Nel dibattito sui rischi e benefici del nucleare si torna a parlare dell'utilizzo di un combustibile meno pericoloso già studiato dal fisico italiano Carlo Rubbia
Come avvenne nel dopo Chernobyl, 25 anni fa, l'incidente di Fukushima ha imposto un momento di riflessione sui rischi e sui benefici e soprattutto sulla sicurezza del nucleare. Perciò nelle ultime settimane anche in Europa si è tornati a parlare di un approccio alternativo per la produzione di energia da fissione nucleare: l'uso del torio, un combustibile abbondante sul nostro pianeta (almeno tre volte più dell'uranio), che non richiede costosi processi di arricchimento prima di essere utilizzato nei reattori e che genera energia con efficienza di gran lunga superiore a quella dei combustibili attualmente usati. Inoltre i reattori alimentati a torio producono scorie meno pericolose di quelli all'uranio, residui che perdono gran parte della loro radiotossicità nell'arco di centinaia e non di migliaia di anni. E non fanno gola a terroristi o altri malintenzionati perché non generano plutonio utilizzabile a scopi militari. Infine, un modello di reattore al torio, quello progettato dal fisico italiano Carlo Rubbia, garantirebbe assoluta sicurezza anche in condizioni estreme come quelle che hanno provocato il recente disastro giapponese. Allora per quale ragione oggi tutti i reattori del mondo, fatta eccezione per pochi impianti sperimentali, consumano uranio e plutonio invece che torio?
«L'utilizzo del torio comporta alcune complicazioni a livello tecnologico, perché questo materiale non è un combustibile nucleare nel senso stretto del termine», spiega Emilio Santoro, fisico dell'ENEA, l'agenzia italiana per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile. Santoro è direttore del reattore sperimentale Triga, operativo al centro ricerche della Casaccia, alle porte di Roma. «Se colpito da un neutrone, un atomo di torio non si spezza liberando altri neutroni, come fanno l'uranio-235 o il plutonio-239. Non è un materiale fissile. È invece un materiale fertile, cioè quando viene colpito da un neutrone si trasforma, con alcuni passaggi intermedi, in un atomo di uranio-233. L'uranio-233 è l'isotopo fissile che produce energia nei reattori a torio. Ciò significa che la reazione di fissione deve essere accesa e alimentata da un flusso continuo di neutroni in grado di trasmutare il torio».
Serve anche un acceleratore
Due sono i sistemi studiati per fornire i neutroni necessari. Uno, oggetto di sperimentazione da decenni in diversi Paesi, consiste nel mescolare al torio piccole quantità di uranio o plutonio a elevato arricchimento che fungano da innesco. La seconda soluzione, ideata dal premio Nobel Carlo Rubbia, prevede l'utilizzo di un acceleratore di particelle da accoppiare al reattore. «L'acceleratore genera un fascio di protoni che colpiscono un bersaglio di piombo posto all'interno del reattore», spiega Santoro. «Per ciascun protone che lo colpisce, il piombo libera una ventina di neutroni che vanno a loro volta a colpire il torio e danno il via alla reazione. Il vantaggio di quest'approccio è la sicurezza intrinseca del sistema: nel momento in cui si spegne l'acceleratore, si disattiva anche il reattore». Ma non solo. «La macchina progettata da Carlo Rubbia può essere utilizzata anche come inceneritore di scorie radioattive», aggiunge Santoro. «Mescolando al suo combustibile plutonio e altri attinidi minori, ossia scorie a elevata radiotossicità provenienti dai reattori convenzionali, il reattore le brucerebbe, sfruttando al massimo la loro capacità di produrre energia e abbattendo la loro pericolosità».
Quello di Rubbia costava troppo
Intorno al 2000, Carlo Rubbia, allora presidente dell'ENEA, avviò la realizzazione pratica del proprio progetto utilizzando il reattore Triga. «L'esperimento prevedeva la costruzione di un acceleratore a elevata luminosità da accoppiare al reattore per dimostrare la fattibilità di quest'approccio», racconta il fisico. «Però la macchina era troppo costosa e il progetto fu arrestato nel 2004, ancora prima di entrare nel vivo, per ragioni di bilancio».
Il costo dell'impresa ha impedito finora la costruzione del reattore al torio di Rubbia. Il progetto è stato rilevato da un'azienda norvegese, la Aker Solutions, che sta valutando l'opportunità di realizzarlo. «Forse i tragici eventi di Fukushima spingeranno finalmente gli investitori pubblici o privati a impegnare fondi nella sperimentazione dell'Accelerator Driven Reactor, la macchina ideata da Rubbia», commenta Giuseppe Forasassi, ingegnere dell'Università di Pisa e presidente del Consorzio Interuniversitario per la Ricerca Tecnologica Nucleare. «Finora non è stato così perché, a fronte di costi più elevati, il suo unico vantaggio rispetto agli altri reattori al torio è la sicurezza. Non garantisce un maggiore ritorno economico, che è ciò che interessa agli investitori».
L'uranio è stato preferito
Al contrario, non è mai cessato del tutto l'interesse per lo sviluppo di reattori al torio con innesco di uranio o plutonio. «Fino agli anni Settanta, gli Stati Uniti e il Canada ne sperimentarono diversi modelli», spiega Forasassi. «Poi prevalse sul mercato la filiera dell'uranio. Le ragioni sono di tipo storico contingente: i reattori a uranio producono plutonio utilizzabile a scopi militari e per questo sono stati favoriti in passato dai governi delle potenze nucleari. Però il torio non è stato del tutto abbandonato e oggi sta incontrando una nuova ondata di interesse».
India e Cina ci provano
Il Canada, che possiede vasti giacimenti del combustibile, sta portando avanti alcuni progetti di ricerca. «Ma da alcuni anni a questa parte è soprattutto l'India a investire denaro e risorse nello sviluppo di queste tecnologie», prosegue l'ingegnere. «L'India, potenza economica emergente e affamata di energia, è anche uno dei Paesi che possiedono le maggiori riserve mondiali di torio. Non c'è da stupirsi se vogliono metterle a frutto e al tempo stesso esplorare approcci più efficienti al nucleare». Di recente, poche settimane prima del disastro di Fukushima, anche l'Accademia delle Scienze Cinese ha annunciato l'intenzione di dare il via a un vasto progetto di ricerca mirato proprio allo sfruttamento del torio come combustibile nucleare.
«In questo periodo si parla molto di torio a causa di quello che è accaduto in Giappone, ma l'interesse per quest'approccio non è una moda passeggera», commenta Forasassi. «Io sono convinto che il nucleare al torio si svilupperà parallelamente al progredire della filiera dell'uranio e, superati gli ultimi ostacoli tecnici, tra 20-30 anni avremo nel mondo reattori al torio che affiancheranno quelli di quarta generazione all'uranio. Forse il modello proposto da Carlo Rubbia servirà, grazie alla sua intrinseca sicurezza, a tranquillizzare l'opinione pubblica sulla possibilità di realizzare la fissione nucleare sicura».
Articolo di Cristina Valsecchi
http://www.cdt.ch
NUMERO ATOMICO 90
IL TORIO: CHE COS'È E COME FUNZIONA
Scoperto nel 1828 e battezzato in onore del dio del tuono scandinavo Thor, il torio è un metallo blandamente radioattivo di colore bianco argenteo. Ha numero atomico 90: il suo atomo contiene 90 protoni e 90 elettroni. In natura è presente quasi al 100 per cento in forma di torio-232, l'isotopo il cui nucleo contiene 142 neutroni oltre ai 90 protoni.
Se colpito da un neutrone veloce, il torio lo assorbe e si trasforma dapprima in torio-233, per poi decadere in protoattinio-233 e infine in uranio 233. La fissione dell'uranio-233 è molto più efficiente di quella dell'uranio-235 comunemente utilizzato nei reattori: si calcola che, a parità di quantità di combustibile, una centrale a torio produrrebbe in media 250 volte l'energia di una centrale convenzionale.
Si stima che le scorte di torio presenti sul nostro pianeta siano almeno tre volte più abbondanti di quelle di uranio. Inoltre l'uranio utilizzato nei reattori come combustibile fissile è appena lo 0,7 per cento di quello estratto, mentre il torio non richiede processi di arricchimento ed è utilizzabile al 100 per cento. I Paesi che possiedono le maggiori riserve di torio sono Stati Uniti, Australia, Brasile, Canada e India.