Grazie dello spunto, Pianogrande.
Al link è presente anche un video.
http://www.amnesty.it/Parte-nuova-campa ... la-tortura
"Una crisi globale". Amnesty International lancia la campagna "Stop alla tortura". Registrati casi in 141 paesi negli ultimi cinque anni, in 79 paesi nel 2014 Amnesty International ha accusato i governi di ogni parte del mondo di aver tradito l’impegno a porre fine alla tortura, 30 anni dopo la storica adozione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura.
“La vietano per legge, la facilitano nella pratica. Ecco la doppia faccia dei governi quando si tratta della tortura”– ha dichiarato Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia, durante la conferenza stampa di lancio della campagna globale “Stop alla tortura”.
“Non solo la tortura è viva e vegeta, ma il suo uso sta
aumentandoin molte parti del mondo poiché sempre più governi tendono a giustificarla in nome della sicurezza nazionale, erodendo così i progressi fatti negli ultimi 30 anni”– ha proseguito Marchesi.
“Quella Convenzione era stata il prodotto di una campagna di Amnesty International contro la tortura. È disarmante rendersi conto che, nonostante i progressi fatti da allora, 30 anni dopo ci voglia un’altra campagna di Amnesty International affinché sia rispettata”– ha commentato Marchesi.
“A partire dal 1984, la Convenzione contro la tortura è stata ratificata da 155 paesi. Amnesty International ha svolto ricerche su 142 di essi, giungendo alla conclusione che nel 2014 la tortura viene praticata ancora da 79 paesi. Negli ultimi cinque anni, Amnesty International ha registrato casi di tortura o di altri maltrattamenti in 141 paesi ma, dato il contesto di segretezza nel quale la tortura viene praticata, è probabile che il numero effettivo sia più alto”– ha sottolineato Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia.
In alcuni di questi paesi la tortura è sistematica, in altri è un fenomeno isolato ed eccezionale. Ma, sottolinea l’organizzazione per i diritti umani, anche un solo caso di tortura è completamente inaccettabile.
Nel rapporto della campagna globale “Stop alla tortura”, intitolato “La tortura oggi: 30 anni di impegni non mantenuti”, è riportato un lungo elenco di metodi di tortura usati contro presunti criminali comuni, individui sospettati di costituire una minaccia alla sicurezza nazionale, dissidenti, rivali politici e altre persone ancora: dall’obbligo di rimanere in posizioni dolorose alla privazione del sonno, dalle scariche elettriche ai genitali allo stupro.
Prima del lancio della campagna, Amnesty International ha commissionato un sondaggio all’istituto di ricerche GlobeScan per conoscere l’attitudine dell’opinione pubblica rispetto alla tortura in 21 paesi del mondo. Il risultato allarmante è che il 44 per cento del campione pensa che, se fosse arrestato nel suo paese, rischierebbe di essere torturato. L’82 per cento ritiene che dovrebbero esserci leggi rigorose contro la tortura ma più di un terzo (il 36 per cento) crede che la tortura potrebbe essere giustificata in determinate circostanze.
“I risultati sono sorprendenti: quasi la metà delle persone che abbiamo contattato si sente vulnerabile rispetto alla tortura. La vasta maggioranza ritiene che dovrebbero esserci norme chiare contro la tortura ma più di un terzo ancora pensa che in certi casi la tortura possa essere usata. Complessivamente, abbiamo riscontrato un forte sostegno globale in favore di azioni che prevengano la tortura”– ha dichiarato Caroline Holme, direttrice di GlobeScan.
Nei paesi che hanno preso sul serio gli impegni assunti con la ratifica della Convenzione contro la tortura, questa è diminuita grazie all’introduzione di un reato specifico nelle leggi nazionali, all’apertura dei centri di detenzione a organismi indipendenti di monitoraggio e alla registrazione video degli interrogatori.
Amnesty International chiede ai governi di introdurre e applicare garanzie di protezione per prevenire e punire la tortura, come esami medici adeguati, immediato accesso agli avvocati, visite di organismi indipendenti nei centri di detenzione, indagini efficaci e indipendenti sulle denunce, procedimenti nei confronti dei presunti responsabili e adeguata riparazione per le vittime.
Mentre l’azione di Amnesty International per prevenire e punire la tortura prosegue a livello mondiale, la campagna “Stop alla tortura” si concentrerà su cinque paesi dove la tortura è praticata in modo ampio e dove l’organizzazione per i diritti umani ritiene di poter contribuire a cambiare significativamente la situazione.
In Messico, il governo sostiene che la tortura sia l’eccezione e non la regola. La realtà è che è praticata massicciamente e impunemente dalle forze di polizia e di sicurezza. Miriam López Vargas, 31 anni, madre di quattro figli, è stata sequestrata da due soldati in borghese e portata in una caserma. Qui, in una settimana, è stata stuprata tre volte, sottoposta a scariche elettriche e semi-soffocata per costringerla a confessare presunti reati di droga. Sono passati tre anni ma nessuno dei suoi torturatori è stato portato di fronte alla giustizia.
La giustizia, nelle Filippine, è fuori dalla portata della maggior parte dei sopravvissuti alla tortura. All’inizio del 2014 è stato scoperto un centro segreto di detenzione dove la polizia torturava i prigionieri per divertimento, usando una roulette lungo i settori della quale erano scritti vari metodi di tortura. Lo scandalo mediatico ha dato vita a un’indagine interna e alcuni agenti di polizia sono stati rimossi dall’incarico. Tuttavia, Amnesty International chiede un’indagine approfondita e imparziale che porti in tribunale tutte le persone coinvolte. La maggior parte degli atti di tortura da parte delle forze di polizia rimane impunita e i sopravvissuti alla tortura restano a soffrire in silenzio.
In Marocco / Sahara Occidentale è raro che le autorità marocchine indaghino sulle denunce di tortura. Le autorità spagnole hanno estradato in Marocco Ali Aarrass nonostante il pericolo che venisse torturato. Arrestato dai servizi di sicurezza, è stato portato in un centro segreto di detenzione dove gli sono state somministrate scariche elettriche sui testicoli, è stato picchiato sulle piante dei piedi ed è stato tenuto appeso per i polsi per lunghe ore. Ha dichiarato di essere stato costretto a “confessare” di aver collaborato con un gruppo terrorista. Sulla base di tale “confessione” è stato condannato a 12 anni di carcere e le sue denunce non sono mai state prese in considerazione.
Le forze di polizia e i militari della Nigeria ricorrono regolarmente alla tortura. Moses Akatubga è stato arrestato all’età di 16 anni. Lo hanno picchiato e gli hanno sparato a una mano. In una stazione di polizia è stato appeso per gli arti per ore. Sotto tortura, ha “confessato” di aver preso parte a una rapina. Le sue denunce di tortura non sono mai state pienamente indagate. Nel novembre 2013, dopo otto anni di attesa del verdetto, è stato condannato a morte.
In Uzbekistan, dove Amnesty International non può entrare, la tortura è pervasiva ma pochi torturatori sono stati portati di fronte alla giustizia. Dilorom Abdukadirova ha trascorso cinque anni in esilio dopo che le forze di sicurezza aprirono il fuoco contro una manifestazione cui stava partecipando. Rientrata nel paese, è stata arrestata e accusata di tentativo di rovesciare il governo. Al processo, è apparsa in aula emaciata e con cicatrici sul volto. I suoi familiari sono certi che sia stata torturata.
Nell’ambito della campagna “Stop alla tortura”, Amnesty International continuerà a sollecitare l’Italia a colmare il ritardo di oltre 25 anni – tanti ne sono trascorsi dalla ratifica della Convenzione contro la tortura – e a introdurre finalmente il reato di tortura nel codice penale.
“A 13 anni dal G8 di Genova del 2001, molti dei responsabili di gravi violazioni dei diritti umani sono sfuggiti alla giustizia e nel nostro paese non esistono strumenti idonei per prevenire e punire le violazioni in maniera efficace. Nel frattempo, molti altri casi che chiamano in causa la responsabilità delle forze di polizia sono emersi e, purtroppo, continuano a emergere senza che vi sia stata una risposta adeguata da parte delle istituzioni”– ha dichiarato Antonio Marchesi.
Il 5 marzo il Senato ha approvato un testo unificato che qualifica la tortura come reato specifico prevedendo l’aggravante nel caso in cui sia commesso da un pubblico ufficiale. Non è passata la disposizione che prevedeva l’istituzione di un fondo nazionale per le vittime della tortura.
“Dopo un quarto di secolo di attesa, è fondamentale che l’Italia si doti di norme efficaci per prevenire e punire la tortura e che queste soddisfino gli standard internazionali in materia di tortura che il nostro paese si è più volte impegnato a osservare. L’assenza di un reato specifico di tortura in Italia ha fatto sì, in questi anni, che fattispecie qualificabili e qualificate come tortura venissero sanzionate con pene lievi e non applicabili per intervenuta prescrizione e ha nuociuto alla stessa credibilità dell’operato delle forze di polizia”– ha concluso Marchesi.
FINE DEL COMUNICATO Roma, 13 maggio 2014
Ricordiamoci anche di chi fece - e su quale testata - una indegna apologia della tortura. Così, tanto per rinfrescare la memoria.http://www.corriere.it/Primo_Piano/Edit ... ANCO.shtmlSicurezza e fondamentalisti della legalità
Il compromesso necessariodi
Angelo Panebianco
Facciamo un'ipotesi, di fantasia ma non proprio del tutto implausibile. Immaginiamo che tra qualche mese venga fuori che l'Apocalisse dei cieli, il grande attentato destinato a oscurare persino gli attacchi dell'undici settembre, con migliaia e migliaia di vittime innocenti, sia stato sventato solo grazie alla confessione, estorta dai servizi segreti anglo-americani tramite tortura, di un jahadista coinvolto nel complotto, magari anche arrestato (sequestrato) illegalmente. Chi se la sentirebbe in Occidente di condannare quei torturatori? La risposta è: un gran numero di persone. In Italia più che altrove.
La cosa interessante è che a emettere sentenze di condanna senza nemmeno riconoscere l'esistenza di un «dilemma etico» nella vicenda in questione non ci sarebbero solo quelli che Giuliano Ferrara sul Foglio ha definito gli appartenenti al «nemico interno» (il quale esiste, eccome), alleato di fatto del terrorismo jahadista. No, fra coloro che condannerebbero i torturatori senza dubbi né tentennamenti ci sarebbero anche tante brave persone in buona fede che hanno orrore del terrorismo ma che credono che cose come la legalità, i diritti umani e quello che chiamano (in genere, senza sapere bene cosa sia) lo «stato di diritto» debbano sempre avere la precedenza su tutto: anche sulla salvezza di migliaia di vite umane.
Come si spiega che in Italia più che altrove sia venuta totalmente meno l'idea (che però resiste in altri Paesi occidentali, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, alla Francia) che la convivenza democratica possa poggiare solo su un compromesso, precario quanto si vuole, ma pur sempre un compromesso, fra stato di diritto e sicurezza nazionale? La spiegazione deve mettere in gioco vari elementi. C'è in primo luogo il lunghissimo periodo di pace che abbiamo alle spalle. Quella fortunata età dell'oro che è stata la lunga pace post '45 ha reso un gran numero di persone, soprattutto quelle nate dopo la Seconda guerra mondiale, incapace persino di mettere a fuoco l'idea di «nemico», il nemico vero, assoluto, quello che ti ucciderà se non riuscirai a neutralizzarlo. Per queste persone, la guerra è un fenomeno letteralmente incomprensibile. Ciò le rende disponibili a credere che la guerra dichiarata all'Occidente dal terrorismo jahadista possa essere affrontata con gli stessi strumenti con cui ci si difende dai ladri di polli o dai rapinatori di banche.
La seconda ragione ha a che fare con la vicenda italiana recente. La caduta dell'Urss e la successiva vicenda di Mani pulite determinarono in molte persone, all'inizio degli anni 90, una singolare metamorfosi: esse passarono, senza soluzione di continuità, dagli ammiccamenti per la Rivoluzione (fra tutti gli eventi, il più «illegale» che si possa immaginare) alla apologia della «legalità». Da bravi neofiti costoro hanno trasformato lo «stato di diritto» in una specie di feticcio davanti a cui ci si dovrebbe solo inchinare acriticamente.
Nessuno ha spiegato loro che lo stato di diritto è solo uno strumento, altamente imperfetto, che serve a regolare i rapporti entro la comunità democratica in condizioni di normalità. Uno strumento che fallisce quando scatta l'emergenza, quando qualcuno ti dichiara guerra. Sono questi neofiti che, se uno osa dire che dalla guerra, anche quella asimmetrica, non ci si può difendere con mezzi legali ordinari, gli spiegano subito con sussiego che se la democrazia non rispetta rigorosamente la «legalità» diventa come i terroristi la vogliono. Dimenticando che i principi vanno sempre adattati alle situazioni e che servono solo se si resta vivi.
A differenza dei neofiti della legalità, i liberali di antica data hanno sempre saputo che lo stato di diritto deve convivere, se si vuole sopravvivere, con le esigenze della sicurezza nazionale. Il che significa che si deve accettare per forza un compromesso, riconoscere che, quando è in gioco la sopravvivenza della comunità (a cominciare dalla vita dei suoi membri), deve essere ammessa l'esistenza di una «zona grigia», a cavallo tra legalità e illegalità, dove gli operatori della sicurezza possano agire per sventare le minacce più gravi. I neofiti della legalità non lo capiranno mai ma questo compromesso è anche l'unica cosa che, in condizioni di emergenza, possa salvare lo stato di diritto e la stessa democrazia. Perché quando arrivano le bombe, quando le strade si tingono di sangue, o ci affida a quel tacito compromesso oppure si deve scontare l'inevitabile reazione che porterà, prima o poi, dritto filato verso soluzioni autoritarie.
Le democrazie più salde e consolidate ne sono consapevoli e per questo difendono quel compromesso. Il rischio è che una malintesa, fondamentalista, visione della legalità ci porti ad abbassare drammaticamente le difese, per esempio a isolare i nostri addetti alla sicurezza dal resto dei servizi segreti occidentali, perdendo così l'input più prezioso nella guerra simmetrica contro il terrorismo: le informazioni.
Una classe dirigente degna di questo nome non può fare finta di nulla.
È assolutamente necessario, come dimostrano anche i contraccolpi dell'inchiesta giudiziaria sul sequestro di Abu Omar, che un confronto tra politica, operatori del diritto (magistrati, avvocati) e operatori della sicurezza abbia luogo. Per ricostituire quel compromesso tra stato di diritto e sicurezza nazionale che in Italia, proprio in uno dei momenti più cupi e pericolosi della storia recente dell'Occidente, è venuto meno. È un'esigenza vitale. Letteralmente.
13 agosto 2006