Sulla tremenda minaccia dell’inglese all’università

Il PD alla ricerca dell’anima
C’era una volta un paese strano, che si piccava di essere quinta, sesta o settima economia mondiale (sempre più in giù), ma dove i giovani non avevano vita facile. La disoccupazione giovanile sfiorava il 40%, nonostante quasi mezzo milione di giovani nell’ultimo decennio il lavoro fossero andati a cercarselo all’estero e molti altri il lavoro nemmeno lo cercavano, o si trattenevano tra le aule dell’università ben oltre i canonici cinque anni necessari per terminare i corsi.
Tutti parlavano di crescita, investimenti e ripresa. Tutti li volevano, ma non arrivavano. Chi possedeva capitali li portava piano piano all’estero e ben pochi si sognavano di venire a investire qui. Tra i tanti ostacoli agli investimenti, qualcuno faceva notare che forse il divario nella conoscenza dell’inglese rispetto agli altri paesi, da tutti riconosciuto ma trattato con un’inconcepibile autoindulgenza, forse c’entrasse qualcosa. Nell’economia globalizzata e iperconnessa, chi si sarebbe sognato di basare la propria attività in questo paese se nemmeno la forza lavoro più giovane, quella che dovrebbe essere più dinamica e al passo con i tempi, faticava a comunicare con il resto del mondo? Doveva aver pensato così anche il professor Giovanni Azzone, rettore di una rinomata scuola d’ingegneria e architettura, il quale un giorno decise che, nel suo istituto, le lauree specialistiche, età d’ingresso anni 22, sarebbero state esclusivamente in inglese. Una scelta per preparare gli studenti al mondo del lavoro globale e attrarre qualche brillante studente dall’estero, magari un geniale ingegnere indiano o africano che inventerà qualcosa di buono o creerà ricchezza in questo paese.
Insomma, deve aver pensato il rettore, in questo paese lo studio dell’inglese è obbligatorio dalla prima elementare. I ragazzi lo studiano cinque anni alle elementari, tre alle medie e altri cinque alle superiori e lo Stato per tutti questi anni paga docenti per insegnare la lingua. Arrivati a 22 anni, degli aspiranti ingegneri dovrebbero sapere l’inglese necessario per affrontare un corso . Da lì, un’esperienza di studio completamente in inglese è il primo passo per una carriera in un mondo del lavoro che assume tutta un’altra dimensione se l’inglese lo si sa per davvero, un primo passo per uscire dall’incubo del 40% di disoccupazione giovanile. Già sentivo applausi e complimenti per l’innovativo e lungimirante rettore.
Invece no. Colleghi professori in rivolta, e ben 150 di essi adiscono le vie legali. « Decisione sciagurata: insegneremo da handicappati a handicappati » proclama tale prof. Matricciani, insolito Masaniello in questa bizzarra crociata. Parli per sé, verrebbe da dire. Si schierano contro anche altri illustri professoroni, linguisti che prendono fior di soldi pubblici per una fantomatica « salvaguardia della lingua nazionale» e il solito premio Nobel che si sente in diritto di sentenziare su tutto. « Scelta di retroguardia ». « Declino della lingua nazionale ». Come se uno dimenticasse la sua lingua madre dopo qualche corso impartito in lingua inglese.
Circa un anno dopo, con la tradizionale celerità della giustizia in questo paese, arriva la sentenza del tribunale, per la precisione il TAR di Milano: il rettore ha torto! Il testo della sentenza ancora non è stato pubblicato. Da quel che riporta la stampa, le motivazioni della sentenza rasentano la supercazzola, altro patrimonio nazionale questo no, non a rischio. Insegnare unicamente in inglese « incide in modo esorbitante sulla libertà d’insegnamento e sul diritto allo studio » (???). Questi corsi « comprimono in modo non necessario le libertà, costituzionalmente riconosciute, di cui sono portatori tanto i docenti, quanto gli studenti » (ancor più ???). Niente corsi in inglese quindi. Chi se lo può permettere vada a studiare all’estero o in una costosa università privata. Gli altri si godano le libertà e i diritti secondo il TAR di Milano.
Benvenuti in Italia.
http://www.lospaziodellapolitica.com/20 ... niversita/
C’era una volta un paese strano, che si piccava di essere quinta, sesta o settima economia mondiale (sempre più in giù), ma dove i giovani non avevano vita facile. La disoccupazione giovanile sfiorava il 40%, nonostante quasi mezzo milione di giovani nell’ultimo decennio il lavoro fossero andati a cercarselo all’estero e molti altri il lavoro nemmeno lo cercavano, o si trattenevano tra le aule dell’università ben oltre i canonici cinque anni necessari per terminare i corsi.
Tutti parlavano di crescita, investimenti e ripresa. Tutti li volevano, ma non arrivavano. Chi possedeva capitali li portava piano piano all’estero e ben pochi si sognavano di venire a investire qui. Tra i tanti ostacoli agli investimenti, qualcuno faceva notare che forse il divario nella conoscenza dell’inglese rispetto agli altri paesi, da tutti riconosciuto ma trattato con un’inconcepibile autoindulgenza, forse c’entrasse qualcosa. Nell’economia globalizzata e iperconnessa, chi si sarebbe sognato di basare la propria attività in questo paese se nemmeno la forza lavoro più giovane, quella che dovrebbe essere più dinamica e al passo con i tempi, faticava a comunicare con il resto del mondo? Doveva aver pensato così anche il professor Giovanni Azzone, rettore di una rinomata scuola d’ingegneria e architettura, il quale un giorno decise che, nel suo istituto, le lauree specialistiche, età d’ingresso anni 22, sarebbero state esclusivamente in inglese. Una scelta per preparare gli studenti al mondo del lavoro globale e attrarre qualche brillante studente dall’estero, magari un geniale ingegnere indiano o africano che inventerà qualcosa di buono o creerà ricchezza in questo paese.
Insomma, deve aver pensato il rettore, in questo paese lo studio dell’inglese è obbligatorio dalla prima elementare. I ragazzi lo studiano cinque anni alle elementari, tre alle medie e altri cinque alle superiori e lo Stato per tutti questi anni paga docenti per insegnare la lingua. Arrivati a 22 anni, degli aspiranti ingegneri dovrebbero sapere l’inglese necessario per affrontare un corso . Da lì, un’esperienza di studio completamente in inglese è il primo passo per una carriera in un mondo del lavoro che assume tutta un’altra dimensione se l’inglese lo si sa per davvero, un primo passo per uscire dall’incubo del 40% di disoccupazione giovanile. Già sentivo applausi e complimenti per l’innovativo e lungimirante rettore.
Invece no. Colleghi professori in rivolta, e ben 150 di essi adiscono le vie legali. « Decisione sciagurata: insegneremo da handicappati a handicappati » proclama tale prof. Matricciani, insolito Masaniello in questa bizzarra crociata. Parli per sé, verrebbe da dire. Si schierano contro anche altri illustri professoroni, linguisti che prendono fior di soldi pubblici per una fantomatica « salvaguardia della lingua nazionale» e il solito premio Nobel che si sente in diritto di sentenziare su tutto. « Scelta di retroguardia ». « Declino della lingua nazionale ». Come se uno dimenticasse la sua lingua madre dopo qualche corso impartito in lingua inglese.
Circa un anno dopo, con la tradizionale celerità della giustizia in questo paese, arriva la sentenza del tribunale, per la precisione il TAR di Milano: il rettore ha torto! Il testo della sentenza ancora non è stato pubblicato. Da quel che riporta la stampa, le motivazioni della sentenza rasentano la supercazzola, altro patrimonio nazionale questo no, non a rischio. Insegnare unicamente in inglese « incide in modo esorbitante sulla libertà d’insegnamento e sul diritto allo studio » (???). Questi corsi « comprimono in modo non necessario le libertà, costituzionalmente riconosciute, di cui sono portatori tanto i docenti, quanto gli studenti » (ancor più ???). Niente corsi in inglese quindi. Chi se lo può permettere vada a studiare all’estero o in una costosa università privata. Gli altri si godano le libertà e i diritti secondo il TAR di Milano.
Benvenuti in Italia.
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