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La grande crisi

MessaggioInviato: 28/07/2013, 23:23
da flaviomob
Intervista a John Bellamy Foster
di C.J.Polychroniou

CJP: Quella che è iniziata come una crisi finanziaria nel 2007 è diventata una delle maggiori crisi di disoccupazione del mondo capitalista avanzato. Questo può forse voler dire che la crisi del 2007-08 non è stata in realtà causata dalla finanza in sé, ma ha avuto piuttosto le proprie cause sottostanti nell’economia reale?

JBF: Non c’è alcun dubbio che sia stato lo scoppio della bolla finanziaria a condurre alla crisi economica. Dunque, in questo senso, la causa prossima della crisi è stata finanziaria. Ma le risposte più profonde vanno ricercate nella cosiddetta “economia reale”, cioè nel regno della produzione. Una grave crisi economica come la Grande Crisi Finanziaria è invariabilmente il prodotto di fattori strutturali che sono andati sommandosi nel corso di molti anni e ha sempre radici nella produzione. I tassi di crescita dell’economia reale delle economie mature, di capitalismo monopolistico della Triade – Stati Uniti/Canada, Europa e Giappone – hanno cominciato a rallentare negli anni ’70 e sono scesi fondamentalmente di decennio in decennio da allora. Il principale fattore di bilanciamento di tale rallentamento dell’economia è stato la finanziarizzazione, che si può definire come consistente in: (1) crescita della dimensione della finanza (struttura del credito-debito) rispetto alla produzione; (2) una quota accresciuta di profitti finanziari in seno ai profitti complessivi delle imprese e (3) la crescita dei ritorni finanziari come elemento sempre più dominante anche nelle operazioni delle imprese non finanziarie.

Questo processo di finanziarizzazione ha avuto inizio alla fine degli anni ’60 e si è ampliato in misura massiccia negli anni ’80.

Di fronte alla saturazione del mercato e al declinare delle opportunità d’investimento le imprese e gli investitori individuali si sono trovati di fronte a problemi di assorbimento del surplus. La loro reazione è consistita nel collocare una quota sempre maggiore del surplus economico a loro disposizione nel settore finanziario, in cerca di opportunità speculative associate all’apprezzamento dei patrimoni. Le istituzioni finanziarie hanno accolto questo enorme afflusso di capitale inventando strumenti finanziari sempre più esotici. L’intero processo di finanziarizzazione ha fatto crescere l’economia più di quanto sarebbe cresciuta altrimenti, dando una base alla crescita economica.

Ma dato che il processo di finanziarizzazione era esso stesso una reazione a un’economia sempre più stagnante, che non poteva curare, quelle che sono emerse da questo processo sono state bolle finanziarie sempre più grosse e più frequenti sommate a una base economica debole. Ciò ha portato a una stretta creditizia dietro l’altra, ciascuna più grave della precedente, con la Federal Reserve e le altre banche centrali intervenute in continuazione come prestatori di ultima istanza in uno sforzo disperato di impedire che crollasse l’intero castello di carte. Ogni volta è stato allontanato il crollo finanziario completo, preparando il terreno per problemi più grossi nel futuro. Contemporaneamente la finanziarizzazione era globalizzata, poiché tutti i paesi erano costretti ad adottare la stessa architettura finanziaria. Alla fine era destinata a determinarsi una situazione in cui gli effetti di scala dello scoppio di una bolla finanziaria avrebbero superato la capacità delle banche centrali di impedire gravi danni all’economia. Ciò è successo con la Grande Crisi Finanziaria del 2007-08. Tuttavia è stato evitato un crollo finanziario completo mediante il processo relativo del “troppo grande per fallire”, cioè al salvataggio delle grandi istituzioni finanziarie, con i costi trasferiti a carico del pubblico.

La maggior parte delle discussioni sull’intera Grande Crisi Finanziaria, anche a sinistra, ha teso a concentrarsi sugli aspetti e i sintomi superficiali, ignorando le contraddizioni a lungo termine sia nell’ambito della produzione sia in quello della finanza. Per contro sono orgoglioso di dire che la Monthly Review, basandosi inizialmente sul lavoro di Harry Magdoff e di Paul Sweezy, ha seguito da vicino gli sviluppi di queste contraddizioni in articoli scritti in un periodo di quattro decenni e più.

Il principale problema dell’economia capitalista, oggi, non è ovviamente tanto la crisi finanziaria, quanto la stagnazione. Persino economisti liberali come Paul Krugman oggi parlano di “stagnazione permanente”. Il periodo attuale è caratterizzato da una crescita economica estremamente lenta nelle economie mature, un fenomeno emerso in seguito alla Grande Crisi Finanziaria. Il sistema preso in quella che nella Monthly Review abbiamo chiamato la “trappola della stagnazione-finanziarizzazione”. Senza altri boom guidati dalla finanza non c’è nulla attualmente che possa smuovere il sistema dal suo centro morto, per così dire. Ma il processo di finanziarizzazione è esso stesso ostacolato oggi dalla mancanza di prestiti bancari e dunque incapace di offrire uno stimolo sufficiente a stimolare l’economia.

Il capitale si preoccupa perciò soprattutto di rimettere in moto il processo di finanziarizzazione. Il compito prioritario consiste nel garantire la stabilità e la crescita degli attivi finanziari, che costituiscono entrambe la ricchezza della classe capitalista e che oggi sono i mezzi principali di un’ulteriore generazione di ricchezza. In pratica ciò significa rafforzare le condizioni dell’austerità neoliberale mirata a dirottare i flussi economici pubblici e privati sempre più nel settore finanziario. Lo stato capitalista è trasformato in modo tale che la sua funzione di prestatore di ultima istanza sta diventando il suo ruolo principale, con tutti gli altri fini politici subordinati a esso. In una situazione simile le vecchie strategie keynesiane di spesa in deficit e promozione dell’occupazione devono essere sacrificate all’altare dell’élite del potere finanziario. Alla fine ciò può riuscire a generare un altro boom e un’altra bolla generati dalla finanza. Ma le conseguenze finali di questo distorto processo speculativo di generazione di ricchezza, se ne sarà consentita la piena riproposizione, saranno probabilmente più gravi nel futuro.


Interpreti la finanziarizzazione dell’economia come un risultato deliberato o anche casuale ricercato dai decisori della politica o semplicemente come parte della dinamica del processo in corso di accumulazione del capitale?

C’è stata una quantità enorme di discussioni, tra i liberali e nella sinistra, su come lo stato e i decisori della politica hanno promosso la finanziarizzazione, come se il ruolo dello stato in tutto questo fosse primario. Un buon esempio di ciò è Capitalizing on the Crisis [Sfruttare la crisi] di Greta Krippner, che affronta la finanziarizzazione principalmente come un regime politico. Ciò si adatta bene all’idea popolare e keynesiana che il problema sia stato la deregolamentazione finanziaria e la soluzione stia nella disciplina della finanza. Naturalmente non c’è dubbio che i governi della Triade siano stati pesantemente coinvolti nel promuovere la deregolamentazione della finanza e che abbiano tratto ogni vantaggio possibile dalle opportunità politiche ed economiche introdotte dalla finanziarizzazione.

Ma ricondurre il problema allo stato è mettere il carro davanti ai buoi. Come ha sostenuto Sweezy alla fine degli anni ’90, il problema cruciale dell’analisi economica oggi è capitale la “finanziarizzazione del processo di accumulazione del capitale”. Posto di fronte a una bolla dopo l’altra, derivanti dal rapporto stagnazione-finanziarizzazione, lo stato non ha avuto altra scelta, in ciascuna fase del processo, che rivolgersi alla deregolamentazione finanziaria al fine di evitare che la bolla scoppiasse, dando al regime finanziario maggiore spazio in cui operare e rimuovendo gli ostacoli alla sua espansione. Nessuno, dopotutto – né un direttore di banca centrale, né un Segretario al Tesoro e certamente non un capo di stato – vuole che una bolla gli scoppi davanti agli occhi. La deregolamentazione finanziaria al fine di evitare lo scoppio delle bolle e di dare ossigeno al processo di finanziarizzazione è stata particolarmente evidente nell’amministrazione Clinton, in cui Alan Greenspan, Larry Summers e Timothy Geithner hanno lavorato in pieno accordo. Ma l’idea che questo intero processo sia in qualsiasi modo controllato dallo stato nel suo sorgere o nel suo declinare è un’illusione. Si tratta di un processo fondamentalmente incontrollabile, con i problemi veri che stanno nello sviluppo irrazionale dell’economia capitalista.


Hyman Minsky ha contribuito forse più di ogni altro economista del dopoguerra alla nostra comprensione delle crisi finanziarie, ma ha anche proposto alcune politiche solide e realistiche per gestire la piaga della disoccupazione e della povertà. In che cosa consistono le tue differenze rispetto a Minsky e perché i radicali non dovrebbero abbracciare tali proposte politiche che contribuiranno ad alleviare la miseria e la sofferenza di milioni di disoccupati e di poveri?

Minsky è stato certamente una grande figura post-keynesiana e la sua reputazione è meritatamente cresciuta dopo la crisi più recente. La sua intera opera è stata dedicata alla teorizzazione delle crisi finanziarie. Il fondamento della sua analisi è consistito in un’interpretazione alternativa di Keynes (nel suo libro del 1975 John Maynard Keynes) in cui ha tentato di convertire le principali intuizioni di Keynes in una teoria delle crisi finanziarie di breve termine. Nel procedere, Minsky ha esplicitamente minimizzato il fatto che l’analisi di Keynes in quest’area era legata alla sua preoccupazione per la stagnazione a lungo termine o per il declino dell’efficienza marginale del capitale. Minsky ha mostrato che il capitalismo aveva un “difetto” fatale che lo costringeva a generare periodi di ‘catene di Sant’Antonio’ [‘schema Ponzi’ nell’originale – n.d.t.] di instabilità finanziaria, passando da una posizione finanziariamente stabile a una di instabilità finanziaria in conseguenza della sua logica intrinseca. Ciò nonostante la debolezza principale dell’analisi di Minsky è consistita nel basarsi su una teoria pura del ciclo finanziario, separata dalla comprensione delle tendenze all’interno della produzione. In conseguenza non si trova nella sua opera alcuna reale teoria della finanziarizzazione, intesa come un fenomeno di tendenza piuttosto che ciclico. Il suo modello astratto della crisi finanziaria è stato perciò privo di molti dei problemi storici dell’accumulazione reale che erano stati al centro dell’attenzione di Marx, Keynes e Kalecki. Pur ammirando molto il modello di Minsky, Magdoff e Sweezy lo hanno tuttavia criticato negli anni ’70 per non aver guardato alla relazione dinamica tra produzione e finanza. Naturalmente il fatto che Minsky non abbia ricondotto la crisi finanziaria alle cause di base nella produzione e che non si sia occupato dello sviluppo a lungo termine del capitalismo lo ha reso più accettabile al sistema (nonostante la sua storia e i suoi presupposti di sinistra) quando si è ricercata una spiegazione del crollo finanziario del 2007-08. Quella che ha preso piede è stata l’idea che si era trattato di un “momento Minsky”, suggerendone un carattere ciclico e temporaneo. Inoltre Minsky – valutando piuttosto ingenuamente la sua analisi – aveva suggerito che una gestione della finanza meglio diretta dallo stato avrebbe potuto superare questi problemi.

E’ stato solo tardi nella sua vita, dopo il Crollo del Mercato Azionario del 1987, che Minsky ha cominciato a riflettere criticamente sulla finanziarizzazione, cioè sul problema a lungo termine. E’ stato in un libro del 1989 sulla Capitalist Development and Crisis Theory[Teoria dello sviluppo e della crisi capitalista], a cura di Mark Gottdiener e Nicos Kominos (un libro al quale io ho contribuito con un capitolo). La parte di Minsky era intitolata “Crisi finanziaria ed evoluzione del capitalismo” e sollevava il problema del “capitalismo del mercato monetario”. Robert McChesney e io abbiamo dedicato parte del Capitolo 2 del nostro libro The Endless Crisis[La crisi infinita] a una valutazione della teoria di Minsky in rapporto con questioni più vaste sollevate da Marx, Keynes, Kalecki e Sweezy.


La scuola del capitale monopolistico sembra in conflitto con tali analisi radicali, affermando che la transnazionalizzazione del capitale si è tradotta nella creazione di un’élite globale che attualmente decide la politica virtualmente in tutto il mondo. In tale contesto come risponderesti all’accusa implicita, se non esplicita, che la scuola del capitale monopolistico si concentra su cambiamenti microeconomici nella struttura del capitalismo avanzato ma trae conclusioni macroeconomiche riguardo alla stagnazione?

E’ vero che per noi la tesi – oggi popolare nella sinistra – che ci sia l’ascesa di una classe capitalista transnazionale appare troppo semplice, non cogliendo appieno le contraddizioni. C’è una tendenza a rimuovere il problema delle classi e a minimizzare la rivalità interimperialista. La miglior critica che conosco di tali idee è stata offerta da Samir Amin, nel 2011, nel suo ‘Transnational Capitalism of Collective Imperialism?’ [Capitalismo transnazionale o imperialismo collettivo?]. Amin, in particolare nel suo importante lavoro del 2010 The Laws of Worldwide Value[Le leggi del valore mondiale], parla del “recente capitalismo degli oligopoli generalizzati, finanziarizzati e globalizzati” e vede questa fase come governata dalla Triade con gli Stati Uniti in una posizione egemonica. Questa sembra a me una visione della nostra complessa realtà storica più adeguata che non il basarsi sull’idea di una classe capitalista transnazionale come una specie di deus ex machina. Gli analisti dell’area del modello della classe transnazionale capitalista guardano ai crescenti collegamenti tra le imprese con sede in vari stati centrali. Ma in realtà tali collegamenti tra imprese non sono affatto impressionanti nella Triade nel suo complesso. Il capitale statunitense, ad esempio, continua a operare con notevole indipendenza, così come lo stato USA. Il capitale giapponese è molto distinto.

E’ interessante notare che il concetto collegato di impresa transnazionale è stato promosso dal teorico della gestione d’impresa dell’establishment Peter Drucker, che ha sostenuto che tali società – non più residenti in una nazione particolare ma che operano transnazionalmente – hanno rimosso le imprese multinazionali, che erano state definite inizialmente come imprese che operano in molti paesi ma con sede in uno solo. Alla Monthly Review noi continuiamo a pensare che siano le imprese multinazionali, piuttosto che quelle transnazionali nel senso di Drucker, a restare dominanti.

La tesi della transnazionalizzazione è stata prevalentemente popolare in Europa in conseguenza dell’evoluzione della Comunità Europea. Ma la crisi attuale ha aperto le contraddizioni all’interno della stessa Europa. Nella crisi attuale si può sostenere che il rapporto imperiale divenuto evidente tra, diciamo, Germania e Grecia abbia minato tutti i presupposti semplicistici a proposito dell’integrazione delle classi, delle imprese e degli stati capitalisti.

La seconda parte della tua domanda mi sembra molto distante dalla prima. La distinzione tra microeconomia e macroeconomia è stata introdotta dalla crisi dell’economia marginale associata ala rivoluzione keynesiana. Keynes introdusse quella che chiamiamo prospettiva macroeconomica ma non affrontò il conflitto tra essa e la microeconomia neoclassica. In altre parole non ampliò la sua “teoria generale dell’occupazione” a una teoria dell’economia nella sua totalità. Lasciò pressoché non affrontate le fondamenta della prospettiva neoclassica a livello microeconomico. Ciò preparò il terreno per la successiva resurrezione conservatrice nella forma delle dottrine Neo-classiche e Neo-keynesiane di oggi.

Kalecki, provenendo dalla tradizione marxiana (in cui fu influenzato in particolare dall’opera di Rosa Luxembourg) e tuttavia anticipando tutti gli elementi chiave della teoria generale dell’occupazione di Keynes, sviluppò la sua analisi su una base più adeguata, in cui non c’era divisione tra microeconomia e macroeconomia. Essa prese la forma della sua teoria del capitale monopolistico, sotto quest’aspetto edificando sulle fondamenta della precedente tradizione marxiana. Il nostro approccio alla Monthly Review marxiano (o Marxiano-Kaleckiano), concentrato sull’accumulazione e interpretando l’economia come un tutto organico. Ance se per comodità si può far riferimento alla macroeconomia, come opposta alla microeconomia, nell’ottica marxiana non c’è una vera separazione.

(continua)
http://www.sinistrainrete.info/crisi-mo ... oster.html

Re: La grande crisi

MessaggioInviato: 29/07/2013, 14:36
da flaviomob