Ripartire dalle imprese per tornare a crescere, di Massimo Famularo
Sul fatto che il principale problema dell'economia italiana sia la scarsa crescita (-1,7% di contrazione del PIL atteso per il 2012 secondo le stime di Fitch Ratings,-1,3% media delle ultime variazioni trimestrali messe a disposizione dall'istat), esiste un consenso abbastanza unanime, anche in considerazione del fatto che lo scetticismo degli investitori internazionali nei confronti del nostro debito pubblico dipende principalmente dalle attese sull'evoluzione del suo rapporto nei confronti del PIL (attualmente intorno al 120%).
Divergenze di vedute invece sussistono sulle modalità per far fronte al problema. Per i sindacati e i partiti di sinistra, occorrono maggiori investimenti da parte delle imprese e sostegno dello stato alle famiglie, in particolar modo alle fasce più deboli. Una ricetta di sinistra è stata proposta su Linkiesta da Giacomo Lughini. Da destra, si vorrebbe invece introdurre maggiore flessibilità nel mercato del lavoro ed alleviare il carico fiscale sulle imprese. Nel mezzo, il governo Monti si prefigge l'obbiettivo di agevolare la crescita mediante provvedimenti di liberalizzazione e semplificazione amministrativa.
Che si prediliga la leva dello stato o quella del mercato, appare indubbio che gli attori principali nella partita della crescita economica debbano, per forza di cose, essere le imprese. Partendo da questo presupposto, provo a formulare alcune semplici considerazioni.
Cosa spinge un imprenditore ad avviare una nuova attività o a investire ulteriormente in una esistente? Di norma, l'incentivo principale consiste nella possibilità di trarre dal proprio investimento un rendimento, che possa compensarlo adeguatamente per il rischio affrontato e per l'impregno profuso nell'impresa. A questo proposito, che prospettive offre il nostro paese?
Un'indicazione sintetica piuttosto efficace si può evincere dalla classifica stilata dalla banca mondiale sulla facilità di fare impresa (qui dettagli sulle metodologie di calcolo degli indici per la classifica) .
L'Italia è all'87° posto su 183 paesi e, per avere un'idea più precisa del posizionamento relativo, la Spagna è al 44° posto, la Francia al 29°,la Germania al 19°, l'Inghilterra al 7°. Tra i paesi che immediatamente che ci precedono in classifica troviamo, Mongolia, Zambia, Albania, Namibia, Romania, Turchia e Repubblica Ceca.
Andando a guardare le componenti dell'indice in base al quale è ordinata la classifica, possiamo osservare che l'Italia è al 158° posto nell'enforcement dei contratti, dopo la Grecia che è al 90° posto, lontano dalla Spagna che è 54ma e molto lontano da Francia e Germania rispettivamente al 6° e 8°posto. Sotto questo profilo ci troviamo invece preceduti di poco da Kosovo, Indonesia, Madagascar,Pakistan, Togo, Gabon, Colombia e Sudan.
Per chiudere brevemente sulle altre componenti, l'Italia è 134ma per quanto riguarda il pagamento delle imposte, 109ma nell'ottenimento di energia elettrica (!), 98ma nell'accesso al credito credito e 96ma per quanto riguarda i permessi di costruzione.
In questa prospettiva, l'Italia non è esattamente un paese per imprenditori e una ulteriore conferma si può trovare negli investimenti diretti dall'estero poichè l'attitudine degli stranieri ad investire in un paese fornisce un'importante indicazione in merito a quanto quell'economia offra o meno incentivi all'attività d'impresa.

Il confronto più rilevante è sicuramente nei confronti della Spagna e della Gran Bretagna, paesi che, rispetto al nostro, hanno dimostrato di saper offrire agli investitori stranieri un ambiente decisamente più attraente (il grafico è una mia elaborazione su dati Banca Mondiale).
Last but not least possiamo osservare, che nell'ambito dei paesi OCSE l'Italia si segnala per una pressione fiscale tra le più elevate: su 34 paesi, l'Italia è al 31° posto per la pressione fiscale più alta con una percentuale del 43,4% del Pil (dato 2009 per il quale il sito offre un meggior numero di termini di paragone, un valore più aggiornato qui) a fronte di una media del 33,8% fra tutti i paesi, di un massimo del 48,1% (Danimarca) e di un minimo del 25,9 %(Australia).
A questo proposito, su segnalazione dell'amico Franco, riporto anche il dato inerente la pressione fiscale specifica sulle imprese, misurata dal total tax rate as % of commercial profits: nel 2011 l'italia è 14ma su 244 (*) con una percentuale del 68,5% a fronte del 55% per i paesi meno sviluppati secondo la classificazionedelle nazioni unite, del 44,7% dell'area Euro,del 46,4% della Grecia, del 64,8% dei paesi poveri con elevato indebitamento (!).
Quali conclusioni è possibile trarre?
L'ambiente scarsamente favorevole alle imprese costituisce una delle principali determinanti della scarsa crescita del nostro paese, se non affrontiamo questo nodo, non è pensabile di ritornare su un sentiero di crescita. Fra i vari elementi che disincentivano l'attività d'impresa ce ne sono due che potrebbero e dovrebbero essere affrontati con la massima urgenza: l'elevata pressione fiscale* (in questo articolo suggerisco un modo per ridurla, riducendo proporzionalmente la spesa pubblica) e l'enforcement della legge.
Se quest'ultimo profilo ha anche importanti ricadute in termini di maggiore equità, non si può tacere dei rilevanti costi sociali che impone (per i soggetti che oggi beneficiano della tolleranza verso le inadempienze), tuttavia nel trade off tra mancata crescita ed eccessiva tolleranza non esistono terze vie: rimandare la scelta, significa decidere di crescere meno.
@MassimoFamularo
Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/blogs/apologia- ... z1mifJbIq1
Nell'articolo originario trovate tutti i link di approfondimento
Nota(*) la classifica mette al primo posto i paesi fiscalemte piu' cari per la tassazione delgi utili (profitti commerciali).