Comparazione estremamente difficile ma in parte rispondono due agili e chiarissimi libri di Bruno Tinti.
Vi propongo delle recensioni scritte da persona che conosco benissimo.
"Toghe rotte"
La presentazione più efficace di “Toghe rotte” è proprio la breve prefazione di Marco Travaglio: dieci pagine che fotografano perfettamente l’intento di Bruno Tinti e dei suoi anonimi colleghi; ed anche la descrizione devastante di come sia mal messa la giustizia italiana.
Conviene riportarne un brano: “Il quadro che ne esce è realistico fino alla brutalità, dunque diametralmente opposto alla vulgata corrente. Il quadro di un paese dominato da almeno quattro diverse culture immunitarie stratificate e incrociate: quella molliccia e mafiosetta del familismo amorale; quella giustificazionista dei cattolici all’italiana, sempre pronti all’indulgenza e al perdonismo; quella deresponsabilizzante e anti-istituzionale del sinistrismo anni ’60 e ’70, per cui “è sempre colpa della società” e del “modello di sviluppo”; e quella losca e affaristica dell’aziendalismo anarocoide, perfettamente incarnata dal cavalier Berlusconi e dalla sua fairy band, ovvero tolleranza mille per i colletti bianchi e tolleranza zero per i poveracci”.
L’autore-curatore, due anni fa ancora in carriera quale Procuratore aggiunto presso la Procura di Torino e specializzato nell'inseguire i reati finanziari, con questo saggio di grande successo ha dato voce ad un sentire diffuso tra i magistrati e anche tra tutti coloro che, avendo avuto a che fare con i tribunali, non si fanno incantare dalla disinformazione dei media; come se in Italia, con buona pace di fantasiosi editorialisti tipo il prof. Whitebread, il problema fosse il “giustizialismo” e quei loschi individui illiberali, addirittura contrari ad indulti e leggi ad personam.
Incazzarsi perché il novantacinque per cento dei processi penali finisce nel nulla non so se voglia dire giustizialismo: basta intendersi sul significato delle parole.
Quello che in altri paesi vuol dire almeno centocinquanta anni di carcere (tipo reati fiscali, falso in bilancio e così via), da noi significa elezione al Parlamento; e magari pure diventare presidente del consiglio.
Non deve perciò meravigliare se qualcuno di noi potrà intendere in altro senso il liberalismo, la giustizia, l’efficienza della procedura penale e civile.
“Toghe rotte” è un saggio scritto con uno stile brillante, molto scorrevole, senza velleità dottrinali, ma che, proprio in virtù del suo svelare la concreta applicazione di quei codici e leggi che ci sono state raccontate come espressione di grandi principi di civiltà, rappresenta un atto di coraggio in questa Italia di conformisti e parolai.
Un atto di coraggio premiato sicuramente con la vendita di tante copie del libro, ma comunque una voce non allineata né con la casta politica di governo e della pseudo-opposizione, né con le correnti corporative della magistratura.
Raccontare le cose come stanno da noi, soprattutto quando si entra nel campo della cosiddetta “giustizia”, non è la regola ma l’eccezione.
Una descrizione di inefficienza kafkiana che da un lato potrà irritare coloro, militanti ed adoranti politici, che vogliono credere a tutti i costi alla favola dello Stato di polizia in mano a magistrati stalinisti; e dall’altro un quadro che potrà spiazzare tutti quei lettori, magari pure con alle spalle studi giuridici, che mai avrebbero pensato di veder ridotti così i principi del “giusto processo”.
Chiunque si sia fatto un mazzo tanto sui tomi di diritto e abbia avuto poi la sfortuna di vedere cosa succede veramente nelle aule di tribunale, sa di cosa parlo.
Ne consegue che per molti di noi “Toghe rotte” non racconta nulla di nuovo, niente di cui non si sia in fondo consapevoli.
Leggere in poco più di centocinquanta pagine la descrizione di tali inefficienze e assurdità, tutto d’un fiato, fa comunque un certo effetto: in altri termini la dimostrazione di come tra la teoria, le dichiarazioni di principio e la pratica ci sia un abisso.
Altro merito del libro, come ben sottolinea ancora una volta Travaglio, è quello di “smontare con esempi concreti tutti i luoghi comuni dei nostri politici che fanno il pianto greco ogniqualvolta finisce sotto inchiesta un membro della casta, anzi della cosca. Per esempio le litanie sulla “violazione del segreto istruttorio” (che non esiste più dal 1989) o della “privacy” (che viene meno quando sono in ballo personaggi pubblici coinvolti in indagini giudiziarie). Come se il problema non fossero i fatti scoperti dalla magistratura ma la pubblicazione delle notizie sui giornali”.
Le inefficienze del sistema giudiziario italiano e le prospettive di prossime riforme, foriere di ulteriori abomini, sono evidenziate da grotteschi episodi di ordinaria ingiustizia e dove i magistrati si sbattono di lavoro pur sapendo che tutto quello che fanno sarà inutile in previsione delle inevitabili scarcerazioni, condoni, prescrizioni.
Al di là di questa aneddotica, il cui piglio quasi divertente mette ancor più in risalto le storture di un ingranaggio che fa a pezzi dignità e buon senso, “Toghe rotte” in “Corso accelerato di diritto e procedura pena”, presumibilmente ad opera proprio di Bruno Tinti, toga tutt’altro che “rossa”, ci descrive cosa vuol dire l’applicazione dell’attuale codice di procedura, della legge Gozzini e di tutte le riforme salva ladri promulgate in un paese sempre più allergico alle regole, ma che appunto per questo ne produce in quantità: ne discende un barlume di consapevolezza che, paradossalmente, non è proprio possibile ricavare con lo studio dei codici e dei poderosi manuali istituzionali di procedura e diritto.
A quel punto, abbandonate per un attimo le impegnative considerazioni dottrinali dei nostri professori universitari, possiamo capire come mai le galere italiane sono abitate da un ottanta per cento di tossici e piccoli delinquenti, mentre chi ruba miliardi ha la prescrizione assicurata; e sta a casa sua.
In altre parole: “una procedura penale del genere non esiste in nessun altro paese del pianeta. Cercate e vedrete che siamo gli unici a tutelare gli imputati instigandoli a fuggire dal processo” (pag. 43); ovvero una giustizia ad oggi programmata per non funzionare, che per diventare efficiente necessiterebbe di poche e semplicissime soluzioni. Se solo si volesse.
In questo senso viene alla mente Davigo quando, serissimo, ci diceva come la migliore riforma della giustizia consisterebbe nell’abrogazione dei nostri attuali codici e nell’adozione di quelli svizzeri.
E poi ancora nel capitolo “Si fa ma non si dice” parole semplici e chiare per distinguere la cosiddetta questione morale dalla questione penale.
Mentre Vaclav Havel descriveva la magistratura come “il potere dei senza potere”, ovvero un’amministrazione che serve ai più deboli, qui in Italia pare che se ne sia data un’interpretazione opposta, quale strumento volutamente inefficiente per rendere la vita facile ai potenti pieni di grana e la vita difficile ai poveracci senza santi in paradiso.
“In Italia la Giustizia è diventata una macchina per tritare acqua” (Gherardo Colombo)
“In Italia l’unica vera rivoluzione sarebbe una legge uguale per tutti” (Ennio Flaiano)
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Bruno Tinti (19 dicembre 1942, Roma), ex procuratore aggiunto presso la Procura di Torino. Autore di pubblicazioni, articoli e relazioni in convegni in materia penale tributaria e penale societario.
Bruno Tinti, Toghe rotte, Chiarelettere, Milano 2007
Riferimenti web:
http://it.wikipedia.org/wiki/Toghe_rottehttp://chiarelettere.ilcannocchiale.it/ ... oc=1619844http://www.agoravox.it/Intervista-a-Bru ... ttivo.html<<<<<<<<<<<<<<<<<<<<
La questione immorale
Un anno dopo il successo di “Toghe rotte” si replica.
Questa volta però Bruno Tinti, ormai ex magistrato e fresco collaboratore del quotidiano “Il fatto”, possiamo definirlo autore a tutti gli effetti, mentre nel precedente saggio-pamphlet appariva soprattutto come curatore di un’opera corale dove alcuni giudici e procuratori si raccontavano (anonimi) alle prese con lo sfascio della macchina giudiziaria.
“La questione immorale” segue a ruota, e il nostro Tinti, come volendo passare “dalla protesta alla proposta”, continua a proporci un tema che pare essere ancora oggetto misterioso presso tutti i media generalisti italiani e, paradossalmente, anche presso i futuri operatori del diritto, troppo condizionati da uno studio del diritto che si nutre di principi astratti e soprattutto interpretati ad uso e consumo di interessati avvocati e politici intenti a pararsi le terga.
Venti anni che bazzico certo mondo mi induce a fidarmi più dell’ex magistrato che dei Ghedini della situazione, tanto per dire.
Ma entriamo nel merito del libro.
Innanzitutto Tinti ci ricorda quale siano i problemi (presunti) che la classe politica, nella sua veste bipartisan e inciucista, ci spaccia come da risolvere al più presto: la separazione delle carriere, la non obbligatorietà dell'azione penale, la responsabilità civile dei magistrati (ma non c’era già la L. 117/88?), il blocco delle intercettazioni telefoniche e via e via allarmando.
Un’urgenza che ha una sua verità, ma forse – considerazione personale - più per la protezione delle citate terga che per l’effettiva funzionalità di quella macchina giudiziaria già sfasciata da decenni di “leggi ad personas”.
In altri termini - qui Tinti non usa troppi giri di parole – l’autore ci spiega i meccanismi con cui i politici, col pretesto di regalarci un futuro di diritti e una normativa in linea con i grandi principi di civiltà, vogliono ottenere il controllo dei magistrati e la garanzia dell'impunità.
A grandi linee, almeno noi lettori e cittadini meno sprovveduti, già lo sappiamo: togliendo l'iniziativa al P.M., metterlo alle dipendenze dell’esecutivo, sottrargli il controllo della polizia giudiziaria; e poi limitare le intercettazioni da parte della magistratura, mentre polizia, servizi e quindi il governo per motivi di sicurezza, vera o presunta, possono intercettare migliaia di cittadini.
Un quadro che si è venuto delineando sempre più in questi anni, da quando si è capito che le sole leggi ad personam non potevano essere sufficienti per assicurare l’impunità per se stessi, per i propri scherani e per i compari della finta opposizione.
A Bruno Tinti, proprio come nel caso del precedente “Toghe rotte”, va riconosciuto il merito di raccontarci una situazione drammatica ed anche complicata (si tratta pur sempre di una normativa di non facile comprensione, sia per i neofiti del diritto, sia per coloro che, usciti dalle aule universitarie, hanno ricevuto una formazione puramente teorica), con uno stile colloquiale, a volte fin troppo, e comunque con particolare chiarezza espositiva.
Si sente spesso dire che le riforme prossime venture della giustizia sarebbero fatte proprio per renderci finalmente in linea con quanto accade negli altri paesi garantisti dell’occidente democratico. Vogliamo crederci?
Se volete proprio crederci allora farete bene a non leggere “La questione immorale”. Le organizzazioni giudiziarie e le normative di stati come gli USA, la G.B., la Francia sono qui descritte con tutti i loro limiti (e pregi).
In altri termini, dopo aver affrontato, seppur in maniera sommaria, la comparazione dei più importanti sistemi giudiziari dell’occidente (con queste pagine “La questione immorale diventa qualcosa più di un polemico pamphlet), viene posta la domanda chiave di tutto il libro: se il sistema di reclutamento dei magistrati stranieri è pessimo e il nostro ottimo, perché loro stanno meglio di noi?
Così Tinti: “mentre il controllo che la politica opera sulla magistratura per assicurarsi di non essere sottoposta al controllo di legalità avviene in via diretta (ufficialmente o ufficiosamente), il sistema giudiziario resta intatto e può funzionare in maniera efficiente per tutto ciò che attiene ai consueti rapporti del vivere civile…… Corollario di questa riflessione è che, nel nostro Paese dove questo controllo diretto è – era (i casi Forleo e De Magistris rischiano di aprire una nuova fase) – impossibile, la sottrazione della politica al controllo di legalità avviene mediante tre drammatici strumenti: le leggi ad personam, la delegittimazione dei giudici, la delegittimazione della legge” (pag. 33).
Qualche altro passaggio significativo: (I politici) “hanno delegittimato il concetto stesso di legalità “e “i cittadini imparano della loro classe dirigente” (pag. 41).
“Alla fine è evidente che l’obiettivo è quello di trasformare il Pubblico Ministero: da magistrato autonomo e imparziale ad avvocato dell’accusa. Insomma oggi , con la classe politica attuale tesa a difendere la propria impunità, ciò significherebbe la morte della legalità e della democrazia” (135)
In merito alla risibile ma purtroppo molto diffusa idea di P.M. quale “avvocato dell’accusa”: “Per il Pubblico Ministero non è importante che l’imputato venga condannato, è importante che il colpevole sia condannato. E quindi, se l’imputato non è colpevole, il PM ha l’obbligo di chiedere che venga assolto. Alla fine, nel PM, si riassume il ruolo di accusatore e difensore” (pag. 136).
Sull’eventualità della separazione del P.M. dalla polizia giudiziaria: “ è ovvio quello che potrebbe succedere: massima solerzia e disponibilità per spaccio di droga, omicidio dell’amante e del coniuge (ma per il coniuge un po’ di più) sequestro di persona, rapina alle poste, furto al supermercato. Ma nel caso si cominciasse ad indagare su frodi fiscali, falso in bilancio, riciclaggio, corruzione, peculato, abuso d’ufficio, finanziamento illecito dei partiti allora, caro Pubblico Ministero, gli uomini sono quelli che sono, c’è tanto da fare, la sua richiesta sarà evasa prima possibile” (pag. 144).
Ai riferimenti tecnici e normativi perciò si accompagnano le osservazioni di coloro che vivono giorno per giorno la realtà demoralizzante e complessa della macchina giudiziaria; non fosse altro che ogni riforma creata per aumentare lo scudo a protezione dei potenti “non incide solo sui loro processi: aumenta l’inefficienza dell’intero sistema”.
Osservazioni peraltro apparentemente ovvie ma, non a caso, sempre trascurate da parte dei media. Nella seconda e terza parte del libro in “Riforme impossibili” e “Riforme possibili”, l’autore spiega come si potrebbe far funzionare al meglio la macchina della giustizia italiana, magari abbandonando quel “giusto processo” (vedi art. 111 C.) che poi tanto “giusto” non è, e soprattutto le leggi fatte per non funzionare (in “La questione immorale” di esempi concreti ne troviamo a iosa).
E per replicare a chi ha tacciato Tinti di essere una “toga rossa” basta leggersi un suo brano autobiografico su una vicenda risalente al 1980, nella quale dei sindacalisti impedivano l’accesso alla fabbrica ai loro colleghi non scioperanti, con i carabinieri che, su input politico, facevano resistenza alle indagini dei magistrati (rossi?).
Così viene raccontata la conversazione tra un appartenente all’Arma e un suo superiore: “Olio tra le parti signor colonnello, ho capito signor colonnello, non esacerbiamo gli animi, non è il momento delle denunce signor colonnello”.
Su questo olio che si voleva dispensare con tale disinvoltura così il nostro ex magistrato: “Se non avessimo cercato, un gran numero di reati sarebbe stato commesso impunemente e l’intero paese avrebbe constatato che prepotenza, violenza e complicità pubbliche rendono utile e impunita l’illegalità” (pag. 147). Insomma lì di “rosso” c’era proprio poco, anzi nulla.
Però lo sappiamo come vanno le cose in Italia e come, a distanza di vent’anni dalla caduta del sistema sovietico e ancora pieni di comprensibili rancori, una delle più tremende eredità del comunismo sia l’anticomunismo usato per farsi gli affari propri. Insomma, per dirla col nostro ex magistrato, “una giustizia che funzioni pare proprio faccia troppa paura”.
Per essere ancora più precisi: a me e ad altri di voi non penso farebbe paura, ma a qualcuno dei nostri zelanti riformatori credo proprio di si.
Sarò malfidato?
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Bruno Tinti (19 dicembre 1942, Roma), ex procuratore aggiunto presso la Procura di Torino. Autore di pubblicazioni, articoli e relazioni in convegni in materia penale tributaria e penale societario. Dal dicembre 2008 ha lasciato la Magistratura. Nel 2007 ha pubblicato con successo il libro Toghe rotte (ChiareLettere, 85mila copie), che è anche il titolo del suo fortunato blog sulla giustizia.
Collabora a “Il fatto”.
Bruno Tinti, La questione immorale, Chiarelettere, Milano 2009
Riferimenti web:
http://it.wikipedia.org/wiki/Toghe_rottehttp://chiarelettere.ilcannocchiale.it/ ... oc=1619844http://www.agoravox.it/Intervista-a-Bru ... ttivo.html
"D' Alema rischia di passare alla storia come il piu' accreditato rivale di Guglielmo il Taciturno" (I. Montanelli, 1994)