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Una lettura keynesiana della crisi

Forum per le discussioni sulle tematiche economiche e produttive italiane, sul mondo del lavoro sulle problematiche tributarie, fiscali, previdenziali, sulle leggi finanziarie dello Stato.

Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 11/05/2012, 23:05

Euro, un fallimento annunciato. Venti anni fa il keynesiano Wynne Godley spiegava perché non poteva funzionare
Posted by keynesblog on 11 maggio 2012 in Economia, Europa


L’articolo che pubblichiamo di seguito ha venti anni. L’autore, Wynne Godley, noto economista britannico Post Keynesiano e collaboratore del Tesoro del Regno Unito, individua i problemi nella costruzione dell’Unione Monetaria a partire dal Trattato di Maastricht. In particolare sottolinea come il Trattato sottintendesse un’impostazione ideologica per la quale gli Stati non devono occuparsi di politica economica e tutto ciò che è richiesto per far funzionare il sistema è una banca centrale, indipendente dalla politica, che si occupi di controllare l’inflazione. L’assenza di un Tesoro federale con un debito pubblico monetizzabile, di un fisco e di un welfare federali, di “stabilizzatori automatici” e trasferimenti tra regioni, porterà inevitabilmente alla rottura dell’Unione monetaria, appena uno dei suoi membri si trovasse in forti difficoltà per qualsiasi motivo. Insomma, quella che segue è la cronaca di un fallimento annunciato.


Molte persone in tutta Europa si sono improvvisamente rese conto che non sanno quasi nulla del Trattato di Maastricht mentre giustamente avvertono che potrebbe fare una grande differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha indotto Jacques Delors a fare una dichiarazione secondo la quale le opinioni della gente comune dovrebbero in futuro essere più ascoltate. Avrebbe potuto pensarci prima.

Anche se ho sostenuto il passaggio verso l’integrazione politica in Europa, credo che le proposte di Maastricht così come sono presentano gravi carenze e anche che la discussione pubblica su di esse sia stata curiosamente impoverita. [...]

L’idea centrale del trattato di Maastricht è che i paesi della Comunità europea devono muoversi verso l’unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma che cosa rimane della politica economica? Dato che il trattato non propone nuove istituzioni diverse da una banca europea, i suoi promotori devono supporre che nulla di più sia necessario. Ma questo potrebbe essere corretto solo se le economie moderne fossero sistemi capaci di autoregolarsi, che non abbiano bisogno di alcuna gestione.

Sono spinto alla conclusione che tale punto di vista – cioè che le economie sono organismi che si raddrizzano da soli e che non hanno in nessun caso necessità di una gestione – ha effettivamente determinano il modo in cui è stato costruito il trattato di Maastricht. Si tratta di una versione rozza ed estrema del punto di vista che da qualche tempo ha costituito la convinzione prevalente in Europa (anche se non quella degli Stati Uniti o del Giappone): che i governi non sono in grado di raggiungere uno qualsiasi dei tradizionali obiettivi di economia politica, come la crescita e la piena occupazione, e pertanto non dovrebbero neppure provarci.

Tutto ciò che può legittimamente essere fatto, secondo questa visione, è quello di controllare l’offerta di moneta e il pareggio del bilancio. E’ stato necessario un gruppo in gran parte composto da banchieri (il Comitato Delors) per giungere alla conclusione che una banca centrale indipendente è stata l’unica istituzione sovranazionale necessaria per gestire un’Europa integrata e sovranazionale.

Ma c’è molto di più. In primo luogo va sottolineato che la creazione di una moneta unica nella Comunità Europea dovrebbe porre fine alla sovranità delle sue nazioni componenti e alla loro autonomia di intervento sulle questioni di maggior interesse. Come l’onorevole Tim Congdon ha sostenuto in modo molto convincente, il potere di emettere la propria moneta, di fare movimentazioni sulla propria banca centrale, è la cosa principale che definisce l’indipendenza nazionale. Se un paese rinuncia o perde questo potere, acquisisce lo status di un ente locale o colonia. Le autorità locali e le regioni, ovviamente, non possono svalutare. Ma si perde anche il potere per finanziare il disavanzo attraverso la creazione di denaro, mentre altri metodi di ottenere finanziamenti sono soggetti a regolamentazione centrale. Né si possono modificare i tassi di interesse. Poiché le autorità locali non sono in possesso di nessuno degli strumenti di politica macroeconomica, la loro scelta politica si limita a questioni relativamente minori: un po’ più di istruzione qui, un po’ meno infrastrutture lì. Penso che quando Jacques Delors pone l’accento sul principio di ‘sussidiarietà’, in realtà ci sta solo dicendo che [gli stati membri dell'Unione europea] saranno autorizzati a prendere decisioni su un maggior numero di questioni relativamente poco importanti di quanto si possa aver precedentemente supposto. Forse ci lascerà tenere i cetrioli, dopo tutto. Che grande affare!

Permettetemi di esprimere una visione diversa. Penso che il governo centrale di uno Stato sovrano deve essere costantemente impegnato a determinare il livello ottimale complessivo dei servizi pubblici, l’onere fiscale complessivo corretto, la corretta allocazione della spesa totale tra bisogni concorrenti, nonché la giusta distribuzione del peso della tassazione. Esso deve anche determinare la misura in cui ogni divario tra spesa e imposte viene finanziato prelevando dalla banca centrale e quanto è finanziato mediante un prestito, e a quali condizioni. Il modo in cui i governi decidono su tutti questi (e alcuni altri) problemi, e la qualità della leadership che si possono dispiegare, determineranno, in interazione con le decisioni degli individui, delle aziende e degli stranieri, cose come i tassi di interesse, il tasso di cambio, il tasso di inflazione, il tasso di crescita e il tasso di disoccupazione. [Il comportamento del governo] inoltre influenzerà profondamente la distribuzione del reddito e della ricchezza non solo tra individui, ma tra intere regioni, assistendo, si spera, quelle colpite negativamente dai cambiamenti strutturali. [...]

Elenco tutto questo non per suggerire che la sovranità non deve essere ceduta in nome della nobile causa dell’integrazione europea, ma che se i governi nazionali rinunciano a tutte queste funzioni esse devono semplicemente essere assunte da qualche altra autorità. La lacuna incredibile nel programma di Maastricht è che, mentre contiene un progetto per l’istituzione e il modus operandi di una banca centrale indipendente, non esiste un qualunque progetto analogo, in termini comunitari, di governo centrale. Semplicemente ci dovrebbe essere un sistema di istituzioni che soddisfi a livello comunitario tutte quelle funzioni che sono attualmente esercitate dai governi centrali dei singoli paesi membri.

La contropartita della rinuncia alla sovranità dovrebbe essere che le nazioni componenti vengono incorporate in una federazione a cui è affidata la loro sovranità. E il sistema federale, o stato, come è meglio chiamarlo, dovrebbe esercitare tutte quelle funzioni in relazione ai suoi membri e al mondo esterno, che ho brevemente sopra indicate.

Consideriamo due esempi importanti di ciò che uno stato federale, responsabile di un bilancio federale, dovrebbe fare.

I Paesi europei sono al momento bloccati in una grave recessione. Come stanno le cose, in particolare le economie di Stati Uniti e Giappone sono anch’esse vacillanti, è molto difficile dire quando un significativo recupero avrà luogo. Le implicazioni politiche di questo stanno diventando spaventose. Tuttavia, l’interdipendenza delle economie europee è già così grande che nessun singolo paese, con l’eccezione teorica della Germania, si sente in grado di perseguire politiche espansive per conto proprio, perché ogni paese che ha cercato di espandere l’economia con le sue sole forze incontrerebbe presto un vincolo nella bilancia dei pagamenti. La situazione attuale grida ad alta voce l’esigenza di un rilancio coordinato, ma non esistono né le istituzioni né un quadro concordato di pensiero che porterà a questo risultato, ovviamente, desiderabile. Si deve francamente riconoscere che se la depressione dovesse davvero prendere una svolta seria per il peggio – ad esempio, se il tasso di disoccupazione tornasse al 20-25 per cento degli anni Trenta – i singoli paesi, prima o poi, eserciterebbero il loro diritto sovrano di dichiarare l’intero percorso verso l’integrazione un disastro, e ristabilirebbero dei controlli sui cambi e misure protezionistiche – un’economia da assedio se vogliamo chiamarla così. Ciò equivarrebbe a ripercorre il periodo tra le due guerre.

Se ci fosse una unione economica e monetaria, in cui il potere di agire in modo indipendente fosse effettivamente abolito, una reflazione ‘coordinata’ del genere, di cui si sente così urgente bisogno, potrebbe essere effettuata solo da un governo federale europeo. Senza una tale istituzione, l’Unione monetaria impedirebbe un’azione efficace da parte dei singoli paesi e metterebbe il nulla al suo posto.

Un altro ruolo importante che ogni governo centrale deve svolgere è quello di stendere una rete di sicurezza per il sostentamento delle regioni componenti che sono in difficoltà per ragioni strutturali – a causa del declino di alcune industrie, per esempio, o a causa di qualche cambiamento demografico negativo per l’economia. Attualmente questo accade nel corso naturale degli eventi, senza che nessuno se ne accorga, perché esistono standard comuni dei servizi pubblici (per esempio, la sanità, l’istruzione, le pensioni, i sussidi di disoccupazione) e un comune (si spera, progressivo) sistema di imposizione fiscale. Di conseguenza, se una regione soffre un insolito declino strutturale, il sistema fiscale genera automaticamente i trasferimenti netti in favore di essa. Come caso estremo, una regione che non producesse nulla non morirebbe di fame perché riceverebbe le pensioni, le indennità di disoccupazione e il reddito dei dipendenti pubblici.

Cosa succede se un intero paese – un potenziale ‘regione’ in una comunità pienamente integrata – subisce una battuta d’arresto strutturale? Finché si tratta di un Stato sovrano, può svalutare la propria moneta. Si può quindi operare con successo verso la piena occupazione se la gente accetta il taglio necessario dei redditi reali [cioè l'inflazione, ndr]. Con una unione economica e monetaria, questo ricorso è ovviamente escluso, e la sua prospettiva è davvero grave, salvo accordi su bilanci federali che svolgano un ruolo redistributivo. Come è stato chiaramente riconosciuto nella relazione MacDougall che è stato pubblicato nel 1977, ci deve essere uno scambio tra la rinuncia alla possibilità di svalutare e la redistribuzione fiscale. Alcuni autori (come Samuel Brittan e Sir Douglas Hague) hanno seriamente suggerito che l’Unione monetaria, abolendo la bilancia dei pagamenti nella sua forma attuale, abolirebbe il problema, dove esiste, di una persistente incapacità di competere con successo sui mercati mondiali. Ma, come il professor Martin Feldstein ha sottolineato in un articolo importante nel Economist (13 giugno), questo argomento è pericolosamente sbagliato. Se un paese o regione non ha il potere di svalutare, e se non è beneficiario di un sistema di perequazione fiscale, allora non c’è nulla che possa fermare un processo di declino cumulativo e terminale che conduce, alla fine, all’emigrazione come unica alternativa alla povertà o alla fame.

Simpatizzo con la posizione di coloro (come Margaret Thatcher) che, di fronte alla perdita di sovranità, desiderano scendere dal treno dell’Unione monetaria. Simpatizzo anche con coloro che cercano l’integrazione sotto la giurisdizione di una sorta di Costituzione federale, con un bilancio federale molto più grande di quello dell’[attuale] bilancio comunitario. Quello che trovo assolutamente sconcertante è la posizione di coloro che sono favorevoli all’unione economica e monetaria senza la creazione di nuove istituzioni politiche (a parte una nuova banca centrale), e che alzano le mani terrificati alle parole “federale” o “federalismo”. Questa è la posizione adottata oggi dal Governo e dalla maggior parte di coloro che prendono parte alla discussione pubblica.

http://keynesblog.com/2012/05/11/euro-u ... #more-1412


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 12/05/2012, 8:29

Decisamente condivisibile ma mi pare che ad ogni paese sono rimaste le leve di politica economica e che per 20 anni ogni Stato è stato libero di fare disastri (esempio i PIIGS) oppure di avere gestioni virtuose (Es: Germania, Olanda e altri minori) esattamente come i paesi fuori dall'Euro (es UK e Svezia). Quello che è sparito è il fatto di alimentare l'economia creando denaro (invece di lavoro) ma sappiamo che in passato questo ha creato gravi danni (le svalutazioni della Lira, per esempio).

L'unica cosa che sparisce con la moneta unica quindi è "il potere [statale, ndr] per finanziare il disavanzo attraverso la creazione di denaro". Tutte le altre leve di politica economica rimangono. E sono queste, quando hanno creato disastri come in Grecia e da noi, ad aver messo in crisi Euro ed Europa.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 12/05/2012, 9:20

Queste leve dovevano essere in mano ad un potere federale, non a singoli stati messi in questo modo nelle condizioni di far deragliare il treno dell'euro. Inoltre se l'Italia è entrata "con l'inganno" nell'euro e la Grecia poteva falsificare i bilanci, significa anche che le autorità di controllo europee fanno acqua da tutte le parti.


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 12/05/2012, 10:08

Entrambi, direi.
In un paese federale la politica economica viene fatta sia dal livello federale sia (e molto piu' incisivamente) dai singoli stati/lander/cantoni, che hanno risorse spesso superiori o pari almeno al 50% del totale.
L'europa pero' non è uno stato federale e quindi non ha una sua politica economica.
Aver tolto ai singoli stati la politica monetaria (perché questo in realtà è quello che è successo, non è stata tolta la politica economica) ha significato, per chi voleva capirlo, che certi trucchetti tipo svalutazione locale, non erano piu' possibili e che quindi bisognava tirar diritto con politiche economiche virtuose e rigorose (non basate sul debito e sulla stampa di moneta).
Chi lo ha fatto oggi è la locomotiva d'europa, chi non lo ha fatto invece la affosa.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 22/05/2012, 18:32

http://www.globalist.it/Detail_News_Dis ... rospettive

Qual è oggi la situazione dell'Europa e quali sono le sue prospettive

Analisi della situazione di crisi e idee per uscirne. Ma l'Europa non può operare come una società per azioni e ritornare allo spirito originario.


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 23/05/2012, 18:30

Articolo completo su:

http://keynesblog.com/2012/05/23/europa ... pagamenti/

Europa: una crisi di debito o di bilancia dei pagamenti?

...L’unione monetaria europea è strutturalmente fragile. Mentre gli attacchi speculativi possono riflettere reali preoccupazioni circa la sostenibilità del debito dei GIIPS, il profondo divario tra il surplus di conto corrente dei paesi del Nord e il deficit di quelli del Sud non può essere liquidato come un semplice meccanismo che può innescare una crisi sovrana. Al tempo stesso, non è più possibile rinviare la discussione su come impostare una riforma fiscale in ambito europeo. Aggiustamenti redistributivi all’interno dell’eurozona sono stati finora impediti dall’assenza di un meccanismo di trasferimento che sarebbe normalmente presente in Stati sovrani, da tassi di cambio reali che non convergono, e da una bassa crescita economica. Si tratta di problemi annosi, già trattati dai rapporti MacDougall e Delors, che auspicavano la creazione di un considerevole budget fiscale centralizzato per l’eurozona, al fine di stabilizzare shock regionali attraverso la redistribuzione delle risorse tra le regioni.

Andrea F. Presbitero – Università Politecnica delle Marche


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Formula Krugman

Messaggioda flaviomob il 26/05/2012, 11:20

La formula Krugman per uscire dalla crisi
"Insegnanti e welfare contro la depressione"


Intervista al premio Nobel diventato un "guru" per la nuova sinistra americana. "I governi devono spendere di più", come nel New Deal. C'è chi lo vede già prossimo segretario al Tesoro Usa, se Obama sarà rieletto. Ma lui dice: "Mi basta fare il castigatore delle idee sbagliate"
dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

NEW YORK - "Calma, calma, sono solo un economista". Paul Krugman è divertito, un po' imbarazzato, ma anche abituato: una sua apparizione in pubblico a New York suscita le ovazioni e urla di approvazione degne di una rockstar.

La scena si ripete quando sale sul placoscenico del centro culturale 92Y sulla Lexington Avenue per discutere il suo nuovo libro. Ressa da stadio, folla in delirio. In fondo il tifo popolare se l'è meritato, questo premio Nobel dell'economia trasformatosi in opinionista del New York Times (e Repubblica), censore dei tecnocrati dell'eurozona, keynesiano a oltranza, guru della nuova sinistra americana. Si è conquistato questa "base di massa" perché osa spingersi dove altri non vanno.

Il suo blog è uno strumento di battaglia politica contro l'egemonia culturale della destra. Il suo nuovo libro, nell'edizione americana promette o intima "Fuori da questa depressione, subito!". Depressione? Addirittura? L'editore italiano Garzanti, che lo pubblica a fine mese, non se l'è sentita di usare un termine che evoca gli anni Trenta, le code dei disoccupati alle mense dei poveri, il nazifascismo. E così il titolo italiano suona un po' più tradizionale: "Fuori da questa crisi, adesso".

Perché Krugman non esita invece a usare un termine ben più drammatico? "Quella che attraversiamo - risponde - la chiamo la Depressione Minore, per distinguerla dagli anni Trenta. La differenza è meno sostanziale di quanto si creda. Anche allora ci fu una prima recessione, poi una ripresa inadeguata, poi la ricaduta. I tassi di disoccupazione reali di cui soffriamo non sono tanto inferiori a quelli di allora. E se guardiamo al numero di disoccupati a lungo termine, che qui in America restano oltre i 4 milioni, siamo proprio a livelli da anni Trenta".

Il messaggio che questo libro martella con insistenza è che il male va combattuto, oggi come allora, con un deciso intervento statale. "Abbiamo bisogno che i nostri governi spendano di più, non di meno - sintetizza il 59enne docente alla Princeton University - perché quando la domanda privata è insufficiente, questa è l'unica soluzione. Assumere insegnanti. Costruire infrastrutture. Fare quello che fu fatto con la seconda guerra mondiale, possibilmente scegliendo spese utili".

Quell'avverbio "subito" che tuona nel titolo del suo libro, Krugman lo esplicita senza esitazioni: se l'Occidente applicasse la ricetta giusta, potremmo essere fuori da questa crisi in 18 mesi. Un anno e mezzo! Attenzione: questa non è una promessa da comizio elettorale. Il bello di Krugman, quello che ti affascina nel personaggio, è l'impegno con cui tiene insieme il suo "ruolo pubblico", di opinionista schierato e aggressivo, con il rigore scientifico del teorico che macina grafici e statistiche come un computer. Capace di passare dall'uno all'altro in pochi istanti, per rispondere all'obiezione politica principale: la sua ricetta oggi appare inascoltata, inapplicabile, impraticabile, perché siamo terrorizzati dal livello del debito pubblico.

Non è solo un problema europeo. Anche qui negli Stati Uniti 15.300 miliardi di dollari di debiti, quasi il 100% del Pil, sembrano un ostacolo insormontabile per la sua terapia keynesiana. "Falso, falso - risponde secco - anzitutto dal punto di vista storico. In passato gli Stati Uniti ebbero un debito ancora superiore, durante le seconda guerra mondiale; la Gran Bretagna per quasi un secolo. Il Giappone ha tuttora un debito statale molto più elevato in percentuale del suo Pil eppure paga interessi dello 0,9% sui suoi buoni del Tesoro. Quindi non esistono soglie di insostenibilità come quelle che ci vengono propagandate. Inoltre è dimostrato, e lo vediamo accadere sotto i nostri occhi, che in tempi di depressione le politiche di austerity aggravano il problema: accentuano la recessione, di conseguenza cade il gettito fiscale, così in seguito ai tagli il debito aumenta anziché diminuire".

Resta però il problema politico, e non solo in Europa dove c'è un ostacolo che si chiama Angela Merkel. Anche qui, Barack Obama non ha osato sfidare i repubblicani con una seconda manovra di spesa pubblica anti-crisi. "Anzitutto perché all'inizio Obama sottovalutò la gravità di questa crisi - risponde Krugman - mentre adesso sta cambiando posizione. Il fatto è che a lui conviene battersi fino in fondo per le sue idee, tenere duro, non cercare compromessi. Se Obama vince a novembre, io credo che governerà meglio nel suo secondo mandato".

Un'altra obiezione frequente alla sua ricetta keynesiana, riguarda la qualità, l'efficacia, la rapidità della spesa pubblica. La macchina burocratica è spesso inefficiente, non solo nell'Europa mediterranea ma anche qui negli Stati Uniti. Krugman ha una risposta anche a questo. "La prima cosa da fare - spiega - è cancellare l'effetto distruttivo dei tagli di spesa. Per esempio, qui negli Stati Uniti, bisogna cominciare col ri-assumere le migliaia di insegnanti licenziati a livello locale. Queste sono manovre di spesa dagli effetti istantanei. In Europa, la manovra equivalente è restituire le prestazioni del Welfare State che sono state ingiustamente tagliate".

Veniamo dunque al malato più grave del momento: l'eurozona. A questo paziente in coma, Krugman sta dedicando un'attenzione smisurata. Spesso i suoi editoriali sul New York Times sono duri attacchi all'austerity d'impronta germanica, appelli ai dirigenti europei perché rinsaviscano prima che sia troppo tardi. "Guardate cos'è accaduto all'Irlanda - dice - cioè a un paese che si può considerare l'allievo modello, il più virtuoso nell'applicare le ricette dell'austerity volute dal governo tedesco. L'Irlanda ha avuto una finta ripresa e poi è ricaduta nella recessione. All'estremo opposto ci sono quei paesi asiatici, dalla Cina alla Corea del Sud, che hanno manovrato con energia le leve della spesa pubblica, e così hanno evitato la crisi".

Krugman considera probabile l'uscita della Grecia dall'euro, ma lo preoccupa di più il "dopo". Denuncia il rischio di un "effetto-domino, se la Germania non cambia strada". Avverte che le conseguenze di una disintegrazione dell'Unione "sarebbero perfino più gravi sul piano politico che su quello economico". I suoi modelli, oltre ai paesi asiatici, sono la Svezia e perfino la piccola Islanda: "Perché dopo la bancarotta ha avuto il coraggio di cancellare tutti i propri debiti con le banche, negare i rimborsi, ed è ripartita dopo una svalutazione massiccia".

Uno schiaffo nei confronti della finanza globale, che il premio Nobel considera legittimo e benefico (per l'Islanda). E su questo conclude toccando una questione scottante: perché anche la sinistra quando va al potere diventa succube dei banchieri? Perché Obama all'inizio del suo primo mandato nominò così tanti consiglieri legati a Wall Street? La risposta di Krugman è fulminante: "Perché danno la sensazione di sapere. Sono davvero impressionanti, quelli di Wall Street: danno a intendere di capirne qualcosa, anche dopo avere distrutto il mondo, o quasi".

Qualcuno già punta su Krugman come prossimo segretario al Tesoro, se Obama viene rieletto a novembre. "Si vede che non hanno mai visto il caos che regna sulla mia scrivania e nel mio ufficio", scherza l'economista più influente e controverso d'America. Poi chiude: "A me piace il mio ruolo attuale, che definirei così: il castigatore delle idee sbagliate".

(26 maggio 2012)

Repubblica

http://www.repubblica.it/economia/2012/ ... ef=HREC1-2


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Amartya Sen: Europa, va a scuola di Keynes

Messaggioda franz il 16/06/2012, 10:20

Europa, va a scuola di Keynes
di Amartya Sen, da Repubblica, 15 giugno 2012

La via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni: se questa massima avesse bisogno di una conferma, potremmo trovarla nella crisi europea. Le intenzioni, indubbiamente apprezzabili ma non lungimiranti, dei politici dell’Ue appaiono inadeguate al compito di risanare l’economia europea.
Provocando anzi condizioni di miseria, confusione e caos. E ciò per due ragioni. Innanzitutto, a volte anche le intenzioni più rispettabili mancano di lucidità: di fatto, i fondamenti dell’attuale politica di austerità, in un contesto di rigidezza come quello dell’Unione monetaria europea (in assenza di un’unione fiscale) non costituiscono certo un modello di coerenza e sagacia. In secondo luogo, un’intenzione fine a se stessa può confliggere con una priorità più urgente, che in questo caso è quella di salvaguardare un’Europa democratica e impegnata per il benessere sociale. Sono questi i valori per i quali l’Europa si è battuta per molti decenni.

È indubbiamente vero che alcuni Paesi europei avrebbero dovuto adottare da tempo comportamenti economici e gestionali più responsabili. In questo campo si pone però il problema cruciale dei tempi di attuazione: occorre distinguere tra le riforme varate in base a un calendario accuratamente calibrato, e quelle decise in condizioni di estrema urgenza. Nel caso della Grecia, va detto che al di là dei suoi problemi di accountability, questo Paese non versava in una situazione di crisi economica prima della recessione globale del 2008. (Di fatto, il suo tasso di crescita è stato del 4,6% nel 2006 e del 3% nel 2007, per poi calare in maniera costante negli anni seguenti).

La causa delle riforme, per quanto urgenti, non si serve al meglio imponendo unilateralmente tagli repentini e brutali dei pubblici servizi. Questi interventi indiscriminati abbattono la domanda, e rappresentano quindi una strategia controproducente, anche a fronte degli elevati tassi di disoccupazione e della bassa produttività di un sistema imprenditoriale già decimato dal calo della domanda dei mercati. In Grecia, uno dei Paesi lasciati ai margini degli incrementi di produttività conseguiti altrove, gli interventi di stimolo economico attraverso strumenti di politica monetaria (o in altri termini, la svalutazione della moneta) sono oggi preclusi dall’esistenza dell’Unione monetaria europea; e al tempo stesso, il fiscal package richiesto dai leader dell’Ue frena severamente la crescita. In tutta l’Eurozona, i livelli di produzione sono calati in maniera costante nell’ultimo trimestre dello scorso anno. Le prospettive erano buie, a tal punto che molti hanno accolto come una buona notizia il dato di crescita zero riferito da uno studio recente sull’andamento del primo trimestre di quest’anno.

Di fatto, numerosi esempi storici dimostrano che la politica di risanamento più efficiente consiste nell’affiancare alle misure di riduzione del deficit gli stimoli per una rapida crescita economica, per generare un incremento dei redditi. Dopo la Seconda guerra mondiale fu proprio la crescita economica a consentire il rapido riassorbimento dei giganteschi livelli di deficit; e qualcosa di analogo accadde durante la presidenza di Bill Clinton. Anche la riduzione del deficit di bilancio svedese tra il 1994 e il 1998, spesso decantata, ha potuto essere ottenuta in parallelo con un ritmo di crescita abbastanza rapido. Oggi avviene il contrario: ai Paesi europei si chiede di tagliare i propri deficit in un periodo di crescita stagnante, se non addirittura negativa.

Avremmo sicuramente molto da imparare da John Maynard Keynes, che aveva ben compreso il rapporto di interdipendenza tra Stato e mercato, anche se non prestava un’attenzione particolare ai temi della giustizia sociale o all’impegno politico che permise all’Europa di risollevarsi dopo la Seconda guerra mondiale. Fu quell’impegno a dar vita al moderno welfare e ai servizi sanitari nazionali, creati non a sostegno dell’e-conomia di mercato, bensì per tutelare il benessere dei cittadini.

Ma al di là di Keynes, che non aveva approfondito il suo impegno sulle questioni sociali, esiste una tesi economica tradizionale secondo la quale l’efficienza dei mercati deve andare di pari con l’offerta di servizi pubblici che il mercato stesso potrebbe non essere in grado di assicurare. In “The Wealth of Nations” (“La ricchezza delle nazioni”) Adam Smith (presentato a volte in maniera un po’ troppo semplicistica come il primo guru dell’economia di mercato) sostiene che un’economia «ha due obiettivi distinti ». In primo luogo, «assicurare alla popolazione abbondanti redditi o sussistenza – o più specificamente, porre i cittadini in condizioni di procurarsi tali redditi o mezzi di sussistenza; e in secondo luogo, fornire allo Stato o alla comunità entrate sufficienti per i pubblici servizi».

L’aspetto forse più inquietante dell’attuale malessere europeo è il fatto che l’impegno democratico è soppiantato dai diktat finanziari, imposti non solo dai leader dell’Ue e dalla Banca centrale Europea, ma indirettamente anche dalle agenzie di rating, i cui giudizi sono stati notoriamente fallaci.
Un dibattito pubblico partecipato – un «government by discussion », secondo l’espressione di teorici della democrazia quali John Stuart Mill e Walter Bagehot – avrebbe potuto identificare riforme appropriate, realizzabili in un lasso di tempo ragionevole, senza mettere a repentaglio le fondamenta del sistema di giustizia sociale europeo. Per converso, i repentini e drastici tagli ai pubblici servizi, nella quasi totale assenza di un dibattito per verificarne la necessità, l’equità e l’efficacia, hanno suscitato un senso di rivolta in ampi settori della popolazione europea, facendo il gioco delle ali estreme dello spettro politico.

La ripresa europea sarà possibile solo a condizione di affrontare due questioni di legittimità politica. In primo luogo, l’Europa non può consegnarsi alle tesi unilaterali degli esperti – o alle loro buone intenzioni – in assenza di un pubblico dibattito ragionato, e senza il consenso informato dei suoi cittadini. Dato lo scontento evidente dell’opinione pubblica, non c’è da sorprendersi se di volta in volta varie consultazioni elettorali hanno dimostrato l’insoddisfazione dei votanti, che hanno negato la loro fiducia agli attuali responsabili.

In secondo luogo, la democrazia e la stessa possibilità di una buona politica sono a rischio quando i leader impongono scelte inefficaci e vistosamente ingiuste. L’evidente insuccesso delle misure di austerità finora imposte si riflette negativamente non solo sulla partecipazione pubblica – che rappresenta un valore in sé – ma anche sulla prospettiva di giungere, in tempi ragionevoli, a una soluzione sensata.
Siamo davvero molto lontani dall’idea di un’«Europa democratica e unita» cara ai pionieri dell’Unione europea.

(15 giugno 2012)
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda ranvit il 16/06/2012, 11:15

Ci stiamo girando intorno, anche con il proliferare di 3d..., ma che la germania sta sfasciando l'Europa per la terza volta in un secolo è un dato di fatto!

Non è possibile uscire dallo stallo attuale senza una politica keynesiana....
Ci stiamo avvitando....arriverà il giorno di una rivolta generalizzata dei popoli affamati dalla "opulenta Germania".
E' vero che i Paesi mediterranei sono stati cicala....ma la germania ci ha guadagnato tanto: le sue esportazioni sono figlie proprio delle cicale...che cponsentivano alle aziende tedesche di produrre tanto piu' del consumo interno.

Nessuno le chiede di pagare i debiti degli altri, ma la smetta di fare il cane da guardia ad una politica del rigore che andava bene in Germania quando gli altri Paesi, cicale o no, assorbivano il surplus della produzione tedesca. Ma non va per niente bene in un momento in cui nessun Paese è in grado di assorbire alcunchè!
Il 60% degli italiani si è fatta infinocchiare votando contro il Referendum che pur tra errori vari proponeva un deciso rinnovamento del Paese...continueremo nella palude delle non decisioni, degli intrallazzi, etc etc.
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Re: Amartya Sen: Europa, va a scuola di Keynes

Messaggioda franz il 16/06/2012, 11:44

Amartya Sen ha scritto:Nel caso della Grecia, va detto che al di là dei suoi problemi di accountability, questo Paese non versava in una situazione di crisi economica prima della recessione globale del 2008. (Di fatto, il suo tasso di crescita è stato del 4,6% nel 2006 e del 3% nel 2007, per poi calare in maniera costante negli anni seguenti).
...
Ma al di là di Keynes, che non aveva approfondito il suo impegno sulle questioni sociali, esiste una tesi economica tradizionale secondo la quale l’efficienza dei mercati deve andare di pari con l’offerta di servizi pubblici che il mercato stesso potrebbe non essere in grado di assicurare. In “The Wealth of Nations” (“La ricchezza delle nazioni”) Adam Smith (presentato a volte in maniera un po’ troppo semplicistica come il primo guru dell’economia di mercato) sostiene che un’economia «ha due obiettivi distinti ». In primo luogo, «assicurare alla popolazione abbondanti redditi o sussistenza – o più specificamente, porre i cittadini in condizioni di procurarsi tali redditi o mezzi di sussistenza; e in secondo luogo, fornire allo Stato o alla comunità entrate sufficienti per i pubblici servizi».

Due sono gli aspetti che critico nel testo di Amartya Sen. Il primo non considera la qualità della crescita greca. Era vera crescita, legata alla reale produttività del paese, oppure era una bolla dovuta all'abbondanza di soldi a basso costo a sua volta eredità di bassi tassi di interesse grazie all'Euro e conti pubblici truccati? Lo stesso possiamo dire per ogni crescita. Quella spagnola, per esempio, che oggi sappiamo essere principalmente dovuta ad una bolla immobiliare. Anche qui legata denaro prestato a bassi tassi di interesse. E dimostra, a mio avviso, che le politiche di "sostegno della domanda" (che qualcuno identifica anche come "politiche keynesiane" non fanno uscire da nessuna crisi: producono solo crescite drogate e bolle che poi finiscono per scoppiare. Avere tanti soldi intasca induce a spendere, surriscalda l'economia, fa aumentare i prezzi (delle case, per esempio) ma non produce vera ricchezza e vera crescita.

Il secondo aspetto è legato alla citazione di Adam Smith. Correttissima in se ma che va affiancata all'altra, che in queste settimane ho inserito come firma ai miei messaggi e che ripeto qui per quando sparirà (prima o poi la cambio).
Un paese, come ci ricorda Adam Smith nella Ricchezza delle Nazioni non può vivere senza spesa pubblica, ma si può condannare alla stagnazione e all‟instabilità finanziaria se la spesa pubblica cresce troppo rapidamente o se è troppo elevata.

È il caso dell'Italia, dove la spesa pubblica ha raggiunto il 50% del PIL (ed arrivo' anni fa al 54%) il che è francamente troppo per parlare di "entrate sufficienti per i pubblici servizi". Entrate sufficenti variano - nella norma - dal 35 al 40% del PIL. Oltre è spreco, spesa eccessiva o nel caso italiano clientela e corruzione. E visto che da noi le spesa è al 50% del PIL ed il debito al 120% non c'è piu' spazio (per fortuna) per "politiche keynesiane" (deficit spending, basso costo del denaro, stampa di carta moneta a go-go).

La democrazia non puo' ignorare questo, anche se ai cittadini piacerebbe continuare a fare le cicale e non dove mai tirare la cinghia.
Se vediamo la percentuale di tedeschi in età lavorativa che lavorano effettivamente, troviamo un valore decisamente superiore a quello italiano. Se i tedeschi dicono che dobbiamo lavorare di piu' (anche meno lavoro nero) ed avere rigore nei conti per me dicono una cosa giusta. E' chi dice il contrario che sfascia l'europa e l'euro.
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