http://temi.repubblica.it/limes/allital ... rook/67534
All'Italia serve una politica industriale per non fare la fine dei Buddenbrook
di Alessandro Pansa*
Un estratto da Quel che resta dell'Italia,
il numero di Limes sulle crisi del nostro paese.
L'Italia si trova in una crisi strutturale più grave di quella che viene descritta e il suo settore industriale non fa eccezione.
Negli ultimi dieci anni il totale dei posti di lavoro disponibili nell’industria è calato del 15% e la quantità di beni ad alto valore aggiunto prodotti nel nostro paese è precipitata del 30% rispetto al 2000.
Il gap tecnologico tra noi e i paesi emergenti (ossia il tempo necessario a questi ultimi a costruire una tecnologia simile alla nostra a parità di investimenti sul pil) è calato drammaticamente. Alcune ricerche hanno calcolato che nel 2004 la distanza tra l’Unione Europea e un gruppo di paesi emergenti (i Brics, la Turchia e altri simili) era attorno ai 13-14 anni; oggi in media è pari a 10 anni, ma questo valore sale a 12 per la Germania e scende a 8 per l’Italia. Negli ultimi due decenni il commercio mondiale è cresciuto di circa il 5% all’anno, mentre la quota dell’Italia è scesa dal 5 a meno del 4%.
Resistiamo ancora per due motivi: abbiamo una buona integrazione tra l’industria e un artigianato di qualità (per esempio le navi da crociera italiane sono molto più belle, raffinate e apprezzate di quelle dei concorrenti stranieri)** e possiamo contare su marchi affermati in alcuni settori. Abbiamo ancora una struttura industriale intermedia degna di tal nome, ma quanto durerà? E quanto valore aggiunto siamo in grado di tirare fuori?
A differenza degli altri principali paesi europei, oggi disponiamo di pochi grandi asset industriali con una limitata capacità di proiezione internazionale. In effetti, ci mancano gli elementi necessari all’elaborazione di una politica industriale di lungo periodo: abbiamo regole, fondi e imprese in misura inadeguata.
Altrove non è così. La Francia ha puntato sull’alta tecnologia, la Germania sì è concentrata sui processi oltre che sui prodotti e ha vinto la sfida della resilienza della sua poderosa struttura industriale. Persino il Regno Unito ha sviluppato alla sua maniera una politica industriale, puntando sul dominio della finanza e sulle sue attività ancillari (consulenze legali, societarie, manageriali eccetera). Londra non è un paradiso fiscale, al contrario: è una piazza che lascia ampia libertà ma all’interno di regole precise e di una struttura definita e organizzata. Per questo è in grado di attrarre fondi: i capitali mondiali «puliti» non cercano opacità ma chiarezza, trasparenza e un quadro normativo stabile.
L’Italia invece ha sviluppato - forse non del tutto consapevolmente, ma di sicuro molto attivamente - un processo di deindustrializzazione e disinvestimento, ostacolando ripetutamente la creazione di grandi imprese in settori strategici. Gli esempi eclatanti non mancano: dall’agro-alimentare (Sme) alle telecomunicazioni (la mancata fusione tra Telettra e Italtel), dall’elettronica (il caso Olivetti-Bull) fino al settore farmaceutico, dove le varie imprese, invece di unirsi e creare un campione nazionale, hanno continuato a operare in solitudine finendo per essere comprate da multinazionali straniere o ridotte all’irrilevanza dalla concorrenza estera.
* L'autore è professore di Finanza all’Università Luiss di Roma.
(9/12/2014)
** Ma colano a picco! ndr