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Una riflessione sulla crisi Greca

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Una riflessione sulla crisi Greca

Messaggioda flaviomob il 12/04/2012, 7:28

CHE DIFFERENZA C'E' TRA LA GRECIA E LA CALIFORNIA
di Andrea Fracasso, Roberto Tamborini

Recentemente la California è andata sull'orlo della bancarotta nella totale indifferenza dei mercati finanziari. Perchè il peggioramento dei conti pubblici della Grecia ha scatenato una bufera, non solo contro i titoli di stato greci, ma persino contro l'euro? La differenza tra la California e la Grecia è Washington.

Solo una decina di anni fa l’espressione irriverente “Club Med” veniva utilizzata dagli investitori internazionali per indicare gli Stati dell’Europa meridionale ritenuti più deboli e vulnerabili alle crisi economico-finanziarie. I paesi in questione erano Portogallo, Italia, Grecia e Spagna. Durante l’epoca d’oro della finanza mondiale, iniziata alla fine degli anni ‘90 e terminata nel 2007, questo e altri termini spregiativi sono lentamente caduti in disuso, lasciando il posto ai più positivi acronimi per indicare i paesi emergenti e di successo (prima tra tutti la sigla BRIC - Brasile, Russia, India e Cina). Con la crisi finanziaria iniziata nel 2007, tuttavia, i paesi del Club Med sono tornati nel centro del mirino e un vecchio termine spregiativo, l’acronimo “Pigs”, è stato adottato per rappresentarli. Cedendo alla potenza delle sigle inglesi ma avanzando minor benevolenza circa le condizioni di salute finanziaria di Irlanda e Regno Unito, altri investitori hanno proposto di allargare il club a questi due Stati e conseguentemente di aggiungere una “i” e un “g” alla sigla (Piiggs).

Il cambiamento di atteggiamento degli investitori verso i paesi Pigs o Piiggs è stato repentino. Calmatasi la bufera che ha colpito i mercati dei prodotti finanziari sofisticati e i bilanci delle banche coinvolte nell’emissione e nell’acquisto di tali titoli, la crisi finanziaria si è trasmessa ai titoli di debito (pubblico e privato) dei paesi più fragili e/o più esposti verso l’estero. Il primo paese a essere interessato a fine 2009 è stata la Grecia, considerata debole e fragile a causa di un debito pubblico destinato a superare il 130% del Pil nel 2011, di un tasso di risparmio privato negativo, di un deficit di bilancio di circa il 12% del Pil, di un deficit di conto corrente nel 2009 di poco inferiore al 9% (14% nel 2008) e di una disoccupazione intorno al 10%. I rendimenti sui titoli decennali greci sono così cresciuti fino a superare il 6,7% e il differenziale con gli omologhi titoli tedeschi è schizzato a oltre 350 punti base.

La negativa valutazione della condizione finanziaria greca in parte non stupisce. La Grecia, infatti, non ha mai brillato per trasparenza e disciplina di bilancio. Dopo un rocambolesco ingresso nell’Unione Monetaria ottenuto grazie a manipolazioni dei dati delle finanze pubbliche, dal 2000 i governi in carica non hanno mai rispettato i limiti imposti al deficit pubblico dal Patto di Stabilità e di Crescita. La rapida espansione dei consumi privati e pubblici ha poi contribuito a far lievitare il debito nei confronti dei creditori esteri. Nemmeno quando, nell’autunno 2009, l’agenzia di rating Fitch annunciò che avrebbe ridotto il merito di credito del Paese, le autorità sono riuscite a innescare un percorso credibile di aggiustamento dei conti pubblici. Anzi. Durante le prime settimane di recrudescenza della crisi, le autorità greche hanno sfornato piani di aggiustamento vaghi e difficilmente in grado di frenare la spesa pubblica, accresciutasi specialmente durante il periodo pre-elettorale del 2009. Queste e altre debolezze croniche hanno contribuito a erodere la fiducia degli investitori nella Grecia e nei paesi che ne condividono debolezze e elementi di vulnerabilità.

Ciò detto, rimangono tuttavia da spiegare le ragioni sia della repentina avversione degli investitori internazionali per i titoli greci, sia del coinvolgimento di altri paesi europei. In primo luogo, dopo quanto accaduto a inizio anni 2000, è poco credibile che gli investitori abbiano improvvisamente deciso di punire il Paese per aver distorto le statistiche ufficiali. I mercati, la crisi insegna, sembrano infatti imporre la disciplina in modo molto controverso e erratico. Anche se questo fosse il caso, solo parte delle difficoltà della Grecia sono condivise dagli altri Stati messi sotto pressione sui mercati. La Spagna, ad esempio, soffre per la caduta del mercato immobiliare e per l’elevato tasso di disoccupazione, ma gode di elevati risparmi delle famiglie e il suo debito pubblico rimane complessivamente contenuto. L’Irlanda, pur attraversando un periodo molto duro, ha già intrapreso numerosi interventi per accelerare la riduzione della spesa pubblica e contenere l’inflazione. L’Italia, che per una volta non ha subito attacchi diretti veri e propri, sembra beneficiare di un sistema bancario sostanzialmente solido e della presenza, a fianco a un elevato debito pubblico, di una notevole quantità di risparmio privato, in particolare delle famiglie.

La recente asta di debito pubblico greco emesso solo poche settimane fa ha fornito inoltre indicazioni contrastanti: se, da un lato, il differenziale di interesse rispetto ai titoli tedeschi è in effetti balzato a livelli di gran lunga superiori agli altri paesi europei, dall’altro la domanda di titoli greci da parte degli investitori esteri è stata elevata e superiore all’offerta. La rischiosità percepita dei titoli greci sembra infatti essere più alta nel mercato dei credit default swaps (contratti attraverso cui un soggetto terzo assume il rischio di default di un dato emittente) che, come la crisi ha mostrato, soffrono tuttavia del fatto di essere molto volatili e scambiati in mercati illiquidi, fatto che li rende sensibili alle decisioni di pochi grandi investitori.

Altre perplessità riguardo la gravità della crisi greca affondano nella teoria economica. E’ certamente fuori di dubbio che ogni tipo di debito, sia esso interno o esterno, pubblico o privato, debba essere considerato sostenibile dagli investitori per poter essere rifinanziato. La sostenibilità del debito non è però un concetto univocamente inteso e molte questioni restano indefinite e soggette a discussione. Qual è l’orizzonte temporale da considerare nel valutare la sostenibilità di un debito? Esistono degli indicatori capaci di prevedere variazioni della sua vulnerabilità futura? L’andamento ciclico dell’economia (e il suo impatto diretto e indiretto sui saldi di bilancio pubblici e privati) deve essere considerato nell’osservazione puntuale di un fenomeno di lungo periodo? Come entrano i debiti emessi dal settore finanziario privato, dal settore pubblico e dal settore non finanziario privato nel determinare debitoria complessiva di un paese? Come si debbono valutare la qualità e la composizione della spesa corrente e degli investimenti nello stimare l’evoluzione futura del debito? Davanti a tante questioni poco chiare e di fronte all’evidenza di paesi che, pur in condizioni peggiori della Grecia e degli altri Pigs vengono regolarmente rifinanziati sui mercati, le origini e la natura della recente turbolenza europea rimangono da identificare. Infine va tenuto ben presente che siamo in un contesto generale di peggioramento dei conti pubblici in tutti i paesi occidentali come conseguenza della crisi finanziaria e degli enormi oneri fiscali che essa ha produtto e produrrà. Come già detto in un precedente articolo, una crisi sistemica richiede una risposta sistemica, che deve accantonare la logica di affidare ciascun paese alla discplina di mercato.

La letteratura economica sulle crisi finanziarie ha evidenziato il ruolo delle profezie che si auto-avverano. Queste crisi si mostrano efficaci quando gli investitori, attraverso un’azione imponente e spesso coordinata, riescono a indebolire un paese al punto da costringere le autorità a prendere quelle iniziative che probabilmente, in assenza dell’attacco speculativo stesso, non sarebbero state adottate. Un precedente è rappresentato dalla crisi valutaria del 1992 quando i governi italiano e inglese, tra gli altri, furono messi di fronte a una scelta: da un lato proteggere la parità del cambio contro l’ECU adottando in un periodo di recessione un mix di politica economica restrittivo (simile a quello attuato in Germania dopo l’allargamento), e dall’altro svalutare il cambio per rilanciare l’economia attraverso le esportazioni. In quella occasione vinsero i mercati e la lira e la sterlina si svalutarono. Oggi gli investitori sembrano porre un aut aut sia alle autorità greche sia a quelle europee: le prime devono scegliere tra l’abbandono della moneta unica (seguita da svalutazione del cambio e rinegoziazione del debito) e gravosi tagli di bilancio; le seconde tra il salvataggio di un componente “minore” dell’area euro (atto che causerebbe tuttavia un rischio di azzardo morale da parte degli altri Paesi membri) e il mantenimento di una rigida politica monetaria comune accompagnata da politiche fiscali indipendenti e coordinate solo debolmente.

Ma sono queste le vere alternative di fronte ai paesi europei? Noi crediamo di no. Così come la crisi del 1992 non ha comportato la fine del progetto di integrazione economica e finanziaria dell’Europa, la crisi del debito del 2010 non deve necessariamente condurre alla dissoluzione dell’area euro. Nel 1992 le autorità politiche europee hanno saputo rispondere alla speculazione con l’accelerazione dei tempi per l’introduzione dell’euro e con l’adozione di politiche fiscali molto (forse anche troppo) aggressive.

Oggi come allora le autorità politiche dell’Unione sono, sia individualmente sia collettivamente, di fronte a una scelta. Le opzioni, in sintesi, sono quattro: 1) lasciar affondare i paesi in maggiore difficoltà (e con essi l’integrità sia dell’Unione Monetaria, sia dell’Unione Europea); 2) demandare al FMI il compito di finanziare questi paesi e di condizionare i prestiti all’aggiustamento delle loro presunte debolezze; 3) salvare i paesi più esposti distribuendo gli oneri (pari nel caso della Grecia a solo il 3% del debito dei paesi dell’area euro) tra tutti gli stati membri (o tra quelli che ne possono sopportare il carico) e forzando la BCE a sostenere i titoli pubblici greci sia con operazioni di mercato aperto, sia accettando allo sconto i titoli acquistati dalle banche commerciali; 4) salvare i paesi in difficoltà e disegnare un nuovo sistema istituzionale che accentri una parte delle politiche fiscali, crei un fondo comune di intervento e renda meno asimmetrico, oltre che più cogente e ragionevole, il sistema di monitoraggio e coordinamento sancito nel Patto di Stabilità.

L’esperienza americana spinge a cercare di adottare quest’ultima via. Le condizioni delle finanze pubbliche dei singoli stati degli Stati Uniti non scuotono il debito federale: la California ha recentemente sfiorato la bancarotta senza che il debito federale venisse intaccato. La condizione attuale e prospettica dei conti pubblici federali americani è molto peggiore di quella dell'area euro, e perchè i mercati hanno messo sotto pressione l'euro anzichè il dollaro? Se viceversa i disavanzi fiscali federali fossero messi a carico dei singoli stati (ad esempio quelli dove ci sono le sedi legali delle grandi banche che hanno ricevuto aiuti pubblici, o dove c'è il maggior numero di famiglie o imprese che hanno ottenuto benefici fiscali) quale sarebbe il destino dei loro conti pubblici? Sarebbero molto migliori della Grecia o della Spagna o dell'Italia? Queste domande (retoriche) indicano che l'Europa fronteggia non già un "ordinario" problema di crisi fiscale di un paese membro, ma anche un problema serio di assetto istituzionale inadeguato. Problema, per altro, più e più volte evocato a vari livelli. Per questo motivo riteniamo che la soluzione "ordinaria" offerta dal FMI, sebbene tecnicamente corretta, non sia sufficiente. Le recenti notizie di stampa che riferiscono di un accordo Francia-Germania per un intervento concertato della UE a sostegno della Grecia vanno, quindi, nella giusta direzione; e infatti sembrano aver placato gli attacchi speculativi, almeno contro l'euro. Ma l'occasione è propizia per un disegno più ambizioso (anche se questo aggettivo è fuori luogo nell'Euopa di questi anni) che deve portare almeno ad un' "area fiscale euro" da affiancare a quella monetaria.

La legislazione americana, per esempio, prevede per gli stati tanto la possibilità di un salvataggio da parte federale quanto la loro bancarotta. I requisiti minimi di un'area fiscale euro dovrebbe comprendere la costituzione di una dotazione (relativamente piccola), la capacità di emissione di euro-bond (relativamente grande), schemi d'impiego dei fondi comuni, che potrebbero andare da finanziamenti di grandi opere infrastrutturali a interventi condizionali di sicurreza sistemica accompagnati da piani di ristrutturazione fiscale e rimborso dei prestiti, un'autorità responsabile sovranazionale. Il problema centrale non è tecnico-finanziario, ma politico. Per essere credibile un disegno di questo tipo richiede due condizioni: un qualche grado (limitato al minimo possibile) di solidarietà fiscale, e un qualche grado di limitazione della sovranità nazionale. Ovunque guardiamo nell'agenda europea e nei suoi insuccessi. vediamo che questi requisiti sono ormai visibilmente l'ostacolo che sta impedendo alla bicicletta europa di continuare a muoversi senza cadere. L’auspicio è che ancora una volta i paesi europei riescano a fare di necessità virtù, senza punire un paese per educarne altri (strategia che funziona male quanto la disciplina di mercato) e senza creare incentivi a comportamenti opportunistici.

Questo auspicio, tuttavia, si scontra con il fallimento della Strategia di Lisbona che non ha condotto agli auspicati recuperi di crescita e competitività, né ha sufficientemente promosso la produzione scientifica, culturale e tecnologica dell’Unione. Se il comune denominatore dei vari problemi dei Pigs è la progressiva perdita di competitività a causa di alti differenziali di inflazione e limitati guadagni di produttività, il coordinamento delle politiche fiscali e l'intervento comunitario possono servire solo ad affrontare i problemi contingenti e ad avviare un riequilibrio delle finanze pubbliche nel medio termine. Il miglioramento della qualità del bilancio pubblico e l’istituzione di meccanismi redistributivi a livello europeo risultano fondamentali in questo processo. Così che tra il fallimento della Strategia di Lisbona e la mancanza di un'area fiscale euro c'è un evidente circolo vizioso.

Se un meccanismo più efficace e condiviso della Strategia di Lisbona non verrà messo in piedi, la possibilità per alcuni stati di rimanere nell’area euro potrebbe essere nuovamente messa in discussione, oltre che dagli speculatori, anche dai cittadini stessi. In questo caso le questioni di quali paesi possano permettersi di avere una moneta comune e di quali siano le dimensioni ottimali di un’area valutaria comune in Europa potrebbero uscire dal novero delle domande tipicamente accademiche. La solidità dell’area euro non dipende solo dalla bassa inflazione e dalla stabilità delle finanze pubbliche e private locali, ma anche dalla crescita reale, dalla vulnerabilità dei paesi (e dei cittadini) e dalla capacità decisionale collegiale in materia fiscale. Lo spazio per miglioramenti è ampio, mentre il tempo poco e la leadership scarsa. Ma la storia insegna che per l’Unione Europea un goal in zona Cesarini è sempre possibile.

http://www.sinistrainrete.info/finanza/ ... ornia.html


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Re: Una riflessione sulla crisi Greca

Messaggioda franz il 12/04/2012, 8:35

flaviomob ha scritto:CHE DIFFERENZA C'E' TRA LA GRECIA E LA CALIFORNIA
di Andrea Fracasso, Roberto Tamborini

Recentemente la California è andata sull'orlo della bancarotta nella totale indifferenza dei mercati finanziari. Perchè il peggioramento dei conti pubblici della Grecia ha scatenato una bufera, non solo contro i titoli di stato greci, ma persino contro l'euro? La differenza tra la California e la Grecia è Washington.

La differenza è che la Grecia ha un debito pubblico del 140% ed ha potuto arrivare a questo senza controlli.
La California invece ha un debito pubblico del 5% del PIL (ridicolo, vero?) ma proprio per non superarlo è costretta dalle regole interne a bloccare i pagamenti. Il termine bancarotta in effetti per gli stati americani è improprio. In Europa si intende come default l'impossibilità di uno stato di ripagare i debiti, negli USA è il blocco dei pagamenti per impedire l'indebitamento. Si devono aumentare le tasse o trovare altre entrate, se si vuole continuare a spendere.

Questo articolo del sole24ore spiega cio' che i due articolisti qui sopra non mi pare abbiano nemmeno accennato (eppure è un testo molto lungo, direi inutilmente).

Cara Europa, sogna California. Così il Golden State ha frenato deficit e debito
http://www.ilsole24ore.com/art/commenti ... d=AYqwIdjC

di Uri Dadush e Moisés Naím

A un primo sguardo la California sembra nel pieno di una crisi economica e finanziaria che fa impallidire quella europea. Il tasso di disoccupazione, che ha superato il 12%, è uno dei più alti negli Stati Uniti, quasi il 3% in più della media dell'Unione Europea; i prezzi delle case sono crollati del 34% dal 2007 a oggi, mentre in Europa il calo è stato modesto; e negli ultimi tre anni il tracollo del gettito fiscale ha prodotto un disavanzo cumulativo nei conti dello stato pari a circa il 40% dei suoi introiti, oltre il doppio di quello della Grecia. La situazione politica è in stallo, molto peggio che in qualsiasi paese europeo: le faide politiche hanno lasciato la California senza bilancio per i primi 100 giorni dell'anno.

Paradossalmente, nonostante questo quadro deprimente, è l'Europa che deve guardare con invidia alla California. Anzi, gli europei, impegnati nella revisione dei meccanismi istituzionali alla base della loro unione monetaria, hanno molto da imparare dalle vicissitudini del Golden State.

La crisi del debito pubblico che ha colpito quest'anno i paesi periferici dell'Europa è stata innescata da quella stessa recessione globale che ha risucchiato nel baratro la California. Ma le radici profonde dei problemi del Vecchio continente risiedono nella perdita di competitività di Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna rispetto alla Germania e agli altri paesi del nocciolo duro dell'euro. Con la crescita ferma al palo e un debito in rapido aumento, i governi (elefantiaci) di questi paesi hanno perso la fiducia dei mercati finanziari.

In California questo non è successo. L'andamento dei prezzi e dei salari nel Golden State è più o meno in linea con quello del resto degli Stati Uniti, mentre in Grecia e in Italia il costo del lavoro, ad esempio, è cresciuto, rispetto a quello tedesco, di oltre il 25% dal momento dell'adozione dell'euro, circa dieci anni fa. I mercati finanziari stanno trattando la California (che ha un'economia di proporzioni superiori a quella spagnola) molto più benevolmente dei paesi europei colpiti dalla crisi.

I titoli pubblici californiani sono scambiati a spread meno dell'1% superiori a quelli degli stati valutati con una tripla A, mentre lo spread rispetto alla Germania per i paesi europei citati è mediamente del 3,5 per cento.

Qual è la ragione di questa differenza di rendimento di fronte a problemi analoghi? Una struttura istituzionale più resistente, che consentirà alla California di uscire dalla crisi meglio e più in fretta degli stati europei maggiormente in difficoltà.

Nonostante il disavanzo record, la California ha un debito pubblico inferiore al 5% del Pil, mentre le cinque nazioni europee più in difficoltà devono fare i conti con un debito grosso quasi quanto la loro economia. La ragione di questa differenza è che il 55% di tutta la spesa pubblica in California è coperto dal governo federale, mentre solo il 20% è a carico dello stato (la parte restante attiene agli enti locali).

In California, quindi, la spesa pubblica sostenuta direttamente dallo stato è pari appena al 7,9% del Pil. In Europa normalmente la spesa pubblica a livello nazionale rappresenta circa il 50% del Pil, mentre il budget della Commissione europea (l'organismo più vicino al concetto di governo federale europeo) pesa solo per l'1 per cento.

Il sistema federale americano dunque ha garantito il mantenimento delle reti di sicurezza sociale a favore dei californiani nel corso della crisi, nonostante la diminuzione del loro contributo. Il sistema europeo di decentralizzazione delle responsabilità di bilancio non garantisce una stabilità di questo tipo. Certo, accentrare maggiormente i conti pubblici dei paesi della zona euro significherebbe anche diffondere i debiti e i rischi dei singoli paesi. Ma l'esperienza californiana sembra indicare che in un'unione monetaria è importante poter mettere in comune i rischi: il fatto di far parte di un'entità molto più grande, che gode di un rating di tripla A ed esercita un controllo sulla propria valuta rassicura i mercati finanziari.

La cosa importante è che le leggi statali impediscono che il debito californiano possa andare fuori controllo e impongono il pareggio di bilancio. L'equivalente europeo di queste leggi, il Patto di stabilità, non ha la stessa forza giuridica ed è stato ripetutamente e clamorosamente ridicolizzato. Negli Stati Uniti non esiste nessuna procedura legale per gestire il default di uno degli stati (non è mai successo nei 234 anni di storia dell'Unione), e i mercati finanziari si aspettano che eventualmente la faccenda sia gestita dal governo federale, sul modello delle procedure già esistenti per la bancarotta degli enti locali (capitolo 7 del codice di diritto fallimentare). Se un paese europeo andasse in default vi sarebbe totale incertezza su chi dovrebbe gestire la procedura e sul trattamento riservato ai creditori, e dunque gli investitori hanno molta meno voglia di correre rischi.

La California è in una posizione migliore per assorbire gli shock economici anche grazie alla flessibilità del suo mercato del lavoro. I datori di lavoro in una situazione di crisi hanno meno problemi a ridurre il personale, e i salari si adeguano più in fretta. Inoltre (anche se con la recessione la mobilità della manodopera da uno stato all'altro si è ridotta) i lavoratori possono comunque spostarsi molto più facilmente che tra uno stato europeo e l'altro. Dovendo fare i conti (sia i lavoratori che le imprese) con una concorrenza più accesa, le aziende americane hanno eseguito la ristrutturazione in tempi più rapidi: il Pil Usa è sceso solo dell'1,2% dal secondo trimestre del 2008 al secondo trimestre del 2009, mentre in Europa il calo è stato del 3,2 per cento. E gli investimenti, dopo aver toccato il fondo nel secondo trimestre del 2009, negli Stati Uniti sono cresciuti, sempre al secondo trimestre di quest'anno, del 23% contro l'8% dell'Unione Europea.

Un'unione politica come quella americana per l'Europa non è immaginabile, ma il Vecchio continente può imitare alcuni dei meccanismi istituzionali che hanno consentito alla California di sopportare meglio la tempesta. Incrementare la flessibilità del mercato del lavoro, accrescere i finanziamenti a disposizione delle regioni più colpite, adottare regole migliori che garantiscano e facciano rispettare la disciplina di bilancio e istituire una procedura per la ristrutturazione del debito pubblico sono alcune delle innovazioni che possono consentire all'Europa di reggere meglio gli scossoni futuri.

Alcune di queste misure sono al centro del dibattito tra i leader europei. Anche se venissero adottate non metterebbero l'Europa completamente al riparo dagli shock economici. Ma senza queste riforme le difficoltà saranno senz'altro molto maggiori del necessario.

(Traduzione di Fabio Galimberti)
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Re: Una riflessione sulla crisi Greca

Messaggioda flaviomob il 12/04/2012, 10:14

L'articolo del Sole conferma che è la struttura federale degli USA a garantire la stabilità finanziaria dei singoli stati: è evidente che una legge federale non può essere elusa, mentre le norme concordate in sede europea fanno acqua da tutte le parti e ammettono eccezioni che poi diventano "cattivi esempi" per i più deboli. Il problema politico della UE è enorme.

L'affermazione dell'articolista

in Grecia e in Italia il costo del lavoro, ad esempio, è cresciuto, rispetto a quello tedesco, di oltre il 25% dal momento dell'adozione dell'euro, circa dieci anni fa


non viene messa in relazione agli aumenti spropositati dei prezzi in relazione proprio all'introduzione dell'euro.

In ogni caso il costo lordo del lavoro in Grecia era la metà di quello italiano nel 2002 (Fonte, una nostra vecchia conoscenza :) http://www.progettoitaliafederale.it/co ... avoro.html ).

In ogni caso, se vogliamo ancora fidarci di Istat, qui (ultima tabella excel) è evidente che il lordo di ogni ora lavorata in Italia e in Grecia è sotto la media UE (ma siamo all'anno 2000)

http://www.istat.it/it/archivio/14347

Il disastro italiano, come continuiamo a ripetere, è dovuto al fatto che sono quasi esclusivamente i lavoratori dipendenti a sostenere il peso dello stato sociale (e della burocrazia...) per cui il cuneo fiscale è spropositato (al lordo si aggiungono tasse su tasse) mentre i soliti noti continuano a evadere, rubare, esportare illegalmente capitali. Imprese e lavoratori soffrono, ma per chi?

-

E di questo articolo sul debito USA che ne pensate?

http://intermarketandmore.finanza.com/l ... 32080.html


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Re: Una riflessione sulla crisi Greca

Messaggioda franz il 12/04/2012, 11:10

flaviomob ha scritto:L'articolo del Sole conferma che è la struttura federale degli USA a garantire la stabilità finanziaria dei singoli stati: è evidente che una legge federale non può essere elusa, mentre le norme concordate in sede europea fanno acqua da tutte le parti e ammettono eccezioni che poi diventano "cattivi esempi" per i più deboli. Il problema politico della UE è enorme.

La struttura federale, si', ma anche le regole, federali e locali, sui vincoli di bilancio.
Insomma questi capitalisti yankees mica fessi sono e non hanno permesso che lo stato avesse regole che consentissero l'indebitamento pubbloco eccessivo. Invece in Europa ha prevalso lo statalismo ovvero il "primato della politica".
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Re: Una riflessione sulla crisi Greca

Messaggioda trilogy il 12/04/2012, 12:30

C'è anche un'altra differenza importante, la California è proiettata come cultura e business nel futuro. Grecia e italia nel passato.

La Guida agli investimenti in California...
http://www.business.ca.gov/Portals/0/Ad ... 0%2712.pdf
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Re: Una riflessione sulla crisi Greca

Messaggioda flaviomob il 12/04/2012, 12:53

Franz, veramente gli yankees sono tra i più indebitati al mondo, come bilancio federale. La differenza è che i singoli stati hanno dei vincoli di legge che non possono eludere. Scelta politica antica e consolidata.
In Europa invece è proprio la costruzione politica ad essere debole e gracile, quindi i paesi più corrotti e squilibrati rischiano di far deragliare tutta la carovana grazie a regole inesistenti o inefficaci.
Il capitalismo non c'entra proprio nulla, anzi è nato proprio in Europa e solo dopo è stato "esportato" negli altri continenti.
La storia d'Europa è una storia di divisioni, che ora si ripropongono drammaticamente.
E la storia del capitalismo è costellata di fallimenti di nazioni e banche... ;)


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Re: Una riflessione sulla crisi Greca

Messaggioda franz il 12/04/2012, 13:32

flaviomob ha scritto:Franz, veramente gli yankees sono tra i più indebitati al mondo, come bilancio federale. La differenza è che i singoli stati hanno dei vincoli di legge che non possono eludere. Scelta politica antica e consolidata.
In Europa invece è proprio la costruzione politica ad essere debole e gracile, quindi i paesi più corrotti e squilibrati rischiano di far deragliare tutta la carovana grazie a regole inesistenti o inefficaci.
Il capitalismo non c'entra proprio nulla, anzi è nato proprio in Europa e solo dopo è stato "esportato" negli altri continenti.
La storia d'Europa è una storia di divisioni, che ora si ripropongono drammaticamente.
E la storia del capitalismo è costellata di fallimenti di nazioni e banche... ;)

Ma se continui a portare come esempio positivo il paese capitalista piu' indebitato del mondo (ilgiappone) .... dai, su', deciditi.
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Re: Una riflessione sulla crisi Greca

Messaggioda flaviomob il 13/04/2012, 15:53

Il Giappone è stato portato non ad esempio ma come termine di paragone da Trilogy, che se ne intende, non da me.
Se loro non hanno problemi di solvibilità con un debito/pil al 200%, domandiamoci perché. E anche a noi converrebbe pagare gli interessi sul nostro debito allo 0,5% annuo, non trovi? ;)

In ogni caso, hai eluso la risposta.


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Re: Una riflessione sulla crisi Greca

Messaggioda franz il 14/04/2012, 8:44

flaviomob ha scritto:Il Giappone è stato portato non ad esempio ma come termine di paragone da Trilogy, che se ne intende, non da me.
Se loro non hanno problemi di solvibilità con un debito/pil al 200%, domandiamoci perché. E anche a noi converrebbe pagare gli interessi sul nostro debito allo 0,5% annuo, non trovi? ;)

In ogni caso, hai eluso la risposta.

Il giappone in questi mesi lo hai portato tu in palmo di mano, mi pare.
Potrei eludere una domanda, se avessi percepito una domanda, non posso eludere una risposta. Cosa intendi?

In ogni caso, mi pare sbagliato dare la colpa della situazione debitoria dei singoli stati europei alla debolezza della struttura federativa europea. Prima di tutti perché questa debolezza è voluta dagli stati, quindi ne portano piena responsabilità, in secondo luogo perché ogni stato è perfettamente responsabile dei suoi conti in rosso e quindi dare la colpa alla struttura europera mi pare una sorta di furbata. In terzo luogo nell'europa politica e geografica ci sono nazioni che non sono pesantemente indebitate (penso alla citatissima Svezia, per esempio) http://www.google.it/publicdata/explore ... n_US&dl=en e quindi è possibile avere poitiche economiche in europa che tengono sotto controllo i conti pubblici anche se la UE è debole.
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Re: Una riflessione sulla crisi Greca

Messaggioda flaviomob il 14/04/2012, 11:15

L'Italia è uscita da molte crisi, con modalità che conosciamo, quando c'era la lira. Dopodiché tornava a crescere.
Questa crisi, con la moneta unica (ma senza uno stato europeo forte alle spalle), diventa molto più complessa e l'assenza di crescita, in Italia, è molto più prolungata senza la leva della svalutazione per rilanciare le esportazioni. Quindi l'Europa, per come è strutturata, direi che c'entra parecchio. Questo non per dire che "non dipende da noi", dato che noi si dà il caso che siamo anche europei oltre che italiani, ma che esiste un problema strutturale europeo. Non puoi unire stati tanto diversi in un'unica moneta (lo abbiamo visto con la parità tra valuta argentina e dollaro, che cosa successe) senza un processo di forti riforme politiche (nazionali e federali) alle spalle. E l'Italia non cresce più da una decina d'anni: qui si rischia la bancarotta.

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di Vincenzo Comito
Europa: il peggio è dietro l'angolo
http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/c ... golo-13190
A dispetto delle parole rassicuranti dei politici, l'Europa – soprattutto Spagna, Italia e Grecia – continua a rischiare grosso, se non si cambia presto rotta
Dopo le turbolenze del 2011, che hanno fatto per qualche tempo pensare anche ad un crollo imminente del sistema dell’euro, è sembrata poi essere tornata la calma. In effetti, è stato varato un secondo piano di salvataggio per la Grecia; l’Italia ha ora un governo più credibile, almeno sul fronte internazionale; la Spagna è andata alle elezioni e ora il suo governo, come quello Monti da noi, usa il pugno di ferro con i più deboli; per convinzione interna oltre che per compiacere i cosiddetti mercati, i governi dell’Unione hanno approvato il piano di stabilità e varato il nuovo fondo salva stati; infine la Bce ha inondato un sistema bancario boccheggiante di una valanga di denaro. Molti, tra cui anche Draghi e poi Monti, hanno così cominciato a dichiarare che il peggio era ormai passato e che la crisi dell’euro era nella sostanza finita. Ma, di fatto, nessuno dei problemi cui si trovava di fronte il continente europeo e la sua moneta sono stati risolti. Con gli interventi citati si è guadagnato del tempo, ma non sembra che lo si stia usando per fini in qualche modo produttivi. I mercati, del resto, hanno ricominciato a mostrare segni di nervosismo, temendo un ritorno ad una fase di crisi acuta, cosa che sembra molto plausibile.
La Spagna
Le luci della ribalta si sono riaccese soprattutto sulla Spagna. Il paese è fortemente indebitato, ma per la gran parte l’esposizione era concentrata, almeno sino a non molto tempo fa, nel settore privato. Alla fine del 2010 il livello del debito di tale comparto era pari al 227,3% del pil e la cifra corrispondente per il 2011 dovrebbe essere solo leggermente diminuita (Munchau, 2012). Ma, per venire in soccorso del mondo privato, lo Stato si è a sua volta indebitato e così il totale dell’esposizione del paese è passata dal 337% del pil nel 2008 al 363% della metà del 2011 (autori vari, 2012): una cifra enorme. D’altro canto, il settore immobiliare si trova in una situazione disperata. I prezzi delle case alla fine del 2011 erano caduti del 21,7% rispetto alla punta massima del 2007, ma per tornare alla normalità dovrebbero ridursi ancora di almeno altrettanto (Munchau, 2012). La crisi dell’immobiliare si riflette sulle banche, che hanno appena cominciato a svalutare i crediti relativi nei loro bilanci e che dovranno svalutarli ancora per cifre molto grandi. Sono in gioco peraltro anche i crediti di molti istituti europei, in particolare francesi e tedeschi, che in passato hanno generosamente contribuito a sostenere il “miracolo” spagnolo. La tendenza alla riduzione del debito pubblico e, insieme, di quello privato, rappresenta certamente una miscela esplosiva che produrrà una recessione di lunghissima durata. Così sul fronte finanziario si sta presumibilmente andando verso un default. Intanto, l’obiettivo della discesa del deficit pubblico dall’8,5% del pil nel 2011 al 3% del 2013 è giudicato impossibile da raggiungere da tutti gli osservatori neutrali. Il paese si trova di nuovo in recessione – le previsioni più ottimistiche parlano di una riduzione del pil dell’1,7% per il 2012 – e il livello di disoccupazione ha raggiunto a gennaio 2012 la cifra del 23,6% della forza lavoro. I piani di austerità del governo vanno avanti con risultati che non dovrebbero mancare di rivelarsi catastrofici, come a suo tempo nel caso greco. Nella sola Andalusia, nei primi due mesi di applicazione della nuova legge sui licenziamenti, questi sono aumentati di otto volte rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
La Grecia
Se la Spagna non è ancora arrivata al default, l’avvenimento si è già consumato in Grecia, che ha da poco completato al riguardo una procedura “ben ordinata”. Ma questo non ha certo tranquillizzato gli animi della popolazione, che si trova ora davanti a molti anni di sofferenze. In tre anni di austerità, del resto, il debito è salito dal 113% del pil al 163%, mentre la disoccupazione è arrivata al 22%. Con le operazioni da poco concluse il governo cancellerà 107 miliardi di euro da un debito complessivo di circa 350 miliardi e riceverà un prestito intorno ai 130 miliardi, dopo i 110 ottenuti con il precedente intervento. Secondo gli enti internazionali che hanno gestito l’operazione, si dovrebbe arrivare ad un rapporto tra debito e pil pari al 120,5% nel 2020. Ma il piano, che richiede al paese mosse insostenibili e persino deliranti, non contribuirà a ridurre il debito greco in maniera adeguata, semmai affonderà di più la sua economia. Intanto il pil è diminuito del 6,8% nel 2011 e dovrebbe farlo del 4,5% circa nel 2012. Lo stesso piano riduce tra l’altro salari, pensioni e servizi pubblici e diminuisce di 150.000 addetti il settore pubblico. Le fughe di capitali tra il 2009 e oggi sono stimate ad almeno 60 miliardi di euro – per qualcuno potrebbero anche risultare come pari al doppio di tale cifra –, mentre il paese continua ad essere di fatto governato da un sistema neofeudale, nel quale preti, militari e ricchi borghesi continuano ad attribuirsi tutti i privilegi (D. Cohn-Bendit, 2012). Qualunque analista serio sa che, da una parte, anche un livello del 120% di debito sul pil sarebbe comunque insostenibile per un paese come la Grecia, dall’altra che, in realtà, la cifra finale sarà quasi certamente molto più elevata. Per rispettare l’obiettivo, in effetti, l’economia dovrebbe crescere del 2,3% all’anno dal 2014 al 2020, in un paese che è in recessione dal 2008; bisognerebbe parallelamente realizzare un avanzo di bilancio dell’1,7% già nel 2013, per poi portarlo sopra il 4% dal 2014 in poi. Impossibile. Se la crescita del pil e il saldo primario fossero più bassi di un punto percentuale rispetto allo scenario base, il livello del rapporto debito-pil non scenderebbe mai sotto il 150% (Il Sole 24 ore, 2012). Intanto la situazione delle banche appare catastrofica. Da una parte esse registrano una grande fuga dei depositanti, dall’altra un forte aumento del livello dei crediti in sofferenza e terrificanti perdite sui titoli di stato del paese. Il primo ministro, L. Papademos, mentre ha sottolineato che saranno necessari nuovi tagli alla spesa pubblica, ha ammesso che il paese potrebbe aver bisogno di un terzo intervento da parte dell’Unione Europea, dato anche che esso non riuscirà a tornare sul mercato finanziario almeno per i prossimi dieci anni.
L’Italia
Dopo tante manovre finanziarie più o meno inique, la situazione dei conti appare ancora legata ad un rapporto debito/pil intorno al 120%. Rispetto a questa constatazione si può richiamare un articolo di Roubini (Roubini, 2011) di qualche mese fa, cui avevamo fatto già riferimento in un’altra nota. Il testo aveva il merito di sottolineare l’insostenibilità della situazione e come il paese sia condannato, a più o meno breve termine, a ristrutturare il suo debito. Questo, stando almeno agli attuali tassi di crescita (o meglio di decrescita) dell’economia e ai livelli dei tassi di interesse. Intanto le previsioni sull’andamento del pil per il 2012 oscillano in negativo tra il 1,6% e il 2,5%. Il problema ruota intorno alla capacità del paese di ritrovare la strada dello sviluppo, strada che sembra aver perso molto tempo fa. Anche l’attuale governo Monti, come quello precedente, sembra insistere invece con delle politiche soltanto recessive, come molti degli stessi ambienti internazionali cominciano a percepire.
Conclusioni
I tre paesi presentano alcune importanti caratteristiche comuni, da un elevato indebitamento a delle prospettive di crescita dell’economia per lo meno problematiche, all’aumento continuo dei livelli di disoccupazione. Il nuovo fondo salva stati non appare in grado di far fronte ad un’eventuale crisi che investisse Spagna ed Italia, mentre nulla sembra previsto per innescare un grande piano di investimenti a livello di Unione Europea nell’ambito del necessario riavvio di un processo di integrazione politica del continente. Si tratterebbe dell’unica mossa in grado, a nostro parere, di contrastare adeguatamente una crisi che è sempre là, dietro l’angolo.
Testi citati nell’articolo
Autori vari, Debt and deleveraging, Uneven progress on the path to growth, McKinsey Global Institute, Washington, gennaio 2012
Cohn-Bendit D., Le mépris de l’Europe, Le Nouvel Observateur, 23 febbraio 2012
Margaronis M., As Greece stares into the abyss, Europe must choose, www.guardian.co.uk, 12 febbraio 2012
Munchau W., There is no Spanish siesta for the eurozone, www.ft.com, 18 marzo 2012
Il Sole 24 ore, Atene, le tre sfide impossibili per la salvezza definitiva, www.ilsole24ore.it, 11 marzo 2012
Roubini N., Italy’s debt must be restructured, www.ft.com, 29 novembre 2011
The Nation, Greece in meltdown, www.thenation.com, 29 febbraio 2012


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