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Università, tutta Italia contro la 133

Dall'innovazione tecnologica alla ricerca, vogliamo trattare in particolar modo i temi legati all'ambiente ed alla energia, non solo pero' con uno sguardo puramente tecnico ma anche con quello politico, piu' ampio, di respiro strategico

Re: Università, tutta Italia contro la 133

Messaggioda pagheca il 28/10/2008, 13:01

di tutto questo io non sapevo nulla. Forse per non avere letto con attenzione gli articoli precedenti.
E voi? E' vero che ci sono tutti questi concorsi in attesa?
Che ne pensate di tutto questo discorso?

saluti
pagheca

da http://www.corriere.it/editoriali/08_ot ... aabc.shtml.


L’UNIVERSITÀ E IL GOVERNO
La fabbrica dei docenti

di Francesco Giavazzi

La situazione nelle nostre università è paradossale. Studenti e professori protestano contro una riforma che non esiste; il ministro, preoccupato dalle proteste, non si decide a spiegare quel che intende fare per riformare l'università. L'unica certezza è che nei prossimi mesi si svolgeranno nuovi concorsi per 2.000 posti di ricercatore e 4.000 posti di professore ordinario e associato, ai quali seguiranno, entro breve, altri 1.000 posti di ricercatore. In tutto 7.000 posti, più del dieci per cento dei docenti oggi di ruolo.

I 4.000 posti di professore saranno semplicemente promozioni di persone che sono dentro l'università. Le promozioni avverranno secondo le vecchie regole, cioè con concorsi finti. E' assolutamente inutile che un giovane ricercatore che consegue il dottorato a Chicago o a Heidelberg faccia domanda: di ciascun concorso già si conosce il vincitore. I 3.000 concorsi per ricercatore assicureranno un posto a vita ad altrettanti dottorandi che lamentano la loro condizione di precari. In tutte le università del mondo ad un certo punto si ottiene un posto a vita, ma ciò avviene solo dopo aver dimostrato ripetutamente di saper conseguire risultati nella ricerca.

Qui invece si chiede la stabilizzazione per decreto senza neppure che sia necessario aver conseguito il dottorato. Il ministro ha ereditato questi concorsi dal suo predecessore e non pare aver la forza per cambiarli e assegnare i posti secondo criteri di merito piuttosto che di fedeltà. Gli studenti ignorano tutto ciò e sembrano non capire l'importanza di meccanismi di selezione rigorosi, in assenza dei quali le università che frequentano vendono favole. In quanto ai professori, buoni, buoni, zitti, zitti. Se questi concorsi andranno in porto ogni discussione sulla riforma dell'università sarà d'ora in poi vana: per dieci anni non ci sarà più posto per nessuno e ai nostri studenti migliori non rimarrà altra via che l'emigrazione.

La legge finanziaria dispone un taglio ai fondi all'università che è significativo, ma non drammatico: in media il 3% l'anno (1,4 miliardi in 5 anni su una spesa complessiva di circa 10 miliardi l'anno). Si parte da tagli quasi nulli nel 2009, mentre poi le riduzioni diverranno via via crescenti per raggiungere la media del 3% nell' arco di un quinquennio. Il taglio non è terribile, anche considerando che la stessa Conferenza dei rettori ammette che in Italia la spesa per studente è più alta che in Francia e in Gran Bretagna. Comunque reperire risorse è sempre possibile: ad esempio, si potrebbero cancellare le regole sull' età di pensionamento approvate dal governo Prodi, ritornare alla legge Maroni e investire i denari così risparmiati nella ricerca e nell'università. Né mi parrebbe osceno far pagare tasse universitarie più elevate alle famiglie ricche e usare il ricavo in parte per compensare i tagli, in parte per finanziare borse di studio per i più poveri.

Come spiega Roberto Perotti in un libro che chiunque si occupa dell'università dovrebbe leggere («L'università truccata», Einaudi, 2008) tasse uguali per tutti sono un modo per trasferire reddito dai poveri ai ricchi. I dati dell'indagine sulle famiglie della Banca d'Italia, citati da Perotti, mostrano che il 24% degli studenti universitari proviene dal 20% più ricco delle famiglie; solo l'8% proviene dal 20% più povero. Nel Sud la disparità è ancora più ampia: 28% contro 4%. Il ministro Gelmini afferma che il suo modello è Barack Obama: forse il ministro non sa quanto costa a una famiglia americana mandare il figlio in una buona università. In una delle migliori, il Massachusetts Institute of Technology, la frequenza costa 50.100 dollari l'anno (40.000 euro), ma il 64% degli studenti che frequentano il primo livello di laurea riceve una borsa di studio.
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Re: Università, tutta Italia contro la 133

Messaggioda franz il 28/10/2008, 13:25

pagheca ha scritto:di tutto questo io non sapevo nulla.

Vedi, nemmeno io ne sapevo poi tanto ma come altri finisco per occuparmi, in tempi di crisi, di cose che non sapevo.
E questa è una cosa positiva.
Tra le cose lette è che in una decina di anni i prof universitari (e le cattedre) erano aumentati del 56% (a furia di concorsi) ma la mole degli studenti non aveva avuto pari andamento.
In questi giorni ho letto ed imparato molte cose e se tutti lo facessero, l'università andrebbe meglio.
Se nessuno fa niente, se non si tocca il can che dorme, quelli vanno avanti a farsi gli affaracci loro, come a Palermo.
Il lato positivo di tutta questa faccenda è che finalmente gli studenti si sono svegliati dal letargo e che anche il paese inizia a rendersi conto che ci sono problemi, quindi ad interessarsi.
Il lato negativo è che demagogia e disinformazione cavalcano come da sempre ogni protesta ma almeno grazie ad internet esiste la possibilità di informarci rapidamente su tante cose; anche su come funzionano all'estero.
Mi ha colpito ieri scoprire che solo il 60% degli italiani appoggia la scuola pubblica.
Buono il 70% della scuola elementare ma poi tra medie e licei si scende parecchio e per l'università si cala sotto il 50%.
Inoltre il gradimento era calato ovunque dal 2004 ad oggi.

Ciao,
Franz


Da An a Rifondazione e Cgil: l'abitudine di cavalcare i malumori della scuola
La caccia bipartisan ai consensi facili
Destra-sinistra, 9 anni fa l'alleanza contro Berlinguer. E Fini inneggiava alla piazza


Dilaga la rivolta nelle scuole? Tutti voti guadagnati. La battuta non è di Walter Veltroni, Antonio Di Pietro o Paolo Ferrero. La battuta è di Gianfranco Fini. E fu fatta in occasione dell'ultimo grande "incendio" scolastico prima dell'attuale. Quello scoppiato nel 2000 contro la svolta meritocratica tentata da Luigi Berlinguer. Disse proprio così, come ricorda una notizia Ansa, l'allora presidente di Alleanza Nazionale: «Dovrei ringraziare la Bindi e il suo collega Berlinguer, perché da medici e insegnanti verrà un consenso nuovo e fresco al Polo». E non si trattava di una strambata estemporanea. Il giorno in cui i professori ribelli erano calati a Roma «per dire no al concorso per gli aumenti di merito», il primo a portare la sua solidarietà ai manifestanti era stato lui, l'attuale presidente della Camera. Opinione solitaria? Per niente: l'onda dei contestatori, allora, fu cavalcata (fatta eccezione per la Lega, che non aveva ancora ricucito del tutto col Polo e preferì una posizione più defilata) da tutta la destra. Dall'inizio alla fine. Lascia quindi sbalorditi sentire oggi Mariastella Gelmini dire che «il disastro dell'istruzione in Italia è figlio delle logiche culturali della sinistra contro il merito e la competitività », che «per decenni scuola e università sono state usate come distributori di posti di lavoro, di clientele e magari di illusioni » e che la sola sinistra ha la responsabilità d'avere seminato «l'illusione che lo Stato possa provvedere a dare posti fissi in modo indipendente dalla situazione economica e dal debito pubblico».

Sia chiaro: la sinistra e il sindacato hanno responsabilità enormi, nel degrado non solo della scuola e dell'università, ma dell'intera macchina pubblica italiana. Fin dai tempi in cui lo psiuppino Lucio Libertini teorizzava che «l'attivo della bilancia dei pagamenti e la consistenza delle riserve non sono dati positivi in assoluto» e il segretario comunista Luigi Longo tuonava che «non è lecito al governo trincerarsi dietro le difficoltà finanziarie ». La caricatura feticista del garantismo che ha permesso di restare in cattedra a professori che insegnano voltando le spalle agli alunni o sono stati condannati per essersi fregati i soldi delle gite scolastiche è frutto di una deriva sindacalese. E così la nascita delle «scodellatrici » che devono dar da mangiare ai bambini perché «non spetta» alle bidelle. E tante altre cose inaccettabili. Che la situazione sia tutta colpa della sinistra e solo della sinistra, però, è falso. E lo scaricabarile, oltre a essere indecoroso, impedisce a una destra moderna di fare i conti fino in fondo con la storia, con i problemi del Paese e con se stessa. Perché forse è una forzatura polemica quella di Enrico Panini, segretario nazionale Cgil-scuola, quando dice che i precari «erano il serbatoio e lo spasso della Dc».

Ma le sanatorie per i professori non le ha inventate la sinistra: la prima porta la firma di Vittorio Emanuele II nel 1859. «In eccezione alla regola del concorso... ». Hanno radici profonde, i mali della nostra scuola: «Dal 1860 ci sono stati 33 ministri della Pubblica Istruzione, ciascuno desideroso di distinguersi rovesciando l'opera del predecessore. Il danaro è stato lesinato; e lo Stato e i Comuni, prodighi in ogni altra cosa, hanno fatta economia nel più fruttifero degl'investimenti nazionali», scrivevano nel 1901 H. Bolton King e Thomas Okey nel libro L'Italia di oggi. Cosa c'entra la sinistra se perfino Giovanni Gentile, del quale gli stessi antifascisti più antifascisti riconoscono la statura, durò come ministro della Pubblica istruzione solo una ventina di mesi? Se addirittura Benito Mussolini fu costretto a cambiare in quel ruolo più ministri di quanti allenatori abbia cambiato Maurizio Zamparini? Se la Dc per mezzo secolo ha mollato quel ministero-chiave solo rarissime volte e mai a un uomo di sinistra? Se la sanatoria più massiccia fu voluta dalla democristiana Franca Falcucci che nel 1982 propose alle Camere di inquadrare nel ruolo i precari della scuola e a chi le chiese quanto sarebbe costata rispose 31 miliardi e 200 milioni di lire l'anno, cifra che si sarebbe rivelata presto 53 volte più bassa del reale?

La verità è che sulla scuola, il precariato, il mito clientelare del posto pubblico hanno giocato, per motivi di bottega, praticamente tutti. E che l'egualitarismo insensato di un pezzo della sinistra e del sindacato si è saldato nei decenni col sistema clientelare democristiano e socialista, socialdemocratico e liberale e infine cuffariano e destrorso. Fino all'annientamento dell'idea stessa del merito. Annientamento condiviso per quieto vivere da tutti. Trasversalmente. L'ultima dimostrazione, come dicevamo, risale nella scuola a nove anni fa. Quando Luigi Berlinguer riuscì a recuperare 1.200 miliardi di lire per dare aumenti di merito ai professori più bravi: uno su cinque sarebbe stato premiato con 6 milioni lordi l'anno in più in busta paga. Uno su cinque era troppo poco? Può darsi. Dovevano essere definiti meglio i criteri? Può darsi. Il sistema dei quiz non era l'ideale? Può darsi. Ma l'obiettivo del ministro era chiaro: «Va introdotto il concetto di merito. Chi vale di più deve avere di più».

Fu fatto a pezzi. Dai sindacati e dalla "sua" sinistra, per cominciare. Basti ricordare il rifondarolo Giovanni Russo Spena («meglio distribuire i soldi a tutti e concedere a tutti un anno sabbatico a rotazione »), il verde Paolo Cento, la ministra cossuttiana Katia Bellillo («no alla selezione meritocratica dei docenti») o il leader dei Cobas Piero Vernocchi, deciso a far la guerra «contro ogni tipo di gerarchizzazione del sistema scolastico». Ma anche la destra cavalcò le proteste. Alla grande. Francesco Bevilacqua, di An, attaccò al Senato il ministro accusandolo di avere «stabilito per legge che il 20% dei docenti in Italia è bravo e che gli altri lo sono meno o non lo sono affatto ». Il suo camerata Fortunato Aloi sostenne alla Camera che quel «concorsaccio non poteva assolutamente non mortificare coloro i quali operano nel mondo della scuola» i quali avevano «giustamente mobilitato le piazze». Lo Snals, che certo non era un sindacato rosso, fu nettissimo. Punto uno: «Rifiuto di ogni forma di selezione fra gli insegnanti ». Punto due: «Riconoscimento della professionalità di tutti i docenti». E i primi ad appoggiare la lotta, con un documento che intimava al governo di «sospendere immediatamente il concorso», furono l'allora casiniano e oggi berlusconiano Carlo Giovanardi, la responsabile Scuola di An Angela Napoli e la responsabile Scuola di Forza Italia Valentina Aprea. La quale, vinta la battaglia contro il concorso meritocratico per i professori, ne scatenò subito un'altra sui dirigenti scolastici: «Sconfitto sul fronte dei docenti ora Berlinguer vuole prendersi una rivincita con i capi di istituto. I discutibili criteri di valutazione rimangono inalterati, con la conseguenza di creare il battaglione del 20% di super-presidi e conferendo la patente di mediocrità al restante 80%».

Parole inequivocabili. Dove non erano contestate solo le modalità ma l'idea stessa degli aumenti di merito che pure dovrebbe essere cara a chi si proclama liberale. Come sia finita, quella volta, si sa. Luigi Berlinguer fu costretto a rinunciare, dovette mollare la carica di ministro e il suo naufragio è stato la pietra tombale di ogni ipotesi meritocratica. E noi ci ritroviamo, dieci anni dopo, alle prese con gli stessi temi. Aggravati. Vale per la destra, vale per la sinistra. Le quali, come accusa uno studio di «Tuttoscuola » (www.tuttoscuola.com), non si fanno troppi scrupoli di cavalcare ciascuno la propria tigre anche «addomesticando » i numeri. Che senso ha? Come spiega il dossier della rivista di Giovanni Vinciguerra, «al nostro Paese serve un recupero di qualità del confronto politico e sociale in un momento di così profonda crisi del ruolo e della legittimazione sociale del sistema educativo nazionale, non guerre sui dati o sui grembiuli».

Gian Antonio Stella
28 ottobre 2008
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Re: Università, tutta Italia contro la 133

Messaggioda annalu il 31/10/2008, 12:11

Ogni tanto una buona notizia.
La polemica sui baroni e sui concorsi truccati ha cominciato a dare i suoi frutti: il CUN sta iniziando a cercare criteri oggettivi per giudicare l'idoneità dei concorrenti.

Regole con requisiti "minimi" per partecipare ai concorsi mi sembrano un'ovvia necessità, e, meglio tardi che mai, si cominciano a prendere in cosiderazione i dati ISI (Institute for Scientific Information) sull'IF (Impact Factor, fattore d'impatto delle riviste, che ne valuta l'importanza).

Per esempio, ho trovato queste proposte riguardanti il settore scientifico-disciplinare di agraria e veterinaria:

A) Per i ricercatori universitari:
• Almeno 3 anni di attività di ricerca documentata dopo la laurea magistrale
• Autore o co-autore di almeno 5 lavori originali pubblicati su riviste/libri di alto valore scientifico con referaggio, di
cui almeno 2 di rilevanza internazionale.

B) Per i professori associati:
• Autore o co-autore di almeno 20 lavori originali pubblicati su riviste/libri di alto valore scientifico con referaggio, di
cui almeno 10 di rilevanza internazionale
• Almeno 10 di queste pubblicazioni prodotte negli 8 anni precedenti il bando
• primo o ultimo autore in almeno 40% delle 20 pubblicazioni (se ciò ha un significato per il SSD)


C) Per i professori ordinari:
• Autore o co-autore di almeno 30 lavori originali pubblicati su riviste/libri di alto valore scientifico con referaggio, di
cui almeno 15 di rilevanza internazionale
• Almeno 15 di queste pubblicazioni prodotte nei 10 anni precedenti il bando
• primo o ultimo autore in almeno 40% delle 30 pubblicazioni(se ciò ha un significato per il SSD)


Non è il mio settore, per cui non so ben valutare la proposta specifica, ma condivido il principio di base.

Ovvio che possono esistere le eccezioni ed i casi particolari, ma di "geni" che pubblicano poco non ce ne sono molti, e poi sono appunto casi eccezionali, mentre casi di raccomandati non meritevoli sino ad ora erano piuttosto frequenti.

Prevedibile, se la proposta passa, una "rissa" in tutti i laboratori al momento della firma di un lavoro, soprattutto per la posizione del nome tra i firmatari ... ma un primo momento difficile è inevitabile, quando si iniziano a cambiare le cose.

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Chiamatemi Barone

Messaggioda franz il 01/11/2008, 10:49

Chiamatemi Barone. L'ho detto a mia moglie, ieri sera, dopo aver sentito ripetere questa definizione almeno una decina di volte, in tivù, nei salotti dove si discute delle sorti dell'umanità. Da Vespa e da Mentana. Da Floris e da Santoro. Ospiti: la variegata tribù di lotta e di governo, che si affolla intorno e dentro l'Università. Studenti pro e contro, manifestanti di sinistra e di destra, agitatori e agitati, rumoreggianti e silenziosi. Occupanti e occupati. Poi, filo-ministeriali e oppositori democratici. Infine, professori. Pardon: "baroni". Perché ormai è dato per scontato: i professori universitari sono "baroni". Tutti. Reclutati in base a criteri clientelari, attraverso concorsi-truffa, che a loro volta provvedono, puntualmente, a riprodurre. Reclutando, a loro volta, ricercatori e professori in base a logiche di fedeltà. Schiavi e servi della gleba, che, dopo secoli di precarietà, un contratto oggi, una borsa domani, un dottorato e un post-dottorato dopodomani, giungono, alla fine, stremati, all'auspicato posto fisso. Per fare i ricercatori fino a diventare professori. Naturalmente "per anzianità" (così si dice). Senza rispetto per il merito e per la produzione scientifica, didattica e organizzativa. "Baroni", appunto. I veri colpevoli del dissesto dell'Università italiana. Del degrado del sapere nazionale. Dell'ignoranza che regna fra i giovani. E, anzitutto, del disastro finanziario. Del deficit crescente di risorse. Provocato non tanto dai tagli di questo governo e da quelli precedenti, ma da loro (da noi): i baroni. Che prendono lo stipendio senza fare nulla. (Soggiogateli ai tornelli!). Incapaci di gestire le università. Colpevoli della moltiplicazione dei corsi e delle sedi, dovunque. Le università telematiche e quelle tascabili, fuori porta. Che promettono e permettono la conquista del titolo di dottore a tutti. Giornalisti, carabinieri, poliziotti, infermieri. Volontari e involontari. Perfino i politici. Beneficiati da un monte-crediti formativi tale da permettere loro di laurearsi in pochi mesi, con pochi esami. Dottori in Scienze della futilità. Questi "baroni": fannulloni, perfidi e manovratori. Capaci di manipolare gli studenti. Di farli scendere in piazza insieme a loro, per loro, con loro. Invece che "contro" di loro.

Tutti baroni. Tutti. Inutile eccepire ... Inutile osservare che tu, io, lui, noi - alcuni, magari molti - lavoriamo e insegniamo in modo assiduo e regolare, facciamo ricerca, pubblichiamo libri e saggi, perfino su riviste internazionali (un'aggravante: dove troviamo il tempo per fare tutte queste cose? Per scrivere e per studiare? Partecipare a convegni in Italia e addirittura all'estero?). Per sostenere le nostre attività, cerchiamo - e qualche volta troviamo - finanziamenti. Non solo pubblici: perfino privati. Le eccezioni non contano. Sono conferme alla regola. Inutile osservare che se ci fosse un sistema di reclutamento e di valutazione universalista, criteri di finanziamento fondati su parametri "misurabili" di qualità e quantità ... Inutile. Perché tutto ciò non c'è. E se non c'è, inutile prendersela con il legislatore. La colpa è dei "baroni". D'altronde, quanti baroni infiltrati in Parlamento e perfino nel governo... Insomma, è inutile entrare nel merito, precisare. Quando da "professori" si diventa "baroni" le distinzioni cessano di avere rilievo e significato. Suggerirle, evidenziarle: è perfino fastidioso. Perché possiamo differenziare i professori, i quali possono essere bravi, capaci, laboriosi, prestigiosi, oppure fancazzisti, ignoranti peggio degli studenti, arroganti, fannulloni nullafacenti e nullapensanti. Ma i "baroni" no. Perché traducono fenomenicamente una categoria sostanziale: la "baronità". Per cui i baroni sono i signori oscuri di una terra oscura. Avvolta nelle nebbie. Anche la semantica, d'altronde, condanna e stigmatizza la categoria. Ridotta a una variante della "casta". Definizione usata, fino a qualche mese fa, per catalogare (e insultare) i politici. Ora, invece, lo stesso termine è applicato con analogo disprezzo, ai professori dell'università. La casta dei baroni. Titolari di privilegi ereditati ed ereditari. Dotati di un potere arbitrario. Un ceto "nobiliare", appunto.

L'ho rammentato a mia moglie, come scrivevo all'inizio di questa "bussola" un po' scombussolata. Da oggi io sono un Barone. E lei, di conseguenza, una Baronessa. Intanto, i Baronetti - ignari di essere divenuti tali - se ne stavano nelle loro stanze, intenti a studiare.

Chissà che invidia il Presidente del Consiglio. Lui, con i suoi successi, riconosciuti da tutti: soltanto Cavaliere.

(31 ottobre 2008)
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Re: Università, tutta Italia contro la 133

Messaggioda ranvit il 01/11/2008, 11:09

Scusa franz ma chi scrive queste cose?

Ovviamente ha anche ragione, ma non cambia di una virgola le critiche alla categoria in maggioranza composta di "baroni".
E, comunque, quelli che non si comportano e non sono baroni, perchè non denunciano le scorrettezze dei colleghi che lo sono?

Vittorio
Il 60% degli italiani si è fatta infinocchiare votando contro il Referendum che pur tra errori vari proponeva un deciso rinnovamento del Paese...continueremo nella palude delle non decisioni, degli intrallazzi, etc etc.
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Re: Università, tutta Italia contro la 133

Messaggioda annalu il 01/11/2008, 13:59

ranvit ha scritto:Scusa franz ma chi scrive queste cose?

Ovviamente ha anche ragione, ma non cambia di una virgola le critiche alla categoria in maggioranza composta di "baroni".
E, comunque, quelli che non si comportano e non sono baroni, perchè non denunciano le scorrettezze dei colleghi che lo sono?

Vittorio


le scrive il responsabile della rubrica, Ilvo Diamanti,professore ordinario di Scienza Politica nella Facoltà di Sociologia presso l'Università di Urbino.
Ma questi articoli, che vorrebbero essere spiritosi, mi mandano in bestia.
I Baroni universitari si chiamano così almeno dagli anni '60, per cui Diamanti ne è ben al corrente, e non credo se ne sia mai lamentato: i "baroni" tra loro, si chiamano a volte con appellativi anche più forti, per non parlare delle definizioni che talvolta danno delle loro riunioni superriservate, dove capita decidano - o cerchino di decidere - dei concorsi di tutta Italia ... ovviamente solo nei raggruppamenti meglio organizzati.

Quanto poi ai baroni che protestano e denunciano le malefatte dei colleghi, ce ne sono, e li trovi mescolati ai non baroni nelle proteste universitarie.
Dire baroni, all'università, è ormai come dire "professore ordinario", e in sé non ha alcun connotato particolare.
Non è ironizzando su un soprannome che si cambiano le cose, e questi atteggiamenti servono solo a creare confusione. E non mi piace.

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Re: Università, tutta Italia contro la 133

Messaggioda franz il 01/11/2008, 14:18

ranvit ha scritto:Scusa franz ma chi scrive queste cose?

Scusa, nel copia ed incolla è scappato l'autore, che non era nel testo ma nel logo grafico della rubrica.
Trattasi di Ilvo Diamanti, come ha già scritto Annalu.
E devo dire che concordo con lei (e non è una novità o la prima volta).
Diamanti di solito scrive ottime cose.
Questa volta, quasi che avesse un po' di coda di paglia, si è infiammato troppo.

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Re: Università, tutta Italia contro la 133

Messaggioda ambientalistaPD il 03/11/2008, 11:20

io studio all'università di catania è posso dirvi che le strutture che essa ci offre sono ben misera cosa. mancanza di aule, pochi professori, aule sopraffollate, mancanza di sedie, assenza di lavagne luminose e proiettori, mancanza di laboratori.
per me tutto questo è avvilente. io nonostante tutto non ho partecipato alle manifestazioni. per tutta una serie di motivazioni che non sto qui ad elencare. premesso che i tagli indiscriminati non portano a nulla bisogna pure dire che di sprechi l'università siciliana ne conta molti. io cerco di restare nel mio piccolo così rischio di dire meno cavolte possibile.
quando penso all'università siciliana mi viene da pensare all'università sotto casa, quasi come se si trattasse di un panificio o di un supermercato. in sicilia saspete quante università ci sono?? abbiamo 3 grandi poli universitari, palermo, catania e messina. ma non finisce certo qua!! palermo ha sedi distaccate e facoltà territoriali a trapani, agrigento, caltanissetta. catania ha sedi e facoltà territoriali a enna, ragusa, siracusa, gela. e questi sono solo i casi di cui io sono a conoscenza e ce ne sono sicuramente altri. abbiamo anche università private in abbondanza a enna e caltanisetta con addirittura un corso di laurea in relazioni pubbliche (forse ce ne sono altri due in italia di cui uno a milano).
e tutto questo non crea sprechi?? affitto o gestione di strutture, professori, segreterie, personale di segreteria e tutto il resto che serve per fare andare avanti tutte queste sedi distaccate non sottraggono mezzi e risorse ai poli principali??
la clase plitica siciliana e nazionale ha proceduto in una politica di moltiplicazione delle sedi e delle poltrone che ha portato ad avere una università fatiscente e sprecona e anche per questo non sono sceso in piazza.
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Tagli di spesa e finti concorsi/ la ricerca soffoca i talent

Messaggioda franz il 12/11/2008, 11:47

Tagli di spesa e finti concorsi
così la ricerca soffoca i talenti
di ETTORE LIVINI

L'ITALIA del tappo generazionale, il paese "bloccato" che guarda con nostalgia al suo passato più che scommettere sul suo futuro ha uno specchio straordinario che riflette in modo cristallino tutte le sue debolezze strutturali: i suoi investimenti nella ricerca. La fuga di cervelli dal Belpaese è solo la punta dell'iceberg.

La nostra università sono (malgrado tutto) una miniera d'oro di talenti - come dimostrano i loro successi appena mettono il naso oltrefrontiera - frustrati da un sistema imballato, incapace di valorizzarli. Prendiamo Pier Francesco Ferrari, 39 anni, una moglie e tre figli. Fosse un talento (presunto) del calcio come Ricardo Quaresma, potrebbe guadagnare 1.600 euro ogni 2 ore di lavoro, lo stipendio che l'Inter paga al suo talentuoso e deludente centrocampista. Capisse di finanza, magari quei 1.600 euro se li metterebbe in tasca ogni mezz'ora, com'è successo nel 2007 al numero uno di Unicredit Alessandro Profumo. Lui invece quella cifra se la suda in un mese ("Lavoro dalle 8.30 di mattina alle 19.30 di sera - precisa - più qualche ora al computer la sera, dopo aver messo a letto i ragazzi"). Avendo un curriculum vitae che recita: neuroscienziato ed etologo al dipartimento di biologia evolutiva dell'Università di Parma, tra i massimi esperti mondiali negli studi sui neuroni specchio, 18 mesi di dottorato alla Tufts University di Boston, un anno a Washington a un progetto finanziato dal National Institute of Health a Washington ("che nostalgia, mi pagavano 100mila dollari l'anno..."), ricerche pubblicate sulle riviste più prestigiose del globo, Science compresa.

Ferrari - nota bene - non si lamenta dei soldi. "In fondo - dice il ricercatore parmigiano - mi sveglio ogni mattina pensando che mi pagano per fare quello che ho sempre sognato". Il suo cruccio è che le notti al computer, i fine settimana passati a studiare come i neuroni dei cervelli delle scimmie reagiscono ai movimenti altrui difficilmente gli regaleranno qualcosa di più di una soddisfazione personale. "Non è nemmeno una questione di baronie - dice - Anzi. Qui a Parma i nostri laboratori accademici sono punte di eccellenza". Il problema - spiega - è che "l'Università non è in grado di giudicarmi". Non contano le pubblicazioni internazionali e i dottorati: "Il sistema come tutto il paese è autoreferenziale, sceglie le sue eccellenze con concorsi truccati, in un meccanismo perverso in cui un ateneo non ha alcun interesse ad assumere una persona capace piuttosto che un incompetente".

Il paradosso di quest'Italia ingessata è che l'incapacità di valorizzare il suo patrimonio di ricerca ha come conseguenza diretta lo svilimento del settore. Il Belpaese è la Cenerentola continentale per investimenti, spende per costruire il suo futuro solo l'1,1% del Pil contro il 2,5% della media Ocse. E se deve tagliare un po' di spese, come capita con questi chiari di luna, non si fa troppi scrupoli: "Io sono davvero preoccupato - dice Umberto Veronesi, numero uno dell'Istituto Europeo di Oncologia - In teoria proprio in una situazione economica come questa si dovrebbero stanziare più soldi per l'innovazione. E invece so già che finirà per essere punita la ricerca, la più facile da tagliare".

Preferiamo, come capita ai paesi vecchi e vuoti di speranza, ipotecare il nostro domani per risparmiare due lire oggi: tra il 1990 e il 2005 gli investimenti complessivi pubblici-privati in ricerca e sviluppo (R&S) sono cresciuti da 8,8 a 15,6 miliardi ma il rialzo, depurato dell'inflazione, è stato un modesto 4%. Non solo. Mentre il nostro paese cammina, il resto del mondo corre. Fatti 100 gli stanziamenti del 1990, noi siamo arrivati con il fiatone 15 anni dopo a quota 104 mentre Francia (121), Germania (138) e soprattutto Spagna (217) hanno dimostrato di credere molto di più nel futuro.

Il materiale umano per competere - come dimostra il caso di Ferrari - non manca. L'Italia malgrado il tasso basso di scolarità - 12,2% di laureati, la metà di Francia e Spagna - e i pochi soldi investiti nell'istruzione, riesce lo stesso a formare una comunità scientifica di qualità. "Dalle nostre università escono ricercatori bravi e preparati - conferma il fisico Luciano Maiani, fresco presidente del Cnr - Il problema però è che noi non riusciamo a tenerli in patria. Intendiamoci, l'esperienza all'estero è utile. Ma il canale del reclutamento dovrebbe essere sempre aperto, selettivo ma costante, senza blocchi delle assunzioni. Se no si uccidono le speranze delle nuove generazioni".

La cartina di tornasole - un po' agrodolce - della qualità dei ricercatori italiani e delle opportunità perse da un paese che non riesce a trattenerli sono i risultati del primo bando di stanziamento fondi (300 milioni) del Consiglio Europeo delle ricerche, il più innovativo sistema di finanziamento Ue che in pochi anni distribuirà la bellezza di 7,5 miliardi. L'Italia è stata prima per numero di richieste (il 19,2% del totale) - segno di una comunità scientifica numerosa ma che fatica a trovare soldi in patria - e seconda per numero di vincitori. Peccato che su 58 dei premiati tricolori, ben 18 abbiano deciso di esportare in strutture straniere il loro know-how. Mentre solo quattro "Archimedi" (un inglese, due polacchi e un norvegese) hanno scelto di espatriare nello stivale, contro i 58 che hanno deciso di trasferirsi a Londra.

Manca il salto di qualità. Lo Stato mette pochi soldi per la ricerca e molti di quei pochi li spende male. I privati, anche per le peculiarità del nostro sistema imprenditoriale fatto di imprese medio-piccole, investono molto meno dei loro concorrenti europei. Gli stanziamenti pubblici, secondo i dati della Fondazione Cotec, sono fermi al livello del '90 (lo 0,52% del Pil contro lo 0,77% della Francia e lo 0,76% della Germania) con un preoccupante decremento negli ultimi quattro anni. Il gap è ancora più evidente sul fronte degli investimenti privati. Le imprese del Belpaese garantiscono poco più della metà dei soldi a disposizione della ricerca in Italia, una montagnetta di denari che - ed è uno dei pochi segnali positivi del settore - tende negli ultimi anni a crescere (+6% tra 2003 e 2005). In valore assoluto, però, rimaniamo la cenerentola d'Europa: i fondi garantiti dalle imprese all'innovazione sono pari allo 0,55% del Pil, contro il 2,54% del Giappone, l'1,83% della Germania e persino lo 0,6% della Spagna. La morale è semplice: ricerca e sviluppo - in teoria uno dei volani in grado di far ripartire il paese e aiutare a ricostruire la sua classe dirigente - non decollano. E la fabbrica dei talenti funziona solo in base a una sorta di volontariato come nel caso di Ferrari, o grazie a una sorta di fai-da-te per raccogliere i capitali necessari a tirare avanti.

"Io dico che bisogna lo stesso essere ottimisti - dice Maiani - Le risorse dello stato sono sempre meno, ma il Cnr, ad esempio, ha imparato negli ultimi cinque anni dopo la Riforma Moratti a conquistarsi i suoi fondi sul mercato. Oggi il ministero garantisce solo il 50% delle nostre entrate (in totale poco più di un miliardo nel 2007, ndr.) e il resto siamo riusciti a procurarcelo altrove". In parte dalla Ue, in parte dalle Regioni, con una parte importante dovuta alle imprese.

"Unioncamere e Confindustria sono nel nostro cda - conferma il numero uno del Cnr - Sono convinto che creeremo un rapporto virtuoso e spero di riuscire anche a far nascere dal Centro nazionale delle ricerche nuove aziende innovative in grado di muoversi con le loro gambe". Resta il problema di finanziare la ricerca "fondamentale", quella svincolata da immediati ritorni economici e da interessi aziendali. "In effetti le risorse per questo lavoro sono pochissime. Mi basterebbero un centinaio di milioni, più o meno quanto ne perdeva in un paio di mesi Alitalia", conclude Maiani. La compagnia di bandiera pare - scioperi permettendo - che si sia salvata a suon di contributi pubblici (lo stato alla fine pagherà a piè di lista qualche miliardo di euro). Per sbloccare la ricerca di casa nostra, invece, e regalare un po' di speranza ai tanti Ferrari tricolori non sembra al momento esserci alcuna Cai in vista.

(12 novembre 2008)
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Re: Università, tutta Italia contro la 133

Messaggioda pagheca il 12/11/2008, 13:40

la situazione e' quella che e', tuttavia starei attento a dare per scontate testimonianze come quella di Ferrari. Non perche' ce l'abbia in particolare con questo Ferrari (non so proprio chi sia), ma perche' in passato mi e' capitato di trovare un caso che ho conosciuto molto bene personalmente, che veniva presentato dalla stampa come una povera vittima del baronato in Italia. In realta' si trattava della moglie di un professore, che aveva costruito una carriera sul niente, facendo a pezzi decine di persone che, come me, hanno poi dovuto o cambiare mestiere o andare all'estero, e firmando pubblicazioni del marito fino a vincere un posto da ricercatore nell'istituto del marito (adesso sta per diventare professore associato).

Preciso che non ho nulla contro questo Ferrari che naturalmente non conosco (mi occupo di altro) e che da cio' che e' riportato sembra un ottimo ricercatore. Pero' mi chiedo perche' costui, come tutti d'altra parte, se ha da lamentarsi per la qualita' dei finanziamenti, non si sposti da qualche altra parte.

Non sono nemmeno d'accordo con Luciano Maiani (che e' stato mio professore di Fisica Teorica e di cui ho la massima stima come persona, come docente e come teorico) quando dice che "Il problema però è che noi non riusciamo a tenerli [i nostri bravi ricercatori] in patria. Intendiamoci, l'esperienza all'estero è utile. Ma il canale del reclutamento dovrebbe essere sempre aperto, selettivo ma costante, senza blocchi delle assunzioni. Se no si uccidono le speranze delle nuove generazioni"."

Cioe': la priorita' qui non e' la sopravvivenza dei "nostri" ricercatori, ma del nostro Paese. Per questo, secondo me i canali devono essere aperti ai bravi ricercatori tout-court, e non ai bravi ricercatori italiani, esattamente come succede ovunque. Non possono e non devono esistere aree protette per i "nostri" ricercatori, esattamente come non esistono, che mi risulti, per i nostri bravi pizzaioli o architetti (due categorie prese non a caso, visto che anche qui siamo "esportatori" di talenti). Leggi come quella sul rientro dei cervelli sono profondamente ingiuste e classiste, perche' danno per scontato che un bravo laureato debba disporre di meccanismi protezionistici che non sono accessibili ad altre categorie di lavoratori.

Sono invece d'accordo sul fatto che scelte come blocchi delle assunzioni, o generalizzati dei finanziamenti, sono sciagurati e stanno portando alla rovina il paese. Anche qui in UK ci saranno tagli alla ricerca, che si tradurranno in tagli nelle assunzioni, nei contratti, etc., ma in maniera selettiva, a seconda di quali sono le performance dei vari instituti, i loro risultati e le loro proposte. La differenza e' tutta qui. Il problema non e' il taglio, che e' lecito in momenti di crisi economica o laddove si individuino sprechi, ma il dove e come tagliare (non sto dicendo che sia questo il momento di tagliare in modo generalizzato, ma che tagli ad alcuni istituti non sono sbagliati per principio). Licenziare indiscriminatamente il personale con contratti a termine (mi rifiuto di usare il termine precario) e' una manovra sciagurata! Le universita', i centri di ricerca, devono essere messi in condizione di operare le proprie assunzioni indipendentemente, decidendo di quali ricercatori ha bisogno, e quanto a lungo, indicando nelle proprie proposte di ricerca quali sono le risorse umane necessarie assieme all'hardware. Le proposte verranno poi giudicate anche in base a questo. Il salto a ricercatore, o ad accademico, e' poi naturale se una persona dimostra per un tempo lungo di essere in grado di sostenere una qualita' elevata. Ma anche qui, dev'essere l'universita' a decidere di cosa ha bisogno. Saranno affari suoi se ha puntato su una quantita' di accademici eccessiva rispetto all'entita' delle risorse o alla qualita dei servizi didattici forniti.

Ricordo comunque che l'eta' tipica per essere assunti stabilmente in un paese come UK, tanto preso ad esempio, e' superiore nella mia esperienza a 35-40 anni, arrivando a 50 in alcuni casi. Non sto dicendo che questa sia la scelta giusta, ma che bisogna smettere di pensare che in UK e in USA, diversamente che in Italia, tutti vengano assunti in pianta stabile a 25 anni.

saluti
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