Oggi alcuni giudici dovranno decidere se spedire in carcere un giornalista per un'opinione espressa in un articolo. Non succede in Corea del Nord ma in Italia. Il protagonista della vicenda è il direttore del «Giornale» Alessandro Sallusti. I fatti risalgono al 2007, quando Sallusti, allora direttore di «Libero», fu querelato da un giudice per un articolo apparso sul quotidiano a firma «Dreyfus». Articolo che il magistrato di Torino Giuseppe Cocilovo ritenne lesivo della sua reputazione. Fin qui nulla di male: quotidianamente i giornalisti hanno a che fare con querele per diffamazione. In primo grado Sallusti fu condannato a un risarcimento di 4 mila euro, ma in appello la pena fu aggravata: 14 mesi di carcere, senza il beneficio della condizionale perché Sallusti fu ritenuto un elemento «socialmente pericoloso» in grado di reiterare il reato, avendo la possibilità di continuare a scrivere. In poche parole Sallusti deve finire dietro le sbarre. Il tutto perché come direttore fu colpevole di «omesso controllo».
Gli avvocati del giornalista hanno chiesto alla Cassazione un rinvio per studiare più a fondo il caso e non è escluso che i supremi giudici oggi accolgano la richiesta e facciano slittare l'udienza. In caso contrario gli stessi giudici potrebbero procedere e confermare la sentenza in via definitiva. A quel punto potremmo assistere alla carcerazione di un giornalista per un'opinione espressa in un servizio. Un'opinione peraltro molto forte, dato che l'autore dell'articolo invocava la pena di morte per il giudice che aveva acconsentito all'interruzione di gravidanza di una ragazzina tredicenne.
A difesa di Sallusti si sono schierati il sindacato dei giornalisti, molti colleghi tra cui Marco Travaglio, da sempre contrapposto alle idee del direttore del «Giornale», e un politico come Antonio Di Pietro, uno che ha querelato diverse volte Sallusti, ma che ora chiede di abolire con urgenza il carcere per i reati di opinione. Anche perché questo tipo di detenzione è un residuo dell'era fascista e l'Italia è l'unico Paese dell'Unione europea che preveda ancora una possibilità del genere.
Sia chiaro: Sallusti è uno di quei giornalisti che non fa nulla per risultare simpatico. Da quando Giuliano Ferrara sdoganò nell'informazione italiana la faziosità dichiarata come un valore, Sallusti ha incarnato alla perfezione il ruolo del giornalista militante. Celebre il suo battibecco in Tv con Massimo D'Alema che lo liquidò con un perentorio «vada a farsi fottere». Non più tardi di una settimana fa, il faccia a faccia tra Sallusti e il sindaco di una città lombarda è finito a scambi di «farabutto» e «cialtrone». Sallusti è amato dai suoi lettori e odiato dai suoi detrattori. La sua indole è quella ed è dichiarata.
Anche ieri, quando i legali del magistrato diffamato si sono offerti di rimettere la querela, Sallusti non ha voluto sentire ragioni: «Quel giudice chiede altri soldi - ha detto intervenendo a Radio 24 -, ma la giustizia non può essere oggetto di una trattativa privata. È una questione di principio. Se dovrò andare in carcere per un'opinione lo farò».
Detto senza che appaia una difesa «di casta», l'ipotesi di vedere un giornalista in cella per avere espresso un'idea è aberrante. Se Sallusti ha sbagliato deve pagare. Ma pagare significa staccare un assegno e stop.
Già, ma di chi è la colpa di questa situazione paradossale? Ancora una volta di una politica incapace di mantenere le promesse fatte. Da anni in Italia si discute se si debba depenalizzare il reato di diffamazione a mezzo stampa. In Parlamento giacciono due proposte di legge al riguardo, ma evidentemente valgono carta straccia.
Ma il direttore del «Giornale» dovrebbe prendersela soprattutto con chi in questi anni ha promesso e non ha fatto nulla. Primo fra tutti chi negli ultimi dieci anni ha governato per sette anni abbondanti. Vale a dire Silvio Berlusconi, il fratello del suo editore. Per Sallusti, che ha sempre minimizzato il tema del conflitto di interessi, è un contrappasso che forse fa più male del carcere che incombe.
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