel regno animale.
La logica di valore e disvalore dispiega qui tutta la sua distruttiva consequenzialità. Crea una definitiva svalutazione nel non-umano: è il disvalore assoluto. Io non so se Travaglio se ne renda conto (non credo), ma forse si potrà convenire che in questa logica di guerra "per una justa causa" che non riconosce "un justus hostis" si odono echi - questi, sì - inquietanti. Era Grigorj Pjatakov a gioire della condanna di Zinov'ev e Kamenev dalle pagine della Pravda (21 agosto 1936) con queste parole: "Questa gente ha perduto l'ultima sembianza di umanità. Essi devono essere distrutti come carogne".
Bollare la parte avversa come disumana, anzi come prossima alla non-umanità, consente sempre di scatenare una guerra assoluta, di coltivare un'inimicizia assoluta contro un nemico assoluto. In questo contesto "emozionale" (e chi lo sa perché in studio si rideva e sghignazzava: anche questo meriterebbe "un'analisi a sé"), Travaglio affronta le "amicizie mafiose" di Schifani.
Mi chiedo può essere considerato giornalismo, buon giornalismo, andare in televisione e presentare non il presidente del Senato, ma semplicemente un uomo, come un quasi-verme? Davvero è "giornalismo dei fatti" sostenere, a freddo e fino a quel momento senza alcuna delucidazione (e quale poi poteva essere?) che un tipo è poco più di un verme? Non è neanche un'opinione. E' soltanto un nudo insulto, una consapevole offesa, un rito di degradazione. Davvero avrebbe diritto di cittadinanza in un altro paese occidentale alla voce giornalismo? Io penso che sia soltanto un'operazione vocale sulla psiche altrui, una sofisticazione del "malumore dilagante".
Le spiegazioni infatti, a Che tempo che fa, verranno soltanto dopo qualche domanda, quando Travaglio dirà: "E' chiaro che se il clima politico induce a un rapporto di distensione tra l'opposizione e la nuova maggioranza... Schifani ha avuto delle amicizie con dei mafiosi. Io devo fare il giornalista. Io devo raccontarlo. Lo ha raccontato Lirio Abbate, nel libro che ha scritto con Gomez e viene celebrato, giustamente, come un giornalista eroico minacciato dalla mafia. Ora o si ha il coraggio di dire che Lirio Abbate è un mascalzone e un mentitore o hanno il coraggio di prendere nota di quello che scrive e chiedere semplicemente alla seconda carica dello Stato di spiegare i rapporti con quei signori che sono poi stati condannati per mafia".
Non solo Schifani è poco più che un verme, è anche uno vicino alla mafia. Questa è la "verità" di Schifani che Travaglio ha voluto raccontare.
Si vedono qui gli abissi sopra i quali si svolgono le accorte e sapientissime requisitorie del processo politico: già Schifani era un "quasi verme", volete che non sia anche un criminale, un mafioso? Evocare "la mafia" dopo la non-umanità di quell'uomo non è "pescare nel medium sublogico" (come forse direbbe Franco Cordero): non solo Schifani è poco più che un verme, come vi ho già detto, è anche uno vicino alla mafia. E ora giudicatelo voi!
Questa è la "verità" di Schifani che Travaglio ha voluto raccontare. Ma un decente giornalismo può davvero considerare quelle parole accettabili come "la verità" (di "verità" parla in lettere, interviste, conferenze stampa)? Di che cosa è fatta quella "verità"?
Avere incrociato un mafioso - meglio un tipo che soltanto dopo è stato indagato e condannato per mafia - vuol dire davvero essere, sempre e in ogni caso, necessariamente, complice della mafia?
Molto mi è stato (e mi è ancora) rimproverato il ricordo della vacanza sconsiderata di Travaglio. Le carinerie che mi sono state riservate oscillavano e oscillano tra il "maiale" e il "venduto".
In realtà, ho voluto soltanto applicare (Travaglio sembra non comprendere le mie obiezioni) il cosiddetto principio tu quoque: atti uguali vanno valutati a uguali parametri. Chiedo: aver trascorso una vacanza con un tipo che poi si è rivelato un criminale, e dunque in piena innocenza e senza alcuna consapevolezza, vuol dire davvero essere per riflesso un criminale?
Mi sembrava (e ancora mi sembra) che il tu quoque potesse svelare di quale grana era fatta la perfomance di Travaglio, il suo giornalismo, la sua deprecazione, l'approccio alla realtà che è chiamato a raccontare. A me sembra che Travaglio ne abbia un'immagine artificiale, stretta in un ordine rigido. Tutto il bene da una parte, tutto il male dall'altra. Ne consegue una morale assoluta, incompatibile con il caso, l'imprevisto, il dubbio, l'ambivalenza, l'innocenza (e non dimentico che anche il mio lavoro si è mosso spesso lungo quelle strade).
Questa convinzione di Travaglio - una volta lontana dal rendiconto di un esito processuale - riduce ogni cosa alla coppia amico/nemico, buono/cattivo, bene/male, interno/esterno. Crea le particolari condizioni per cui egli (o chi come lui) "può provare tutto ciò che crede e credere a tutto ciò che può provare" perché, se è lecito citare in un'occasione come questa Hannah Arendt, confonde la logica formale con il "pensiero" e la coerenza con la "verità". Alla fine, per far tornare i conti, è un modello che deve "aggiustare" le carte perché non è sempre vero che il giornalismo di Travaglio sia fatto soltanto di "dati concreti" e di "fatti". A volte, è costruito con disinvoltura e anche con qualche omissione, come questa sua ultima e infelice replica.
(11 settembre 2008)
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