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PD: “Caro Berlusconi, giù le tasse”

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PD: “Caro Berlusconi, giù le tasse”

Messaggioda franz il 02/05/2010, 22:48

“Caro Berlusconi, giù le tasse”
La spesa pubblica? Da tagliare. Il fisco? Da rivoluzionare. Il federalismo? Da approvare. Il responsabile Economia del Pd presenta tre proposte per firmare con la maggioranza un patto sull’economia

La spesa pubblica da tagliare, il fisco da rivoluzionare e il federalismo da approvare. Eccole le tre proposte choc di politica economica che nei prossimi giorni arriveranno sulla scrivania del segretario del Partito democratico, Pier Luigi Bersani. Tre proposte concepite “con l’idea di creare una nuova cultura economica del centrosinistra” e anticipate dal responsabile del settore del Partito democratico, Stefano Fassina, in questa intervista al Foglio. “Per il bene dell’Italia, deve essere responsabilità del maggior partito dell’opposizione uscire fuori dal chiacchiericcio quotidiano della politica inconcludente e prendersi la responsabilità di fare delle proposte alla maggioranza per far funzionare meglio il nostro paese.

In una fase legislativa potenzialmente costruttiva caratterizzata da tre anni senza grandi elezioni, al di là dei preoccupanti scazzi interni alla maggioranza, bisogna avere il coraggio di incalzare quanto più possibile il governo su alcuni temi che per noi sono cruciali. La politica economica, in questo senso, è un terreno sul quale occorre confrontarsi in modo sereno e il prima possibile; ed è proprio per questo che crediamo sia giunto il momento di rompere alcuni tabù della nostra storia e mettere in gioco le nostre idee, anche a costo di scontentare qualcuno”.

Negli ultimi tempi, molti dirigenti del Partito democratico si sono convinti che la scarsa percezione di solidità della leadership di Bersani sia stata legata soprattutto a una difficile gestione della materia principale del bersanismo: ovvero l’economia. I temi economici erano stati gli argomenti attraverso i quali il segretario del Pd aveva promesso, all’inizio del suo mandato, che avrebbe incalzato il più possibile la maggioranza; ma fino a oggi le prove di forza del Pd su questa materia sono state obiettivamente poco incisive. “Abbiamo commesso alcuni errori – riconosce Fassina – e va ammesso che non siamo stati sempre abili a far emergere la nostra identità su temi delicati come quelli economici. Fatta questa riflessione, credo sia arrivato il momento di disegnare e progettare per il nostro partito una nuova cultura economica, capace di essere una sintesi perfetta delle nostre tradizioni e una buona rielaborazione delle esigenze del nostro elettorato. Ebbene, per un paese economicamente e socialmente evoluto come l’Italia, è inutile nascondere che in questo momento, per sostenere la crescita, una rivoluzione fiscale è tra le priorità”.

Fassina ha letto con attenzione la proposta formulata la scorsa settimana su questo giornale dall’Ingegnere Carlo De Benedetti per abbassare le tasse, ed è proprio dalle parole dell’editore del Gruppo Espresso che inizia il ragionamento. “Bisogna smettere di credere che la questione dell’abbassamento delle tasse sia soltanto una fissa degli integralisti del liberismo. Non è così. Conosciamo perfettamente i dati che ci arrivano costantemente dall’Ocse ed è sciocco nascondersi: oggi l’Italia è ai primi posti nel mondo per pressione fiscale e a questo, come notava giustamente De Benedetti, va aggiunto che i lavoratori italiani hanno una delle più pesanti tassazioni europee sulle proprie buste paga. E allora: come si fa a rilanciare la propensione al consumo degli italiani, dando loro la certezza di guadagnare di più, subito e in prospettiva? Abbassando, quanto possibile, le imposte”. Fassina entra nel merito della sua proposta. “La riforma fiscale che abbiamo in mente, e di cui parleremo sia al presidente della Repubblica sia al presidente del Consiglio, deve premiare i produttori, i lavoratori, i professionisti – artigiani e commercianti – e naturalmente gli imprenditori; deve fare in modo di recuperare la progressività, semplificando gli adempimenti (dove per adempimenti si intendono dichiarazioni fiscali e pagamenti delle imposte), ossia rendere meno onerosa per il contribuente la fedeltà fiscale. Si deve dunque spostare il prelievo da chi paga a chi non paga, dai redditi da lavoro e impresa alla rendita e al patrimonio, dalle attività green e sostenibili alle attività black e dannose per l’ambiente.

Piccolo particolare da non sottovalutare: data la nostra condizione di finanza pubblica, e dato lo scenario accidentato che ci ritroviamo di fronte a noi, il vincolo per poter dar vita a questa riforma è la neutralità in termini di indebitamento. In sostanza, il carico fiscale pro capite sul lavoro e sull’impresa – ovvero Irpef, Ires e Irap – deve scendere in relazione all’emersione di basi imponibili, e al contributo di altre fonti di entrata e alla riduzione (e riqualificazione) della spesa pubblica”. Ovvero: “Niente riforma fiscale se non si ridiscute, oltre al recupero di evasione, sul modo in cui viene gestita, e spesso sperperata, la spesa pubblica”. “Il baricentro della riforma – continua Fassina – è la tassazione dei redditi, di tutti i redditi, con un’aliquota di riferimento al 20 per cento. Per quanto riguarda l’imposta sul reddito delle persone fisiche, oggi al 23 per cento, è necessario che la prima aliquota venga immediatamente abbassata di tre punti.

Non solo.
Il limite del primo scaglione di importo andrebbe innalzato, e contemporaneamente andrebbero ridisegnati gli scaglioni residui per sostenere i redditi delle classi medie diminuendo il numero delle aliquote: cinque sono davvero troppe. Infine, per semplificare il fisco, e su questo sono d’accordo con il ministro Tremonti, si dovrebbe disboscare la giungla di deduzioni e detrazioni riconducendola a razionalità”. Altro punto della riforma proposta da Fassina: “Per il lavoro femminile e la famiglia, andrebbe invece introdotta una consistente detrazione fiscale ad hoc per il reddito da lavoro delle donne che si trovano in nuclei familiari formati almeno da tre figli minori. Gli assegni familiari e la detrazione per figli a carico andrebbero superati assegnando un bonus famiglia di 3.000 euro all’anno per ogni figlio – a cominciare dalla fascia 0-3 anni – da estendere anche ai lavoratori autonomi e ai professionisti. E proprio ai lavoratori autonomi e professionisti, quelli che si trovano al di sotto dei 70 mila euro di fatturato annui, andrebbe offerta la possibilità di evitare gli studi di settore e scegliere un’imposta sul reddito di cassa, al 20 per cento, che sia sostitutiva di Irpef, dell’Iva, e dell’Irap. Infine, per chiudere il cerchio dell’armonizzazione del prelievo, i redditi da affitto e i redditi da capitale andrebbero sottoposti a imposta del 20 per cento, e il relativo gettito destinato alla fiscalità comunale. La service tax proposta dal ministro Calderoli ha un impatto troppo regressivo”.

Gli studi di settore, come è noto, sono uno strumento introdotto nel 1998 dall’allora ministro delle Finanze Vincenzo Visco. Il loro compito è quello di raccogliere un insieme di dati che caratterizzano l’attività in cui operano le imprese, con l’obiettivo di valutare la capacità reale di produrre reddito. Uno strumento che secondo Fassina – che di Visco è stato collaboratore e che con Visco lavora all’interno della fondazione Nens – oggi “è sinonimo di un’insostenibile carico fiscale e contributivo per una parte consistente della platea di lavoratori autonomi, e di giovani professionisti, e per questo andrebbe rapidamente abolito”. L’aggettivo “insostenibile” Fassina non lo usa in maniera casuale. Il responsabile del settore economico del Partito democratico, infatti, riconosce che, tra i tanti tabù di cui si deve liberare un partito che ambisce a diventare una valida alternativa all’attuale maggioranza, ce n’è uno che riguarda una “drammatica percezione”: quella che il centrosinistra sia il partito delle tasse.

Sì: il centrodestra fa davvero poco per dimostrare di non essere il partito che aiuta gli evasori – e il caso dei condoni resta a mio avviso una scelta politica che non potrà mai essere apprezzata da un vero partito di centrosinistra – ma dall’altra parte una realtà riformista come la nostra non può dimenticare che la storia dell’Italia dimostra che in molti casi l’evasione fiscale, oltre che patologica, è stata anche condizione di sopravvivenza di una parte consistente del pulviscolo di imprese individuali e delle moltitudini di lavoratori autonomi. Per questo, bollare come ‘ladri’ gli evasori, come fanno invece troppe persone a sinistra, è un’assurda generalizzazione; astrattamente condivisibile, ma sbagliata sul piano etico e perdente sul piano politico: perché mette insieme l’artigiano stressato da quattordici ore di lavoro al giorno, e costretto all’evasione per rimanere – o, almeno, illudersi di essere – nelle ultime file delle classi medie e l’imprenditore con yacht e case per le vacanze sparse per l’Italia che magari evade le tasse solo per profondo egoismo sociale. Parliamoci chiaro – dice Fassina – c’è davvero qualcuno convinto che la spaventosa pressione fiscale che si ha in Italia – con aliquota individuale massima al 43 per cento contro una media del 35,7 per cento nel resto dell’Europa – sia utile alla crescita e al benessere del paese? Sinceramente, io credo di no”.

Dall’altro lato, dice ancora il dirigente romano del Pd, bisogna tentare in tutti i modi di riportare alla normalità europea l’evasione fiscale. “Sì, è questa la vera condizione per la riduzione del prelievo pro capite. Diciamolo in sintesi: potenziamento delle banche dati, tracciabilità dei pagamenti, accesso dell’Agenzia delle entrate alle informazioni bancarie. In più, a mio avviso, andrebbe messa in Costituzione l’impossibilità di fare condoni, o almeno andrebbe prevista una maggioranza qualificata (ad esempio dei due terzi) per attuarli in caso di estrema necessità”.

Fassina torna poi a ragionare su uno dei punti chiave della proposta fatta da De Benedetti su questo giornale. “Ha ragione l’Ingegnere quando dice che ridurre il peso del fisco sul lavoro si deve e si può. Per quanto riguarda le imprese, dalla base imponibile Irap, imposta ingiustamente odiata dai ‘piccoli’ perché grava all’80 per cento sulle società di capitali, come evidenzia un recente studio di Confartigianato, andrebbe eliminato del tutto il costo del lavoro. Inoltre, per favorire l’innovazione, andrebbe cancellato l’oppressivo ‘click day’ (un meccanismo che ponendo un tetto al credito di imposta che di fatto svuota l’incentivo) e ripristinato in pieno il credito di imposta per le spese in ricerca e sviluppo e per gli investimenti nel Mezzogiorno. Aggiungo che nell’attuale emergenza andrebbe sospeso il limite del 30 per cento alla deducibilità Ires degli interessi passivi (interessi che non possono penalizzare un’azienda che in una fase di crisi generale non fa utili). In prospettiva, si potrebbe persino arrivare a eliminare l’imposta sulle società e tassare il reddito esclusivamente in capo ai soci”.

Detto in altre parole, Fassina vuole dire che se una società non ridistribuisce gli utili ma investe nell’azienda quanto guadagnato, ecco, le tasse non le deve pagare. “In più, altro particolare da considerare con attenzione, la detrazione fiscale del 55 per cento, introdotta nel 2006, per le ristrutturazioni edilizie eco-sostenibili andrebbe resa permanente: era una buona idea dell’ultima legge finanziaria ma è stata troppo presto dimenticata”.
Una “cattiva idea” avuta invece dai compagni di partito è, secondo Fassina, la proposta presentata alla Camera da Cesare Damiano la scorsa settimana, quando l’ex ministro del Lavoro, nel corso dei lavori in Aula, ha invocato un’introduzione di un “contributo fiscale di solidarietà” sui redditi superiori a 200 mila euro annui. Motivo? Prolungare da dodici a ventiquattro mesi la cassa integrazione ordinaria. “Non dobbiamo cadere nella trappola del tax and spend – commenta Fassina – del partito che per poter svolgere con correttezza le sue politiche di welfare ricorre alle tasse. Posso dire senza problemi che è stato sbagliato quanto ha fatto il gruppo del Pd alla Camera, proponendo di aumentare le imposte sui redditi più elevati per coprire l’estensione della cassa integrazione. Il bisogno di introdurre altre tasse sinceramente io non lo vedo proprio”.

All’interno della proposta democratica di rivoluzione fiscale, c’è poi un particolare che va tenuto in considerazione dalla maggioranza. Riguarda il federalismo: “Sono convinto – sostiene il responsabile dell’Economia del Pd – che il governo commette un grosso errore quando, portando avanti una poco comprensibile politica dei due tempi, ripete che una riforma fiscale può essere fatta soltanto dopo il federalismo. Non è così. La ruota dei decreti attuativi del federalismo fiscale, lo sappiamo tutti, ha iniziato a girare da mesi: la commissione tecnica presso il ministero dell’Economia e la commissione Bicamerale sono al lavoro su questo terreno da settimane, e il Pd – questo deve essere chiaro – non avrebbe grandi problemi a discutere le proposte portate in commissione sia dalla Lega sia dal Pdl. Ma a condizione che si capisca urgentemente una cosa fondamentale: la rivoluzione fiscale non può che avvenire simultaneamente alla rivoluzione federalista del nostro paese: non si può sfiorare la tassazione territoriale senza una visione generale della riforma complessiva del fisco. Per questo – dice ancora Fassina – è necessario allargare il lavoro della commissione Tecnica e della commissione Bicamerale per affrontare insieme almeno l’impalcatura del disegno fiscale generale. Subito, senza rinviare. Esistono gli spazi istituzionali e le convergenze politiche per arrivare – su un punto cardinale della Costituzione materiale del paese – a soluzioni ampiamente condivise, e sarebbe sciocco buttare questa grande occasione che abbiamo: migliorare la vita dei nostri cittadini”.

Fassina dice di non considerare affatto scontato un dialogo con la maggioranza su un tema delicato come quello del fisco; ma su un altro terreno politico è invece convinto che si possa raggiungere qualche risultato immediato, anche piuttosto in fretta. “In campo europeo, dobbiamo ammetterlo, spesso le iniziative del ministro Tremonti sono largamente condivisibili. Per quanto riguarda il caso Grecia, la posizione del governo italiano è giusta e va sostenuta. E proprio sul terreno della politica europea sono convinto che sia arrivato il momento di aprire con la maggioranza un confronto. L’obiettivo prioritario, verso il quale il Parlamento dovrebbe lavorare unito, è quello di promuovere una governance di politiche comune in Europa. I seicento milioni di euro messi in gioco dalle Casse depositi e prestiti europee con il così detto ‘Fondo Marguerite’ – ottima iniziativa voluta dal ministro Tremonti – sono utili ma sono ancora insufficienti. Dobbiamo lavorare, insieme ai partner comunitari, a un ‘piano europeo per il lavoro’”.
Secondo Fassina, sarebbe poi utile insistere, in sede europea e Ocse, per trovare una soluzione per contrastare il tax dumping. “La competizione fiscale al ribasso praticata da molti paesi europei dell’est è una vera e propria forma di concorrenza sleale per i mercati dell’Unione europea e va risolta.

Credo infine che l’Italia, in stretta relazione con i pochi altri paesi europei consapevoli della necessità di regole globali per evitare serie regressioni protezioniste, dovrebbe premere affinché in ambito europeo, nel G20 e nel Wto si valuti un’ipotesi di border tax adjustment. Ovvero di una tassazione sull’import di prodotti e servizi irrispettosi di standard sociali e ambientali minimali – come capita per esempio con troppi beni provenienti dalla Cina. La nostra disponibilità a discutere di tutto questo c’è: ora tocca al ministro Tremonti dire se vuole trovare assieme a noi delle buone idee per migliorare il nostro paese”.

Il responsabile del settore Economia e Lavoro del Partito democratico si chiama Stefano Fassina, ha quarantaquattro anni, fa parte della segreteria del Pd ed è direttore scientifico dell’associazione Nens. Fassina è uno dei collaboratori più stretti del segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Dal 1996 al 1999 è stato consigliere economico del ministero del Tesoro (ai tempi di Carlo Azeglio Ciampi). Dal 2000 al 2005 ha lavorato a Washington al Fondo monetario internazionale. Dal 2006 al 2008 ha lavorato con Visco al ministero dell’Economia e delle Finanze.

http://www.ilfoglio.it/soloqui/5030
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De Benedetti: Caro Tremonti, giù le tasse per favore

Messaggioda franz il 02/05/2010, 22:50

De Benedetti: “Il rigore non può essere una scusa per non fare”
Caro Tremonti, giù le tasse per favore
C’è da ribaltare l’inesorabile arretramento del paese. Servono riforme economiche. Un vero choc di crescita può arrivare solo dal taglio delle imposte. E dalla patrimoniale


C’è un detto diffuso tra gli economisti americani per cui “anche un gatto morto rimbalza”. Come dire che dopo ogni caduta, in economia, segue sempre una risalita. Ma se il gatto è morto, la risalita sarà effimera. E il ritorno al segno più, per i corsi di un titolo come per la produzione di ricchezza di un paese, farebbe bene a non creare illusioni sulla salute dell’azienda o dell’economia che stanno dietro quel segno. Perciò non bisogna guardare con troppo ottimismo ai deboli segnali di ripresa che hanno caratterizzato l’economia italiana in questi primi mesi dell’anno. Pil e produzione industriale sono tornate al segno più, ma già i prossimi mesi si annunciano tutt’altro che positivi.

E l’approdo a una crescita stabile e sostenuta appare sempre più come un miraggio, una illusione destinata a sparire come una fata morgana nel deserto. Sono vane le dispute nominalistiche sul declino o meno dell’Italia. Vane e un po’ deprimenti, quasi che l’analisi economica si riduca a battibecco tra italiani e anti italiani, sostenitori del governo e simpatizzanti dell’opposizione. Si dimentica la lezione di Luigi Einaudi: la consapevolezza della realtà come base dell’agire politico, conoscere per deliberare.
Se vogliamo contribuire a un ritorno del nostro paese a un percorso di crescita e di sviluppo, dobbiamo innanzitutto partire dalla realtà. E allora, come hanno spiegato in un bell’articolo sul Sole 24 Ore Guido Tabellini e Giorgio Barba Navaretti, la prima cosa da fare è sbarazzare il campo dall’equivoco che le cose dopo tutto non vanno poi così male. Le cose, per l’economia italiana, vanno male. E non da oggi.

Nel triennio 2005-2008 il prodotto interno lordo è cresciuto di oltre otto punti meno della media dell’area euro. Il 2009, l’anno della crisi, ha visto poi un arretramento del nostro reddito del 5 per cento contro il 4,1 per cento dei nostri partner europei. E le previsioni per il 2010-11 non indicano certo che la ripresa italiana sarà più rapida degli altri paesi dell’area euro.
Per tornare ai livelli di ricchezza pre-crisi, ai ritmi di crescita oggi prevedibili per i prossimi anni, sarà necessario almeno un quinquennio. Ma gli altri paesi, nel frattempo, avranno corso molto di più, sulla scena si saranno affermati nuovi giganti economici oggi in ascesa, la nostra quota del commercio mondiale risulterà fortemente ridimensionata. Al recente convegno di Parma della Confindustria, pur in un contesto di grande prudenza politica, l’analisi del centro studi è stata implacabile, segnalando in particolare una forte preoccupazione per le sorti della manifattura, da sempre fiore all’occhiello della nostra economia. C’è un rallentamento ventennale del tasso di crescita della produttività sia del lavoro che dell’insieme dei fattori produttivi. Tra il 1995 e il 2007, il valore aggiunto per ora lavorata dell'industria manifatturiera è cresciuto del 6,6 per cento, contro il 51 per cento in Francia e il 45 per cento in Germania.

I salari, lordi e netti, sono tra i più bassi d’Europa, e mortificano potere d'acquisto delle famiglie e consumi. La spesa per investimento flette, mentre continua a correre quella corrente e la crescita del debito pubblico non si arresta.
Questa è la realtà che abbiamo davanti. Ed è la realtà di un paese che, senza interventi coraggiosi, è destinato a perdere il proprio futuro e a perdersi. Perciò leggo con sofferenza le affermazioni di chi sostiene che le riforme prioritarie per l’Italia siano quelle istituzionali. Non che uno stato e una politica più efficienti non siano un’infrastruttura fondamentale del nostro paese, anzi, ma sono anni che se ne discute senza risultati apprezzabili. E intanto l’Italia arretra. Sarebbe opportuno che in primo piano, nella discussione politica, tornino ad esserci le riforme economiche. E non per una di quelle giaculatorie, cui ormai ci stiamo assuefacendo, sul che fare.

Più ricerca, più formazione, più education, certamente. Meno burocrazia e più legalità, non c’è dubbio. Magari efficienza del settore pubblico e migliore allocazione delle risorse disponibili. Tutto giusto e condivisibile. Ma io credo che non ce la faremo se non saremo in grado di dare un vero e proprio choc di crescita al nostro paese. Una scossa che segni anche un cambiamento strutturale per l’economia italiana. E lo choc potrà venire solo con una poderosa riduzione delle imposte che oggi gravano sul lavoro e, indirettamente, sulle imprese. Serve un abbattimento massiccio e generalizzato delle imposte sulle persone fisiche e sulle società. Un intervento radicale, nell’ordine di molti punti percentuali su tutte le aliquote. Secondo i dati dell’Ocse e della Kpmg l’Italia oggi è ai primi posti nel mondo per pressione fiscale. Malgrado le ripetute promesse di tagli, il peso del fisco resta intorno ai massimi storici. E pesa in particolare il cosiddetto “cuneo”, cioè proprio le imposte che trasformano buste paga pesanti per le imprese in buste paga leggere per i lavoratori.

E’ soprattutto qui che bisogna agire. E bisogna farlo con un taglio tale da offrire un fattore nuovo di competitività alle imprese, ormai schiacciate nella concorrenza mondiale sulle retribuzioni; e in modo da rilanciare la propensione al consumo degli italiani, dando loro la certezza di guadagnare di più, subito e in prospettiva. So bene che una simile proposta si potrebbe scontrare con la realtà di un debito pubblico in costante crescita e con un rischio Grecia, che è una realtà per un paese come il nostro che è sempre in mezzo al guado. Chi, come me, è invecchiato in un’Italia sempre al limite del baratro del default non può che considerare il rigore nei conti come una necessità prima ancora che una virtù. Ma il rigore non può essere una scusa per non fare. Altrimenti, la cura del rigore porterà il paziente Italia alla morte.

Le imposte sul lavoro si possono ridurre. Si possono ridurre, innanzitutto, conducendo un – questo sì – rigoroso e coraggioso taglio della spesa pubblica. Molta di questa spesa è obbligatoria, perché è fatta di stipendi e servizi essenziali, ma c’è una quota di almeno il 10 per cento sulla quale si può e si deve agire, anche a costo di pagare nel breve un pegno in termini di consenso. Sulle pensioni, per esempio, servirebbe un generalizzato aumento dell’età del ritiro: proprio non si capisce come possiamo permetterci di continuare ad essere uno dei paesi d’Europa dove ci si ritira prima dal lavoro. Ma anche sulla spesa per l’acquisto di beni e servizi della Pubblica amministrazione è venuto il tempo di fare davvero sul serio per ridurre sprechi e liberare risorse utili alla crescita.

C’è poi una vera rivoluzione fiscale da attuare. Ne ho parlato già qualche mese fa in un articolo sul Sole 24 Ore. Ma la sola evocazione del termine patrimoniale ha suscitato reazioni irrazionali. Qui non si tratta di intervenire con una tantum per colpire la ricchezza improduttiva. Il senso di quello che propongo è spostare il peso del fisco dalla produzione e dal lavoro alla ricchezza che si fa cose. Dalle “persone alle cose”, ha sintetizzato in uno slogan efficace il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, nel suo libro bianco sul fisco. E io trovo giusto quel proposito. E’ quello il risultato che bisogna centrare. Ma davvero e subito, senza aprire un dibattito infinito che sembra avere il solo obiettivo di lasciar trascorrere tre anni di legislatura tenendo occupata in qualche modo l’opinione pubblica.

Sono passati 25 anni dalla riforma fiscale
del mio amico Bruno Visentini. Dalle sue parole ho compreso come la politica fiscale sia il luogo in cui si concretizza in chiave etica il rapporto tra autorità e libertà. Ed è anche con quello stesso spirito che, in questo momento cruciale per la nostra economia, dobbiamo tornare a una grande riforma del sistema fiscale.
Ripeto: una riforma in senso liberale. Perché favorire fiscalmente chi produce e lavora, penalizzando chi accumula, come ci ha insegnato Luigi Einaudi, è l’essenza stessa del liberalismo.
Dalle persone alle cose significa, nella mia proposta, spostare il peso del fisco dal contribuente, soggetto al prelievo di Irpef o Ires, alla manifestazione di spesa, al consumo finale soggetto al prelievo Iva. In questo modo si allenterebbe la morsa su chi lavora e produce, concentrando il prelievo sulla manifestazione reale della ricchezza all’atto del consumo, con il recupero di un’ampia fetta di evasione-erosione ormai cronica.

Una riforma che, tra l’altro, metterebbe l’Italia in linea con il resto d’Europa. Chi ha confrontato la struttura fiscale italiana con quella del Regno Unito e della Spagna, grandi paesi con un fisco poco oppressivo, ha evidenziato che mentre la quota di gettito sul Pil proveniente dal consumo e dal capitale non è molto diversa nei tre paesi – intorno al 10-11 per cento – la quota di gettito fiscale proveniente dal lavoro è in Italia decisamente più alta: 20,6 per cento contro un 16,6 per cento della Spagna e un 14,3 per cento del Regno Unito. In altri termini, il maggior carico fiscale italiano rispetto a Madrid e Londra è sostanzialmente patito dal lavoro, mentre la tassazione sul consumo e sul capitale è in linea con quella degli altri due paesi.

Ridurre il peso del fisco sul lavoro, quindi, si deve e si può, tagliando la spesa pubblica e spostando il carico da persone a cose. E magari alle cose che inquinano, con una vera e propria “green tax reform”. L’opportunità di spostare una parte significativa del gettito dalle imposte sul lavoro a quelle che riguardano il prelievo di risorse naturali è tra le più sostenute dalle istituzioni internazionali e avrebbe il merito di avere un ampio consenso nell’opinione pubblica. L’Ocse, come ha spiegato in un bell’articolo pubblicato dalla Voce.info Antonio Massarutto, ha istituito negli anni Novanta un programma finalizzato a promuovere il trasferimento di almeno il dieci per cento del gettito, sostenendo che in questo modo si potrebbe ridurre in modo significativo l’impatto distorsivo del sistema tributario e insieme incentivare comportamenti più virtuosi da un punto di vista ambientale.
Un programma in questo senso, inoltre, avrebbe anche il pregio di avvicinare il fisco al contribuente, riorientando il prelievo in senso più federale. E questo è un elemento in più per rendere oggi l’intervento politicamente più praticabile.

Ma la politica non è il mio terreno. Sono altri ad avere la responsabilità di dare una percorribilità politica alle idee per lo sviluppo. Di certo l’Italia, oggi più che mai, non si può permettere una politica inerme. Quando il “miracolo economico” cominciava a mettere le radici nel nostro paese un grande valtellinese di quell’epoca, il ministro del Bilancio Ezio Vanoni, presentò il suo ambizioso “Schema di sviluppo” in Parlamento. Ne scaturì un pezzo di storia, non solo economica, d’Italia. Oggi siamo a un momento altrettanto importante della nostra vicenda storica. Servono piani non meno coraggiosi. E soprattutto uomini, valtellinesi o meno, in grado di tradurli in realtà.

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Re: PD: “Caro Berlusconi, giù le tasse”

Messaggioda ranvit il 03/05/2010, 10:02

Bene De Benedetti, Fassina e il PD!

Male, molto male Cesare Damiano!

Vittorio
Il 60% degli italiani si è fatta infinocchiare votando contro il Referendum che pur tra errori vari proponeva un deciso rinnovamento del Paese...continueremo nella palude delle non decisioni, degli intrallazzi, etc etc.
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Re: PD: “Caro Berlusconi, giù le tasse”

Messaggioda Stefano'62 il 03/05/2010, 11:43

Io sarei anche d'accordo sul limitare la spesa pubblica,ma mi sembra un pò generico parlare di spesa pubblica così come viene.
La spesa pubblica può essere scuole e ospedali,GUAI a chi volesse tagliare lì.
Ma la spesa pubblica può essere anche stipendi e pensioni dei parlamentati,GUAI a non cercare di tagliare lì.
Parlare di spesa pubblica senza specificare CON ESTREMA PRECISIONE a che cosa ci si riferisce è come dire "votatemi che migliorerò le cose",senza però spiegare come.

Attenzione poi perchè lo stesso discorso vale per le tasse,perchè le poliche fiscali di detassazione sulle imprese (giustissime accidenti) devono venire bilanciate dal gettito sulle persone fisiche,e questo significa che le persone (per esempio) sopra ai 200 mila euro,potrebbero risentirsene.
Io naturalmente sarei d'accordo (e lo sarei anche se fossi tra coloro al di sopra di quella cifra),ma siamo sicuri che quando si parla di abbassare le tasse ci si riferisca tutti alla stessa cosa ?
Perchè a me pare proprio di no.
Stefano'62
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Re: PD: “Caro Berlusconi, giù le tasse”

Messaggioda Robyn il 03/05/2010, 12:32

Bisogna ridurre drasticamente la prima aliquota dal 23% al 13%.Introdurre l'assegno di disoccupazione dell'80% distribuendo in parti eque il costo fra lavoratori e datori di lavoro con una trattenuta.Abbassare il costo del lavoro stabile.In questo modo il lavoro flessibile costerebbe di più,il costo per unità sarebbe più basso ,sarebbe più facile combattere e far emergere il lavoro sommerso Ciao Robyn
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Re: PD: “Caro Berlusconi, giù le tasse”

Messaggioda franz il 03/05/2010, 13:08

Robyn ha scritto:Bisogna ridurre drasticamente la prima aliquota dal 23% al 13%.Introdurre l'assegno di disoccupazione dell'80% distribuendo in parti eque il costo fra lavoratori e datori di lavoro con una trattenuta.Abbassare il costo del lavoro stabile.In questo modo il lavoro flessibile costerebbe di più,il costo per unità sarebbe più basso ,sarebbe più facile combattere e far emergere il lavoro sommerso Ciao Robyn

Una volta tanto sono d'accordo. Anche perché riprendi vecchie discussioni (sulla disoccupazione) in cui avevamo idee diverse ed ora vedo che sostieni la mia posizione (assegno 80% con costo suddiviso in parti uguali). Attenzione pero' che per abbassare il costo del lavoro stabile occorre abbassare il prelievo pubblico, che in gran parte è previdenziale vecchio nodo delle pensioni di anzianità). Poi se non interveniamo in fretta saremo come la grecia, che ha dovuto ridurre del 20% gli stipendi pubblici.
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Re: PD: “Caro Berlusconi, giù le tasse”

Messaggioda Robyn il 03/05/2010, 13:18

Per abbassare il costo del lavoro stabile si possono diminuire i contributi del lavoro stabile.Dal momento che la riforma pensionistica ha cominciato a dare i suoi risparmi li prendiamo da lì Ciao Robyn
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Re: PD: “Caro Berlusconi, giù le tasse”

Messaggioda franz il 03/05/2010, 15:52

Robyn ha scritto:Per abbassare il costo del lavoro stabile si possono diminuire i contributi del lavoro stabile.Dal momento che la riforma pensionistica ha cominciato a dare i suoi risparmi li prendiamo da lì Ciao Robyn

Hai dati precisi su questa diminuzione e su quanto potrebbe riflettersi nella diminuzione dei contributi?
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Re: PD: “Caro Berlusconi, giù le tasse”

Messaggioda Robyn il 04/05/2010, 21:11

Dato che Mastropasqua ha detto che le pensioni di anzianità si sono dimezzate ,e visto che queste ammontavano a circa 30mld di euro c'è da presupporre che in cassa dovrebbero esserci 15mld di euro.O a meno che per Mastropasqua la matematica è un'opinione.Comunque sia si tratta di capire bene quando c'è in cassa,e quando potrebbe esserci in futuro alla luce dell'onda lunga del baby boom.Sicuramente non credo che il sistema previdenziale stia bene cosi,ma al contrario,che necessiti ancora di un'ulteriore riforma Ciao Robyn
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Re: PD: “Caro Berlusconi, giù le tasse”

Messaggioda Robyn il 06/05/2010, 7:11

Comunque stiano le cose nel nostro paese esiste un'evasione contributiva che ammonta a circa 35 mld di euro.Se si recuperano quelli,ci sono risorse per il welfare,per la riduzione del costo dei contributi e tante altre cose.Si parla sempre di riforma previdenziale ma ci si dimentica sempre che esiste "l'evasione contributiva" che è molto grande.La riforma previdenziale può riguardare più aspetti marginali e diversi dall'elevamento,come i privilegi e comunque può essere di completamento che sò (65,63 anni).I sindacati dovrebbero farsi sentire molto di più sulla lotta al sommerso e sulla precarietà e non sulle assunzioni del pubblico impiego.Non credo che neanche con un governo di cs ci siano assunzioni nel pubblico impiego,poiche non è quello il problema e non abbiamo bisogno di aumentare la spesa pubblica ma al contrario di contenerla.Un sindacato (forte) è quello che si fà sentire sulla lotta al lavoro nero.Esiste una divergenza nel nostro paese.C'è chi vorrebbe assunzioni nel pubblico impiego e far emergere il lavoro sommerso"sindacati" e chi non vorrebbe ne la lotta all'evasione contributiva e ne le assunzioni al pubblico impiego"governo,Pdl".Di queste due cose ne serve una terza e cioè lotta al lavoro sommerso e contenimento della spesa.Un sindacato forte è quello che si fà sentire sulla lotta al lavoro sommerso.Chi è nel sommerso non ha diritti non riceve nessun beneficio ne nel presente ne per il futuro.Il sindacato deve pensare a precari,lavoratori privi di tutele,ai lavoratori del sommerso oltre che a stabili e garantiti Ciao Robyn
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