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Reddito e disuguaglianza italiana negli ultimi 150 anni. Cresce quella generazionale
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pianogrande ha scritto:Sulla "disuguaglianza generazionale".
Secondo me è un po' più complicato il discorso retributivo/contributivo.
Il fatto che si sia lasciata correre l'inflazione ha portato a una micidiale svalutazione dei contributi pagati.
La mia generazione ha iniziato la vita di lavoro intorno alle 100.000 lire mensili.
L'ha terminata nell'ordine delle migliaia di Euro
Una differenza pazzesca.
Un vero e proprio furto.
franz ha scritto:Furti, truffe e rapine sono state ai danni dei giovani, delle future generazioni.
A livello mondiale si osserva che la porzione di reddito mondiale del 50 per cento più povero degli abitanti del pianeta è cresciuta, passando dal 5 per cento nel 1980 a circa il nove per cento nel 2020, grazie alla crescita dei paesi emergenti. Bisogna però ridimensionare questa crescita, visto che la quota di reddito del 10 per cento più ricco del pianeta è rimasta stabile (intorno al 53 per cento), e che quella dell’1 per cento più ricco è passata dal 17 al 20. I perdenti sono le classi medie e popolari del nord del mondo, e questo alimenta il rifiuto della globalizzazione.
flaviomob ha scritto:Assurdo che il 10% dell'umanità disponga del 53% delle risorse.
Negli anni Settanta, esaurito lo slancio del boom economico, politiche monetarie espansive consentono aumenti salariali superiori alla crescita della produttività, il che – unendosi alla crisi petrolifera del 1973 – causa indici di inflazione sempre più alti in tutto il mondo. Non appena la crescita economica comincia a stagnare, sul finire del decennio, l’inflazione diviene intollerabile e i governi intervengono con drastiche misure di stabilizzazione. È l’inizio della svolta neoliberista: politiche monetarie restrittive, alti tassi d’interesse, scontro aperto con i sindacati e alta disoccupazione come strumenti di riduzione dei salari. Ma nemmeno Thatcher e Reagan, gli esponenti politici più determinati in questa svolta, possono rompere in modo definitivo il patto fra capitalismo e democrazia, che riemerge allora nell’arena elettorale: per legittimarsi e rispondere alle aspettative degli elettori – insomma per guadagnare nuovamente tempo – gli stati cominciano a finanziarsi in deficit rivolgendosi al credito privato. Così, per tutti gli anni Ottanta cresce la disparità fra entrate e spesa pubblica, e dunque esplode il debito pubblico (anche se, ammonisce Streeck, non furono le masse ansiose di ottenere “troppi diritti” a forzare la mano, come vuole una tesi ancora sorprendentemente in voga: l’impennata dei deficit è da imputare soprattutto ai tagli alle imposte decisi per ottenere il consenso dell’upper-middle class). Contemporaneamente, si espande in maniera smisurata anche il settore finanziario, che subisce un rapido processo di liberalizzazione.
All’inizio degli anni Novanta gli Stati cominciano a preoccuparsi di questo cospicuo aumento del debito pubblico, e della sempre più onerosa spesa per gli interessi. Lo «stato debitore», come lo chiama Streeck, concentra quindi i propri sforzi sul consolidamento fiscale e sul pareggio di bilancio, ridimensionando bruscamente l’intervento pubblico nell’economia con tagli alle spese sociali e privatizzazioni. Ma come legittimare questa nuova svolta, e soprattutto come compensare il crollo della domanda derivante da scelte politiche che dilatano le disparità di reddito? La risposta è l’espansione del debito privato, facilitata da una seconda ondata di deregolamentazione finanziaria. Si tratta di ciò che Colin Crouch ha ribattezzato «keynesismo privatizzato»: per sostenere i consumi non si ricorre più all’indebitamento pubblico, ma a prestiti facili. Si tratta però di una bolla, che scoppia violentemente nel 2008 con la crisi dei mutui subprime.
Ciascuna delle tre tappe storiche individuate da Streeck segna una vittoria dei capitalisti sui salariati, e una crisi di legittimazione del sistema nel suo complesso. E oggi gli strumenti sono esauriti: ormai non è più possibile affidarsi a una crescita “drogata”, e dopo il crollo della piramide debitoria nel 2008 gli Stati sono praticamente incapaci di raccoglierne le macerie e edificare un ordine stabile. Il fatto è che mentre guadagnavano tempo, le élite neoliberiste hanno pian piano “risolto” il conflitto tra capitalismo e democrazia «immunizzando» il primo dalla seconda, in una sorta di distopia di stampo hayekiano[3]: i governi si trovano a dover rispondere più ai mercati finanziari cui sono debitori che ai parlamenti; più alle esigenze del capitale, libero di muoversi globalmente in cerca delle condizioni più favorevoli, che alle preferenze dei governati. Eppure – sottolinea Streeck – il neoliberismo necessita di uno Stato forte: l’economia capitalistica non cerca di sottrarsi al giogo degli Stati, da cui dipendono la sua sicurezza e la capacità di affermare i suoi principi, ma dal giogo della democrazia.
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