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Cosa ci insegna la Storia della Scienza?

Dall'innovazione tecnologica alla ricerca, vogliamo trattare in particolar modo i temi legati all'ambiente ed alla energia, non solo pero' con uno sguardo puramente tecnico ma anche con quello politico, piu' ampio, di respiro strategico

Cosa ci insegna la Storia della Scienza?

Messaggioda annalu il 14/01/2014, 14:31

Oggi Il Fatto Quotidiano ricorda il settantesimo anniversario della scoperta della funzione genetica del DNA. E' incredibile che la moderna biologia, che ormai diamo tutti per scontata, abbia origini così recenti: 70 anni fa veniva scoperto che il Dna era la molecola che rappresenta il codice genetico, mentre la struttura della membrana delle cellule ha meno di conquant'anni; eppure da queste scoperte, allora valutate come "Ricerca Fondamentale" (che significa ricerca non applicata, quindi inutile, almeno nell'immediato) è derivata una vera rivoluzione non solo nelle conoscenze biologiche, ma anche nelle terapie di moltissimi mali prima giudicati incurabili, e nello studio e protezione dell'ambiente nel quale viviamo.
Eppure, in questo periodo di crisi economica, la Ricerca Fondamentale viene quasi considerata come superflua, e la si finanzia e valorizza sempre meno, e non solo in Italia.

Dna, settant’anni fa la scoperta che cambiò la biologia
di Andrea Bellelli, 14 gennaio 2014 (Commenti 31)
Più informazioni su: Dna, Genetica, Laboratori, Ricerca Scientifica, Sperimentazione.

E’ importante la storia della scienza? O la scienza, come voleva Popper, è una impresa sostanzialmente atemporale, nella quale una scoperta solidamente corroborata dall’esperimento, vecchia di due o tre secoli, coesiste a pari titolo con una dell’altro ieri o di stamattina? Probabilmente Popper ha tutte le ragioni logiche del caso; ma conoscere la storia della scienza è di fondamentale importanza per apprezzarne il ruolo sociale e favorirne lo sviluppo. Noi non prevediamo il futuro: studiamo il passato e speriamo che quello che apprendiamo ci possa servire per gestire il presente e programmare il futuro. Se pensiamo che la ricerca di oggi e di domani, apparentemente inutile, vada fatta, è perché la ricerca svolta l’altro ieri, che all’epoca sembrava inutile, si è poi rivelata preziosa e ci serve anche oggi. Per questo io penso che sia importante ricordare le scoperte più importanti del passato: ci dice quale dovrebbe essere la politica della scienza nel presente.

Ricorre nel 2014 il settantesimo anniversario della pubblicazione di una scoperta di fondamentale importanza per la biologia: la funzione del Dna. Tutti oggi sappiamo che se un bimbo assomiglia al suo papà e alla sua mamma (o ai suoi nonni e zii) è perché condivide con loro i suoi geni; e tutti sappiamo che i geni sono contenuti nei cromosoni del nucleo cellulare, fatti di acido desossiribonucleico (Dna). Non lo abbiamo sempre saputo: anzi la funzione del Dna è stata a lungo misteriosa ed elusiva. La dimostrazione definitiva che il veicolo dell’informazione genetica è il Dna è dovuta al microbiologo americano Osvald T. Avery, e ai suoi collaboratori MacLeod e McCarty e fu pubblicata sul Journal of Experimental Medicine nel febbraio del 1944 (in piena seconda guerra mondiale). L’esperimento è semplice quanto geniale. Avery aveva a disposizione nel suo laboratorio molti ceppi di batteri, patogeni e non patogeni; tra questi gli Pneumococchi di tipo II (o R, privi del rivestimento cellulare chiamato capsula), scarsamente virulenti, e quelli di tipo III (o S, dotati di capsula), molto virulenti. Il topo artificialmente infettato con Pneumococchi di tipo II spesso guariva, quello infettato con Pneumococchi di tipo III di solito soccombeva all’infezione.

F. Griffith aveva dimostrato nel 1928 che un topo inoculato con Penumococchi di tipo II vivi e Penumococchi di tipo III uccisi soccombeva all’infezione e presentava all’autopsia soltanto o prevalentemente Pneumococchi di tipo III. Una tra le possibili interpretazioni dell’esperimento di Griffith era che un componente biochimico presente negli Pneumococchi di tipo III uccisi potesse essere trasferito agli Pneumococchi di tipo II vivi e potesse trasformarli geneticamente in Pneumococchi di tipo III, vivi e virulenti. Avery partì da questo esperimento e da questa ipotesi e usò per le sue trasformazioni non gli Pneumococchi di tipo III uccisi, ma i loro componenti biochimici isolati e frazionati mediante estrazioni successive in alcol: cercò cioè quale frazione cellulare contenesse il potere di causare la trasformazione genetica. La frazione contenente il Dna risultò l’unica capace di trasformare gli Pneumococchi di tipo II in Pneumococchi di tipo III, sebbene, come Avery sottolineava, la capsula fosse costituita da sostanze chimiche diverse dal Dna: la sostanza trasformante conteneva l’informazione per costruire la capsula batterica, non la capsula stessa.

Qual era il ruolo del topo nell’esperimento di Avery? Perché il trasferimento di informazione genetica non poteva essere rivelato nei batteri in cultura, ma soltanto nell’infezione sperimentale del topo? Le difese immunitarie del topo uccidono facilmente gli Pneumococchi non capsulati, di tipo II; con molta maggior difficoltà quelli capsulati, di tipo III. Nei batteri in cultura il traferimento genico avviene lo stesso, ma non c’è nessuna pressione selettiva a favorire gli Pneumococchi trasformati, che rimangono una minoranza insignificante e non rilevabile dei batteri totali. Per contro nell’infezione sperimentale gli Pneumococchi di tipo II non trasformati sono uccisi dalle difese immunitarie del topo e solo quelli trasformati in tipo III sopravvivono (e uccidono l’animale).
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Re: Cosa ci insegna la Storia della Scienza?

Messaggioda pianogrande il 14/01/2014, 22:49

L'articolo non mi risulta molto chiaro.
Mi risulta più chiaro il problema.
Chi deve (e può) fare la ricerca di base?

Sicuramente non il popolo del "piccolo è bello".

Ci vogliono grosse aziende con piani di sviluppo a lunga scadenza o enti statali, in primis le università, (che fruiscano dei necessari finanziamenti).

Il problema comune sono i finanziamenti (e le competenze, naturalmente).

Quando si taglia, almeno nel nostro paese, si taglia la cultura, si taglia la ricerca e si cerca di sopravvivere senza innovazione tagliando tutti i costi possibili.
Ergo, si diventa poveri.

La storia della scienza ci dovrebbe insegnare quante volte si sono fatte delle scoperte (frutto della ricerca di base) senza rendersi subito conto delle invenzioni (frutto della ricerca applicata) che ne sarebbero derivate.
Ci insegna, quindi che non bisogna mai rinunciare a perseguire nuove scoperte.
La ricerca si mangia, eccome!
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Re: Cosa ci insegna la Storia della Scienza?

Messaggioda franz il 15/01/2014, 8:22

pianogrande ha scritto:Mi risulta più chiaro il problema.
Chi deve (e può) fare la ricerca di base?

Sicuramente non il popolo del "piccolo è bello".

Dipende. Nel campo della fisica delle particelle o dell'astrofisica sono necessari macchinari costosi, ingombranti, che hanno un certo tasso di obsolescenza e vanno cambiati con un certo ritmo. In questo campo solo grandi organizzazioni governative, anzi spesso la cooperazione tra diverse agenzie, puo' operare. Vedi il CERN di Ginevra.

In campo biologico mi pare sia diverso. Ok, ci sono costi anche li' (anche solo i topi di laboratorio di cui si parla, ceppi particolarmente puri, non li regalano e vanno da 15 a 300 dollari in alcuni casi). Ma sono comunque costi sopportabili anche da una piccola o media organizzazione. La prova è che in Cina i laboratori che oggi si occupano di OGM sono piu' di un migliaio. Ok, quella è ricerca operativa (finalizzata ad un obbiettivo produttivo) ma a mio avviso un laboratorio che si occupa di ricerca operativa ha degli introiti che puo' usare non solo per mantenere adeguatamente gli strumenti e pagare il personale ma anche per finanziare alcuni progetti di ricerca di base. I macchinari sono gli stessi e credo che annalu potrà confermarlo.
In fondo si lavora con microscopi ottici ed elettronici (100'000 è un buon primo prezzo) centrifughe, elettroforesi, con la marcatura con radioisotopi. Già combinando le tre tecniche (oggi con un massiccio utilizzo dell'informatica) si puo' arrivare a discriminare ed isolare componenti sempre piu' minuscoli. Tra i 100 ed i 150mila dollari oggi si puo' avere anche un sequenziatore di DNA, grande circa come una stampante che abbiamo sul tavolo.
Tutto questo non è alla portata di una microazienda ma di una piccola e media secondo me si'.
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Re: Cosa ci insegna la Storia della Scienza?

Messaggioda pianogrande il 15/01/2014, 10:56

Quindi, Franz, in molti casi i costi non sono il problema principale.
Un altro problema è di natura culturale.
Il problema di crederci nelle possibilità della ricerca.
Nel nostro caso, il problema di una imprenditoria molto più brava e creativa nel cercare di schivare il fisco e nel nascondere i rifiuti tossici che nel perseguire l'innovazione.
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Re: Cosa ci insegna la Storia della Scienza?

Messaggioda franz il 15/01/2014, 13:50

sul driblare il fisco come sai il la penso diversamente.
In Germania (non quindi in un paradiso fiscale ma in un paese occidentale avanzato e manuffatturiero) gli utili della società vengono sottoposti ad un'aliquota attorno al 20% (somma di varie imposizioni federali e locali) mentre in Italia tra IRES e IRAP siamo a livelli da rapina (60% ed oltre). In queste condizioni ben poco rimane per investire (lo stato prende, se ci riesce, quasi tutto, a volte anche piu' di tutto, con l'IRAP) ed a mio avviso è del tutto comprensibile che le aziende mettano in attopratiche per driblare il vampiro.

Per i rifiuti tossici non credo che sia un comportamento comune di ogni genere di impresa e nel caso c'entra poco con un laboratorio di Bio, che sono ovviamente piu' controllati per quanto riguarda gli scarti.
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Re: Cosa ci insegna la Storia della Scienza?

Messaggioda annalu il 16/01/2014, 17:29

pianogrande ha scritto:Quindi, Franz, in molti casi i costi non sono il problema principale.
Un altro problema è di natura culturale.

No, la scienza, anche quella apparentemente poco costosa, in realtà costa, ed anche molto.
Ci sono argomenti scientifici che possono essere indagati solo con macchinari costosissimi come la fisica delle alte energie, eppure quella viene affrontata e finanziata da istituzioni sovranazionali, perché è evidente la loro rilevanza per la specie umana nel suo complesso. Una volta costituito il mega-apparecchio, capita però che facciano ricerca con la grossa macchina anche gruppi di ricerca che non seguono il filone principale, ed a volte possono fare scoperte interessanti; però anche loro sfruttano una macchina costosissima. In altri casi la ricerca non necessita di apparecchiature costosissime (o magari riesce a sfruttare i "buchi" di scarso utilizzo di apparecchiature costose), ma il costo resta esorbitante, per un motivo differente.
Il problema, ed è un problema enorme, è stabilire chi abbia diritto a fare ricerca, anche poco costosa, godendo di uno stipendio che gli consenta di sopravvivere decorosamente, ed avendo accesso a laboratori ed apparecchiature che un costo lo hanno, e nemmeno modesto.
Un tempo gran parte della ricerca fondamentale era un hobby di persone facoltose che, non avendo bisogno di lavorare per vivere, potevano utilizzare il proprio tempo dedicandosi a ricerche che apparivano del tutto inutili nell'immediato, e solo poche di queste hanno dato in seguito progressi enormi.
Adesso è ben difficile che una qualsiasi persona possa svolgere da solo o con pochi amici ricerche che portino a scoperte rilevanti. Adesso le conoscenze di base dalle quali qualsiasi ricercatore deve partire richiedono l'utilizzo di laboratori attrezzati, di materiali costosi, di personale qualificato: tutto questo le industrie hanno difficoltà ad offrirlo per puro altruismo; solo le istituzioni pubbliche, Università o Centri di Ricerca, sono in grado di garantirli.
Ma ovviamente l'accesso alla carriera universitaria non è aperta a tutti, sono necessari dei requisiti: chi e con che criteri li stabilisce?
Qualche decennio fa si poteva pensare che il sistema universitario italiano, coi suoi sistemi di selezione molto personalistici e "soggettivi", consentisse lo svolgersi di ricerche non immediatamente produttive, mentre la rigida selezione statunitense privilegiare esclusivamente le ricerche con ricadute produttive immediate. Si poteva sostenere che pagare dieci ricercatori che non ottenevano alcun risultato utile (né ora né mai) avesse un senso, perché consentiva ad un ignoto ricercatore geniale di fare la grossa scoperta imprevista ed inattesa.
L'Italia ha continuato su questa strada, col risultato che ora il rapporto tra ricercatori che fanno scoperte importanti e quelli che non producono nulla va progressivamente scivolando verso il nulla assoluto: ogni ricercatore si sente un genio, indipendentemente dai risultati che ottiene.
Il problema è quindi enorme, e vale in modo differente a livello mondiale ed a livello nazionale: da noi penso ci si dovrebbe augurare una buona ricerca valutabile in tempi brevi, e poi il ricercatore "geniale" troverà il modo di dedicare ritagli di tempo alla ricerca "inutile" che solo lui trova affascinante: se ha ragione ce la farà a fare la sua scoperta.

Quanto alle differenze tra biologia e medicina da una parte e fisica ed ingegneria dall'altra, ormai anche la biologia sta diventando una scienza costosa, con necessità di macchinari che spesso diventano rapidamente obsoleti, e di animali da laboratorio sempre più costosi.
Ecco, questo è un elemento che raramente viene preso in considerazione. Gli animali da laboratorio, perché possano fornire risultati sperimentali utili, devono essere selezionati molto rigorosamente ed allevati in condizioni di vita assolutamente sane e standardizzate, ed anche questo ha un costo non indifferente.
La mia esperienza in materia (ma ovviamente non conosco la "politica" delle multinazionali farmaceutiche) mi fa sospettare che le case farmaceutiche abbiano tutti i motivi per supportare gli animalisti nella loro lotta alla sperimentazione animale: se gli esperimenti si facessero tutti al computer o al limite in vitro, il guadagno sarebbe enorme, perché i computer e le cellule in coltura costano enormemente meno degli animali da laboratorio allevati e trattati in modo efficace e ed etico.
Molti dimenticano che gli esperimenti "virtuali" (al computer) tengono conto solo dei dati già noti che vengono forniti al computer stesso, e le colture cellulari non sono ancora in grado di fornire tutte le informazioni che riguardano un organismo pluricellulare complesso come quello di un mammifero. Per fortuna sia il computer che le colture forniscono molte importanti informazioni preliminari che consentono di limitare al massimo la necessità di sperimentazione animale, che però resta pur sempre indispensabile se non si vuole tornare al Medio Evo, quando la sperimentazione farmacologica era condotta principalmente sui bambini abbandonati negli orfanotrofi.

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Re: Cosa ci insegna la Storia della Scienza?

Messaggioda trilogy il 17/01/2014, 10:17

annalu ha scritto:Qualche decennio fa si poteva pensare che il sistema universitario italiano, coi suoi sistemi di selezione molto personalistici e "soggettivi", consentisse lo svolgersi di ricerche non immediatamente produttive, mentre la rigida selezione statunitense privilegiare esclusivamente le ricerche con ricadute produttive immediate. Si poteva sostenere che pagare dieci ricercatori che non ottenevano alcun risultato utile (né ora né mai) avesse un senso, perché consentiva ad un ignoto ricercatore geniale di fare la grossa scoperta imprevista ed inattesa.
L'Italia ha continuato su questa strada, col risultato che ora il rapporto tra ricercatori che fanno scoperte importanti e quelli che non producono nulla va progressivamente scivolando verso il nulla assoluto: ogni ricercatore si sente un genio, indipendentemente dai risultati che ottiene.......


L'aspetto critico del sistema è che la comunità scientifica è per sua natura autoreferente. Il lavoro dei ricercatori viene valutato, tramite le pubblicazioni scientifiche, da altri ricercatori mentre chi sostiene, in larga parte, i costi della ricerca fondamentale tramite le tasse, è la collettività. In cambio di questo sostegno la collettività ha quindi tutto il diritto di avere qualche cosa in cambio in termini di risultati della ricerca che possano migliorare la qualità della vita, fornire una risposta a problemi comuni, creare posti di lavoro ecc.
In questa logica i governi statunitensi tendono ad investire in ambiti della ricerca fondamentale che possono avere a lungo termine maggiori ricadute economiche. Hanno maggiore visione strategica e di sistema rispetto all'Europa e in particolare rispetto all'Italia dove questa visione è del tutto assente.
Un altro elemento da tenere presente, è che le risorse sono scarse per tutti. La selezione permanente costituisce quindi un elemento chiave di funzionamento del sistema. Se un ricercatore non produce alcun risultato, potrebbe essere invece utile altrove, ad esempio come tecnico in una impresa industriale privata. Ma la mobilità nel nostro paese è inesistente, il posto pubblico è inteso come una rendita vitalizia, di conseguenza il sistema paese nel suo complesso (ricerca-innovazione-produzione) perde competitività, accumulando personale inadatto in un ambito, e mancando di personale necessario in un altro.

annalu ha scritto:....Il problema è quindi enorme, e vale in modo differente a livello mondiale ed a livello nazionale: da noi penso ci si dovrebbe augurare una buona ricerca valutabile in tempi brevi, e poi il ricercatore "geniale" troverà il modo di dedicare ritagli di tempo alla ricerca "inutile" che solo lui trova affascinante: se ha ragione ce la farà a fare la sua scoperta.


Pienamente d'accordo che il problema è enorme, e nonostante le molte differenze tra i paesi e i continenti è un problema globale.
Un aspetto importante da affrontare,in particolare per l'Italia, è quello di superare la visione che vede la ricerca fondamentale, la ricerca applicata, l'innovazione come tre ambiti separati. Dobbiamo ragionare guardando ad un sistema integrato dove si produce conoscenza, la si diffonde e trasferisce, la si applica offrendo nuove soluzioni e prodotti alla collettività e al mercato. Può sembrare una trasformazione banale, ma metterla in pratica richiede trasformazioni profonde dal punto di vista culturale, strutturale, normativo, finanziario molto complesse.
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Re: Cosa ci insegna la Storia della Scienza?

Messaggioda pianogrande il 17/01/2014, 11:51

"superare la visione che vede la ricerca fondamentale, la ricerca applicata, l'innovazione come tre ambiti separati. Dobbiamo ragionare guardando ad un sistema integrato dove si produce conoscenza, la si diffonde e trasferisce, la si applica offrendo nuove soluzioni e prodotti alla collettività e al mercato".
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Questo è sicuro.
Chi fa ricerca applicata, se nessuno fa ricerca di base, cosa applica?
E' la visione di medio-lungo termine che manca nel nostro paese fondato sulla frammentazione egoistica e magari anche truffaldina e quindi sul subito.

Al resto chi ci deve pensare?
L'Europa?
L'UNU?
L'alleanza galattica?
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Re: Cosa ci insegna la Storia della Scienza?

Messaggioda trilogy il 17/01/2014, 13:11

pianogrande ha scritto:"superare la visione che vede la ricerca fondamentale, la ricerca applicata, l'innovazione come tre ambiti separati. Dobbiamo ragionare guardando ad un sistema integrato dove si produce conoscenza, la si diffonde e trasferisce, la si applica offrendo nuove soluzioni e prodotti alla collettività e al mercato".
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Questo è sicuro.Chi fa ricerca applicata, se nessuno fa ricerca di base, cosa applica?
E' la visione di medio-lungo termine che manca nel nostro paese fondato sulla frammentazione egoistica e magari anche truffaldina e quindi sul subito.

Al resto chi ci deve pensare?
L'Europa?
L'UNU?
L'alleanza galattica?


d'accordo "questo è sicuro" ma poi è difficile pensare in una logica di sistema. Siamo portati a pensare alla ricerca come un processo lineare: ricerca di base che produce nuove conoscenze, ricerca applicata che prende le nuove conoscenze e le applica per realizzare un qualche "prodotto"; innovazione quando le nuove conoscenze vengono poi adottate e proucono un cambiamento come un nuovo manufatto, un farmaco, un nuovo modo di vedere la realtà che ci circonda.

Nella pratica il processo solo in alcuni casi è lineare. Ad esempio un complesso progetto di ricerca fondamentale può richiedere ricerca applicata e innovazione per produrre un macchinario di supporto per realizzare gli esperimenti o la semplice acquisizione e adattamento di un macchinario utilizzato nell'industria per tutt'altri scopi.

Dal lato opposto le industrie farmaceutiche per individuare nuove molecole vanno a studiare piante che sono utilizzate da secoli da popolazioni indigene. Queste popolazioni hanno osservato che funzionano ma non hanno nessuna idea del meccanismo chimico/biologico attraverso il quale agiscono. Anche noi abbiamo utilizzato per decenni "l'aspirina" senza comprendere chiaramente il meccanismo attraverso il quale riduceva l'infiammazione, avevamo osservato che funzionava. Oppure abbiamo prodotto acciaio tramite particolari forni senza sapere bene quale fosse il meccanismo fisico che produceva quel risultato.
In altri casi, la costruzione di un nuovo macchinario complesso, in cui tutto sembra chiaro, può portare a risultati fallimentari perchè, in realtà, abbiamo dei vuoti nella conoscenza del funzionamento dei materiali in quelle particolari condizioni.
L'Italia tra l'altro è un caso particolare, per certi versi unico, dove si fa innovazione senza ricerca, e ricerca senza innovazione in quanto il legame tra i due sistemi, quello della ricerca e quello della produzione, rimane debole e frammentario.

Chi deve fare la ricerca fondamentale? In generale è una attività tipica da collaborazione internazionale. Alcuni progetti sono ormai talmente costosi, complessi e richiedono competenze multidisciplinari che possono essere portati avanti solo da molti paesi congiuntamente. Questo però significa che per far parte del "club" ogni paese deve investirci, altrimenti si rimane fuori dalla porta. Insomma bisogna investire a livello nazionale ma indirzzando una fetta consistente di queste risorse ad alleanze internazionali. Dato che le risorse sono limitate e non si può fare tutto bisogna anche fare delle scelte di priorità.
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Re: Cosa ci insegna la Storia della Scienza?

Messaggioda pianogrande il 17/01/2014, 15:44

Il discorso non è lineare ma può sempre essere linearizzato a posteriori nel senso di fare la storia di una scoperta o di un prodotto tecnologico (se questo fosse utile a qualcosa)
Un paletto però bisognerebbe pur metterlo in questo discorso così complesso.
Questo paletto potrebbe essere la percentuale di risorse da destinare a ricerca, tecnologia, innovazione.
Questo nell'ambito statale e privato.
Diamo per superato perché forse irrisolvibile il discorso dell'uovo e la gallina e cioè se mettiamo risorse solo in ricerche interessanti o se risultati interessanti vengono fuori solo se mettiamo risorse nella ricerca.
Naturalmente, le risorse vanno gestite al meglio ma bisogna renderle disponibili e questo è un discorso sia culturale che politico.
I soldi che non ci sono sono solo la dimostrazione che la priorità è a livello bassissimo.
L'ultimo esempio che mi viene in mente (da Ballarò) sono i milioni di Euro destinati dal governo Letta al "porto di Molfetta" che forse non serve; almeno non in quella misura.

Se ci mettiamo a fare la lista di questi esempi facciamo notte (o facciamo giorno, dipende dall'orario).
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