Il nuovo pericolo viene
dai troppi debiti dei privati
Nel 2007, alla vigilia della crisi bancaria globale che ha provocato la recessione delle economie sviluppate, il debito del settore privato (imprese e famiglie) era arrivato a livelli altissimi proprio nei Paesi che anche l’Italia aveva preso a modello: gli Stati Uniti, il Regno Unito, l’Irlanda e la Spagna. Come si vede dal grafico [*], in questi quattro Paesi il debito privato era pari rispettivamente al 176, al 198, al 168 e al 155% del prodotto interno lordo di ciascuno. Ora Merrill Lynch, una banca d’investimento americana che è stata tra le principali levatrici della debt economy e che oggi assume, con dichiarato ottimismo, come del tutto efficaci le terapie dei governi, prevede una riduzione del 23% del rapporto debito- pil in questi paesi. Per l’Italia, dove si stava su un comodo 74%, immagina una riduzione che sarà solo del 7%. D’altra parte, questo è accaduto nei paesi scandinavi dopo le loro crisi bancarie. Conservare inalterato il livello dei prestiti alle imprese e alle famiglie, come promettono i governi, compreso quello italiano, appare più una dichiarazione propagandistica che un obiettivo reale. Del resto, questa crisi ha fatto emergere quanto sia insidioso il pericolo del debito privato quando questo superi certi limiti e deragli dai tradizionali obiettivi d’investimento per andare al mero sostegno dei consumi o della speculazione finanziaria. Dagli anni Ottanta in qua, la cultura economica dominante, di matrice reaganian-thatcheriana, ha indicato nel debito pubblico lo spauracchio dei governi.
Anche l’Europa dell’economia sociale di mercato è stata costruita sul vincolo di un debito pubblico basso, pari al 60% del prodotto interno lordo. Alla base di questa scelta c’è un’antica e serissima preoccupazione, particolarmente forte nella Germania memore della sua tragedia degli anni Venti quando la svalutazione radicale della moneta portò a tensioni sociali fortissime e quindi alla dittatura nazista: troppo debito infatti porta all’iperinflazione. Ma accanto a questo pensiero profondo ne è fiorito anche uno piùmodesto: l’idea che, nel fare debiti, i soggetti privati siano per definizione più seri dei soggetti pubblici. I governanti, si argomenta, hanno l’obiettivo di vincere le elezioni ogni 4-5 anni e dunque vanno soggetti alla tentazione di comprare consenso aumentando la spesa pubblica, ma non le tasse, con l’effetto di aumentare poi il debito pubblico e ingessare così la politica del governo. I soggetti privati, invece, sarebbero più lungimiranti (i genitori pensano ai figli, le imprese vorrebbero durare sempre) e assennati (rispondono in proprio dei debiti). La realtà del capitalismo finanziario deregolato — negli anni Duemila come negli anni Venti del Novecento —si è incaricata di dimostrare che, nell’incrocio delle proprie relazioni, i soggetti privati non sono sempre e per definizione più razionali, lungimiranti e responsabili di quelli pubblici. Adesso, gli Usa e il resto del mondo aumenteranno la spesa pubblica per impedire il fallimento delle banche e delle grandi imprese e per sostenere le fasce più deboli della popolazione, che poi era lo scopo del welfare state un tempo principalmente finanziato dalla mano pubblica e poi, in larga misura, privatizzato o azzerato. Ma dopo? La disciplina della finanza pubblica resta un caposaldo delle democrazie ordinate. Dunque, per Barack Obama come per gli altri leader ci sarà anche il problema di come coniugare, esaurita l’illusione dei tagli fiscali di Bush, la riforma di fisco, previdenza e assistenza sanitaria per riportare a livelli prudenti il debito pubblico. Basti pensare che a dicembre il Congressional Budget Office ha avvertito che, a legislazione costante, la sola spesa sanitaria, per metà a carico dello Stato e per metà dei privati, è destinata a salire dall’attuale 16% del Pil al 25% nel 2025. Come per l’Italia, anche per l’America di Obama non basterà affidarsi alla mera ripresa del Pil.
M.Mucch.
17 gennaio 2009
www.corriere.it
[*] Il grafico citato non è presente nella pagina in cui è riportato l'articolo
http://www.corriere.it/economia/09_genn ... aabc.shtml