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Spending review è un flop: spesa salita 25 miliardi

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Spending review è un flop: spesa salita 25 miliardi

Messaggioda franz il 22/07/2014, 21:26

di: WSI | Pubblicato il 21 luglio 2014| Ora 11:37
Malgrado aumento entrate, i tagli di Monti, Letta e Renzi sono risultati un enorme bluff. Nessuna riduzione tangibile al bilancio.
La spesa dello Stato è aumentata di 25 miliardi nei primi 5 mesi del 2014.

La spesa dello Stato è aumentata di 25 miliardi nei primi 5 mesi del 2014.
ROMA (WSI) - Pochi tagli alla spesa pubblica, al contrario la spesa dello Stato e' aumentata di 25 miliardi nei primi 5 mesi del 2014. Lo sostiene Unimpresa, che ha reso noti i principali risultati di un'analisi condotta dal proprio centro studi. Secondo Unimpresa le uscite dello Stato sono in costante aumento: tra il 2012 e il 2013 sono cresciute di 38 miliardi.

Secondo l'associazione, che definisce "un bluff" la spending review del governo, "non c'e' stato nessun taglio tangibile al bilancio statale. Anzi, la macchina pubblica costa sempre di piu'. La spesa dello Stato nei primi 5 mesi del 2014, e' aumentata di quasi 25 miliardi di euro rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente con una crescita in termini percentuali pari al 13,63%.

Nello stesso arco temporale, le entrate dello Stato sono cresciute di 248 milioni in salita dello 0,16%. Un trend in atto da tempo: tra il 2012 e il 2013 le uscite dello Stato sono aumentate di 38,5 miliardi (+7,56%) nonostante le entrate siano salite di 11,8 miliardi (+2,61%)".

Secondo l'ufficio studi di Unimpresa, tra gennaio e maggio di quest'anno, i pagamenti dello Stato - vale a dire spese correnti e spese in conto capitale, voci in cui non sono ricomprese le uscite degli enti territoriali (comuni, province, regioni) ne' quelle per interessi sul servizio del debito - "hanno toccato quota 206,7 miliardi di euro; nei primi 5 mesi del 2013 l'asticella si era fermata a 181,9 miliardi. Di qui l'aumento di 24,7 miliardi di euro (+13,63%).

Quanto al gettito, il bilancio statale ha registrato, nel 2014 (gennaio-maggio), entrate complessive per 157,8 miliardi; tra gennaio e maggio del 2013 gli incassi di bilancio erano stati pari a 157,6 miliardi: l'incremento e' dunque di 248 milioni (+0,16%)"

"Tra il 2012 e il 2013 era stata gia' registrata una analoga situazione - sottolinea ancora Unimpresa - l'anno scorso le uscite complessive dalle casse dello Stato sono state pari a 548,6 miliardi di euro, ben 38,5 miliardi in piu' (+7,56%) rispetto ai 510,09 miliardi totali del 2012.

Nel 2013 le entrate tributarie sono state pari a 464,8 miliardi, in salita di 11,8 miliardi (+2,64%) rispetto ai 452,9 miliardi dell'anno precedente". L'aumento delle uscite, continua lo studio dell'associazione, "ha inevitabilmente allargato il "buco" nei conti passato dai 1.944,2 miliardi di gennaio 2012 ai 2.166,3 miliardi di maggio scorso.

Nei primi cinque mesi dello scorso anno la variazione registrata e' stata di 53 miliardi, pari a oltre 10 miliardi al mese; tendenza salita a quasi 15 miliardi al mese nel 2014: nei primi dieci mesi di quest'anno la variazione e' stata di 74,4 miliardi. Secondo il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi i "Dati confermano il fallimento della politica del rigore: per salvare le micro, piccole e medie imprese deve essere abbattuta la pressione fiscale con interventi seri e rigorosi". (AGI)

http://www.wallstreetitalia.com/article ... s=og.likes
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Re: Spending review è un flop: spesa salita 25 miliardi

Messaggioda trilogy il 23/07/2014, 9:59

Quello che è sconcertante è che una serie di "riforme", come quella della Pubblica Amministrazione, invece di produrre riduzioni dei costi li aumentano. L'aumento dei costi dovuto alla riforma della PA è stimato in 466 milioni annui, il riordino delle Authority indipendenti, idem con patate. Se devono fare le riforme per ampliare il perimetro dello Stato ed aumentare costi e tasse, per quanto mi riguarda, delle "riforme" ne faccio volentieri a meno.
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Re: Spending review è un flop: spesa salita 25 miliardi

Messaggioda franz il 23/07/2014, 10:57

La vera riforma parte per me dal federalismo responsabile (finanze autonome, senza soldi a go-go dal centro) e democrazia diretta (cittadini che discutono e votano sulle singole spese).
Se i lombardi avessero potuto fare come gli svizzeri, avrebbero votato la spesa di 500 milioni per il nuovo pirellone, sede della regione?
Se ogni soggetto pubblico dovessere solo spendere i suoi soldi, raccolti dai suoi cittadini con le tasse, come srebbe la spesa, piu' alta o piu' bassa?
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Re: Spending review è un flop: spesa salita 25 miliardi

Messaggioda flaviomob il 26/07/2014, 1:42

Visti gli scandali continui che scuotono la Lombardia da trent'anni è una bella domanda. I lombardi continuano a votare una parte politica che ha mostrato di non poter fare a meno della corruzione, il centrodestra. Ora berlusconiano, ora leghista, ma l'alleanza rimane la stessa.


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Re: Spending review è un flop: spesa salita 25 miliardi

Messaggioda franz il 26/07/2014, 8:08

Anche il veneto direi ma anche tutte le altre regioni (sicilia, calabria, lazio).
La classe politica regionale in fondo si è dimostrata peggire di quella nazionale, proprio perché il regionalismo è solo una brutta copia del centralismo attuale e nulla c'entra con il federalismo, anche se si è tentato di spacciarlo come tale.
La spesa regionale è stata quella che proporzionalmente è cresciuta di piu' (oltre la crescita dovuta all'inflazione), mentre province e comuni sono dimasti vicino o anche sotto alla crescita generale dei prezzi.
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Re: Spending review è un flop: spesa salita 25 miliardi

Messaggioda flaviomob il 26/07/2014, 10:31

Sì ma la Lombardia è la locomotiva economica d'Italia ed è la regione più popolosa. Già feudo di Formigoni, il sistema di potere nella sanità e negli appalti è stato smascherato più volte dai tempi di tangentopoli in poi, fino all'epilogo del comune di Desio sciolto per mafia: eppure continuano ad avere consensi ed oggi anche Maroni è indagato.


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Re: Spending review è un flop: spesa salita 25 miliardi

Messaggioda pianogrande il 27/07/2014, 18:10

flaviomob ha scritto:Sì ma la Lombardia è la locomotiva economica d'Italia ed è la regione più popolosa. Già feudo di Formigoni, il sistema di potere nella sanità e negli appalti è stato smascherato più volte dai tempi di tangentopoli in poi, fino all'epilogo del comune di Desio sciolto per mafia: eppure continuano ad avere consensi ed oggi anche Maroni è indagato.

Ennesima dimostrazione di come la classe politica rappresenti il popolo (che la vota e la sostiene).
Il sistema evidentemente non si ferma ai quattro gatti che fanno politica ma si espande a milioni di persone ed è quello il vero problema.
Evidentemente, in Lombardia ci sono milioni di persone a cui questo sistema va bene o benissimo.
Che facciamo?
Fotti il sistema. Studia.
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Re: Spending review è un flop: spesa salita 25 miliardi

Messaggioda flaviomob il 29/07/2014, 15:10

Da Espresso:

ALLARME RIPRESA
Crescita a rilento e svendite di Stato
"Caro Renzi, avevano ragione i gufi"
Il governo deve fare i conti con una crescita più lenta del previsto. «Renzi, come Monti, ha sbagliato i calcoli». E le privatizzazioni sono state un flop. Ma una manovra correttiva «sarebbe una follia». Intervista all'economista Emiliano Brancaccio
DI LUCA SAPPINO
28 luglio 2014

Il Fondo Monetario Internazionale e Bankitalia dimezzano la crescita che era stata prevista dal governo. «Non cadiamo mica tutti dal pero», rivendica all'Espresso l'economista Emiliano Brancaccio: «Avevamo più volte avvisato che le stime di Renzi, così come quelle di Letta, Monti e della stessa Commissione europea, erano irresponsabilmente ottimistiche». «Quando si attuano politiche di restrizione dei bilanci pubblici», nota Brancaccio, «il risultato prevedibile è che la domanda di beni e servizi cali e il Pil venga ulteriormente depresso». «Previsto» era pure il flop delle privatizzazioni, con Fincantieri che ha fruttato la metà di quanto annunciato dal governo.

Servirà dunque una manovra correttiva?
«Sarebbe una follia», dice ancora Brancaccio, perché «una manovra che taglia ancora la spesa pubblica e insiste con la pressione fiscale finirebbe per aggravare gli effetti depressivi della precedente».

Professore, Matteo Renzi ha detto ad Alain Fridman: «Che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cambia niente dal punto di vista della vita quotidiana delle persone». È così?
«Il livello di approssimazione di certe dichiarazioni è sorprendente. Questi temi non andrebbero affrontati in modo così superficiale. Quelle cifre fanno la differenza tra un'economia che vede crescere l'occupazione e un'economia che continua a distruggere posti di lavoro, e in prospettiva possono fare la differenza tra uno Stato solvibile e uno Stato in bancarotta».

Renzi, presentando il Def, aveva detto di aver abbassato «prudenzialmente» la previsione rispetto a quella fatta dal governo Letta. Il premier si era poi detto certo, però, che sarebbe stata più alta. In un' intervista all'Espresso di qualche mese fa lei manifestò un parere opposto. E così è stato. Cosa non ha funzionato?
«A quanto pare, quelli che il nostro premier chiama "gufi" hanno avuto ragione, ancora una volta. Sono ormai più di tre anni che il governo, e la stessa Commissione europea, nel prevedere l'andamento del Pil peccano sistematicamente di ottimismo. Lo fece Monti, l'ha fatto Letta e ora lo fa Renzi. La realtà è che, se ci va bene, quest'anno ci troveremo con crescita zero».

Perché le stime si rivelano puntalmente troppo ottimistiche?
«Perché in Europa si evita di affrontare un'evidenza scientificamente inconfutabile: quando si attuano politiche di austerity la domanda di beni e servizi è destinata a cadere, e con essa cade anche il livello del Pil. Persino il Fondo monetario internazionale ha dovuto riconoscere che questo effetto era stato trascurato. La Commissione europea e i governi nazionali dell'eurozona si ostinano a eludere il problema».

E gli effetti degli 80 euro?
«Quelli non si vedono perché i lavoratori dipendenti sono stati costretti, in questi anni, a erodere i loro risparmi per far fronte alla crisi. In questo scenario è illusorio pensare che gli 80 euro in più in busta paga si possano interamente trasformare in consumi. Ma soprattutto, occorre ricordare che la famigerata manovra degli 80 euro si inscrive in una politica di bilancio che nel complesso rimane depressiva. Il governo continua a sottrarre all'economia più di quanto eroghi: l'obiettivo generale della politica economica resta infatti quello di attuare un prelievo fiscale che eccede la spesa pubblica al netto degli interessi. Questo significa che i cittadini e le imprese si trovano da un lato con 80 euro in più, ma dall'altro lato registrano tagli ulteriori ai servizi e aumenti delle tariffe. E temono incrementi di altre voci di imposta. L'effetto finale sulle capacità complessive di spesa resta dunque negativo».

Potrebbe essere più utile il jobs act, di cui pure si sono perse le tracce?
«No. Ancora una volta si ignorano i risultati accumulati dalla ricerca scientifica per oltre un ventennio: le politiche di precarizazzione non accrescono gli occupati ma fanno sì, semmai, che l'occupazione diventi più instabile. I contratti precari possono al limite indurre le imprese a creare posti di lavoro nelle fasi di espansione ma poi, quando c'è crisi, quegli stessi posti di lavoro, essendo precari, vengono immediatamente cancellati».

Sarà necessaria una correzione del Def in autunno? Il governo ancora nega la manovra correttiva...
«Una restrizione ulteriore del bilancio sarebbe una follia. Tagliare ancora la spesa e insistere con la pressione fiscale non può che aggravare gli effetti depressivi delle manovre precedenti».

Il Financial Times mette l'accento sulle privatizzazioni ferme al palo. La vendita di Fincantieri ha prodotto la metà del previsto. La dismissione del 40 per cento di Poste slitterà di un anno. Sempre il Financial Times scrive che per rispettare quanto previsto nel Def, cioè per ricavare 11 miliardi con cui ridurre il debito pubblico, il governo dovrà mettere sul mercato altre quote di Eni e Enel. È una strada?
«Anche sulle privatizzazioni i cosiddetti "gufi" avevano lanciato un chiaro allarme: in una fase di crisi i prezzi di mercato degli asset sono bassi e le privatizzazoni diventano vere e proprie svendite. L'obiettivo del governo di ricavare 11 miliardi non può che essere disatteso, come già dimostra la vicenda Fincantieri».

C'è un momento migliore per farle?
«Di certo non ora. Ma io credo che bisognerebbe mettere in discussione la logica delle privatizzazioni nel suo complesso. Questo è un paese con scarsa memoria, ma basterebbe forse ricordare gli effetti del record di privatizzazioni che l'Italia ha segnato negli anni '90. Non mi pare che quell'onda di vendite di asset pubblici abbia dato benefici al paese. Di fatto, gli unici a trarne vantaggio furono quei gruppi di interesse nazionali ed esteri che beneficiarono dello shopping di spezzoni di apparato pubblico a prezzi di saldo».

Disoccupazione, povertà relativa, crescita, debito pubblico. Tutti i valori sono peggiori di quelli registrati nel 2011, anno della lettera della Bce e della chiamata dei "tecnici". Perché eravamo più preoccupati tre anni fa?
«Per adesso siamo meno preoccupati perché Draghi ha compiuto una mossa che cambia il quadro. Nel 2011 l'Italia e gli altri paesi periferici europei erano esposti alla speculazione internazionale. Gli operatori sui mercati finanziari vendevano, i prezzi dei titoli crollavano e i tassi d'interesse - i famigerati spread - aumentavano».

Oggi questo rischio è scongiurato?
«Per il momento sì. La differenza tra allora e oggi sta nel fatto che la Bce ha preso un impegno: proteggere i paesi in difficoltà da eventuali ondate di vendite sui mercati finanziari. In caso di vendite, la Bce compra i titoli e quindi i prezzi e gli spread rimangono stabili. Il problema è che la strategia della Bce si basa sull'idea che il suo ombrello protettivo sia temporaneo. L'auspicio dichiarato della banca centrale è che le politiche di austerity e le famigerate riforme strutturali siano in grado, a un certo punto, di rilanciare i paesi in difficoltà e di rendere quindi superflua la sua protezione. Noi stiamo invece registrando che così non sarà».

E come sarà?
«Vale tuttora la previsione contenuta nel "monito degli economisti" che abbiamo pubblicato nel settembre scorso sul Financial Times: con le attuali politiche di austerity, la divergenza tra paesi deboli e paesi forti dell'eurozona continuerà ad ampliarsi. La politica monetaria non può affrontare da sola questa divaricazione. Bisognerebbe almeno affiancare le azioni della banca centrale con un piano di investimenti pubblici mirati. Le più autorevoli ricerche economiche dimostrano che l'intervento statale può esser decisivo non solo per fini di assistenza ma anche per creare condizioni di sviluppo tecnologico e produttivo, soprattutto nei paesi più deboli, che ne hanno più bisogno. Il guaio è che in Europa i dogmi del liberismo, sebbene più volte sconfessati, tuttora resistono, e l'idea di un rilancio in chiave moderna dell'intervento pubblico resta tabù».

Quali saranno dunque le implicazioni per l'eurozona?
«Le divergenze tra paesi forti e paesi deboli dell'Unione aumenteranno. Se si continua a pensare che la politica monetaria possa risolvere da sola questo enorme problema, l'Unione monetaria europea non potrà che confermarsi insostenibile. Anche se ora sembrano tutti più sereni, i nodi verranno di nuovo al pettine e presto o tardi si tornerà a vivere il clima del 2011. Sarà una previsione da "gufo", ma fino a ora i cosiddetti "gufi" hanno avuto molta più lungimiranza dei professionisti dell'ottimismo».


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Chi ha svuotato la spending review (Tito Boeri).

Messaggioda franz il 03/08/2014, 10:57

Chi ha svuotato la spending review (Tito Boeri).

01/08/2014 di triskel182

IN UN Paese ad alto debito pubblico come il nostro, ogni realistico e sostenibile piano di riduzione delle tasse richiede di essere sostenuto da tagli della spesa pubblica di almeno pari importo. Se si vogliono ridurre le tasse di 30 miliardi, occorre tagliare la spesa di 30 miliardi. Bisogna anche tagliare bene, senza pregiudicare entrate future e senza limitarsi a spostare spese da un esercizio all’altro. È un’operazione politicamente costosa, piena di insidie, ma non ci sono altre strade percorribili.

NESSUNO sin qui vi è riuscito. Nonostante tanti proclami, la spesa corrente primaria continua a crescere, non solo in rapporto al Pil, ma anche in cifre assolute: si avvicina sempre più, inesorabilmente, alla soglia dei 700 miliardi. Il compito affidato a Carlo Cottarelli, la cosiddetta spending review, è perciò in questo momento la priorità numero uno per l’azione di politica economica di qualunque governo che voglia rilanciare l’economia italiana, un obiettivo non secondario in un Paese che manifesta a tutti i livelli crescenti segnali di un declino apparentemente inarrestabile.

I precedenti di analoghe spending review condotte anche in Paesi con una struttura decisionale più decentrata dalla nostra (si pensi al Canada, ma anche alla Spagna che ha già attuato un terzo del suo programma) sono incoraggianti.
Il bonus di 80 euro introdotto nelle buste paga da maggio doveva servire a creare una constituency a favore della spending review, mostrando a tutti quali possano essere i suoi frutti: più si taglia, maggiori le riduzioni delle tasse, che non devono a loro volta essere sostituite da altre tasse.

Così non è stato. Il Parlamento, complici ministri distratti o incompetenti e nonostante il parere contrario della Ragioneria dello Stato, ha ben quattro volte aumentato le spese invocando come coperture i risparmi futuri associati alla rassegna della spesa. Lo ha fatto con la Legge di Stabilità per il 2014, il decreto fiscale di gennaio, il decreto legge sulla Pa e, dulcis in fundo, la controriforma delle pensioni passata con il voto di fiducia della Camera l’altro ieri. In altre parole, la spending review è stata svuotata prima ancora che potesse cominciare a dare qualche frutto. I primi tagli serviranno a coprire altre spese anziché a ridurre le tasse. Siamo pienamente nel solco di governi che si limitano a cambiare marginalmente la composizione della spesa senza riuscire a ridurla e che modificano la denominazione delle tasse senza ridurre la pressione fiscale, magari aumentandola.

Vogliamo credere che Renzi capisca la centralità della spending review, sia consapevole dell’opportunità unica che gli è stata concessa dall’investitura popolare col voto alle europee e che, al di là di quelle che saranno le scelte personali di Carlo Cottarelli, voglia imparare dagli errori compiuti. In un Paese senza memoria storica bene ricordare che ci sono stati, dal 2006 in poi, ben tre tentativi di passare in rassegna la spesa pubblica cercando di ridurla, migliorandone l’efficacia e l’efficienza.

La spending review era stata il cavallo di battaglia del ministro Padoa-Schioppa, che l’affidò alla Commissione tecnica per la spesa pubblica (Ctfp) attiva presso il ministero dell’Economia e delle Finanze tra l’aprile 2007 e il maggio 2008. Purtroppo al cambiamento di governo, il lavoro della Commissione fu bloccato. Rimase solo un voluminoso rapporto, che dopo ripetute pressioni su queste colonne, il ministro Tremonti si decise a rendere pubblico. Il secondo tentativo è stato compiuto con il governo Monti con l’affidamento Enrico Bondi del ruolo di commissario alla spending review.

C’è stato in quella stagione anche un provvedimento di legge, il d. l. n. 95 del 6 luglio 2012, che ha ereditato il nome di spending review. Ma si tratta, in realtà, di un provvedimento che ripropone la tecnica dei tagli lineari, dunque non ha nulla a che vedere con una rassegna della spesa che porti a tagli selettivi, incentrati sulle aree di spreco e inefficienza. Il terzo tentativo è quello tuttora in atto con la nomina di Cottarelli a commissario alla spending review da parte del governo Letta e la sua riconferma da parte dell’attuale presidente del Consiglio. Cottarelli, al contrario di Bondi, ha passato al setaccio in nove mesi tutta la spesa corrente primaria, sviluppando proposte su tutto.

Un grande passo in avanti, che rischia però, come si è detto, di essere svuotato del suo significato, mentre non possiamo più permetterci battute d’arresto.
Il tratto comune di tutti questi tentativi è stata l’idea che si possa affidare un’impresa titanica come la spending review a un uomo solo al comando, a un tecnico per quanto di grande valore o anche a un gruppo di tecnici, senza un forte supporto politico. Questo supporto è fondamentale non solo per vincere le resistenze delle amministrazioni coinvolte e delle lobby locali, ma anche perché solo una parte delle misure contemplate dalla rassegna della spesa è di carattere amministrativo.

Molti interventi, quelli che fruttano i miliardi anziché i milioni di risparmi, richiedono misure legislative e alcuni anche modifiche costituzionali, come la revisione del titolo V per riguadagnare controllo delle spese folli di alcune Regioni. E non si può lasciare fuori nulla, tanto meno comparti come pensioni e sanità, fortemente presidiati da rappresentanze di interesse, che contano per il 40 per cento della spesa complessiva. È un’operazione che richiede anche il coinvolgimento pieno della Ragioneria generale dello Stato e un sistema di incentivi e disincentivi per le amministrazioni decentrate, che penalizzi i dirigenti che non cooperano nell’operazione di contenimento della spesa.

Se oggi Renzi vuole essere preso sul serio quando dice di voler tagliare le tasse, andando ben oltre il finanziamento in modo strutturale degli 80 euro, bene che si assuma in prima persona, a tutti gli effetti, la responsabilità di condurre in porto la spending review. È il compito principale di un primo ministro in un Paese indebitato come il nostro. Deve essere lui a risponderne davanti al Paese, non un commissario. Non ci interessa leggere i documenti tecnici dei tavoli di lavoro. Ci interessa leggere i provvedimenti che il governo adotterà sulla base di questi materiali. Il vuoto di democrazia è nelle leggi annunciate senza che ci sia un testo, non nei documenti dei tavoli tecnici non resi pubblici.

I tecnici servono e vanno scelti i migliori, come Cottarelli, ma solo l’impegno diretto del presidente del Consiglio e quello collegiale dell’esecutivo nel suo complesso, può impedire che l’operazione fallisca, come in passato. La rassegna della spesa è un’operazione politica, che comporta scelte difficili e dolorose, anche tagli delle retribuzioni nominali, come quelli decisi in Spagna per i professori universitari. Queste scelte competono solo a chi ha ricevuto la fiducia degli elettori.

Da La Repubblica del 01/08/2014.
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Re: Spending review è un flop: spesa salita 25 miliardi

Messaggioda pianogrande il 03/08/2014, 20:10

Siamo il paese dei tecnici dei commissari (magari straordinari) e delle commissioni.
I politici hanno altro da fare che governare?

Possibile che per affrontare un problema ci voglia sempre un tecnico o un commissario o una commissione?

La storia insegna che quello rappresenta la volontà di non affrontarlo il problema.

Se anche il governo Renzi è il governo dei tecnici dei commissari e delle commissioni siamo fregati per l'ennesima volta.
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