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Una lettura keynesiana della crisi

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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 29/04/2012, 12:47

flaviomob ha scritto:Se tutti smettessero immediatamente di pagare tasse e imposte, il deficit schizzerebbe immediatamente a livelli insostenibili, elevandosi. E' evidente anche a un bambino che l'evasione comporta un aumento del deficit di bilancio in Italia.

No, anche qui sbagli, proprio come un bambino ;) . Se veramente tutti smettessero immediatamente di pagare imposte e contributi, allora lo Stato non avrebbe piu' soldi e non potrebbe pagare stipendi, pensioni, non potrebbe piu' fare investimenti. Non potendolo fare, niente deficit e niente debito. Eventualmente lo stato dovrebbe stampare soldi in cantina, per l'equivalente del gettito mancante e quindi in Italia oggi dovrebbe stampare moneta per un 45-50% del PIL, generando un'inflazione mostruosa (iper-inflazione).
Naturalmente se tutti smettessero di pagare soldi allo stato, nessuno all'estero come all'interno presterebbe soldi ad uno stato che sta per fallire e che non puo' rimborsare il debito, perché non ha gettito. Il tuo esempio non regge. Ritenta, sarai piu' fortunato.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 29/04/2012, 13:38

Non ricordo se avevo già segnlato questo articolo. nel caso, repitita iuvant


L'enigma Keynes:
ricetta o causa della crisi?

Quattro libri rilanciano le teorie dell’economista britannico. A difenderlo è Giorgio La Malfa, ad accusarlo Franco Reviglio, Francesco Forte e Hunter Lewis
LUCA RICOLFI

Dopo qualche decennio di sordina, il pensiero di Keynes è tornato al centro dell’attenzione, non solo fra gli economisti. La ragione è semplice: per uscire dalla crisi i Paesi sviluppati stanno adottando politiche essenzialmente keynesiane, ma non tutti gli esperti sono convinti che funzioneranno. Di qui la moltiplicazione di libri che tornano sul pensiero di Keynes, sulla sua visione del capitalismo, sulle sue ricette di politica economica, a partire dalle due fondamentali: ridurre i tassi di interesse, aumentare la spesa pubblica, anche in deficit. Una riflessione che si fa particolarmente interessante, per non dire inquietante, allorché ci si accorge che non solo manca qualsiasi accordo sulla bontà delle ricette keynesiane, ma non c’è consenso neppure su che cosa Keynes avrebbe veramente detto, e ancor meno sulla natura delle politiche economiche che ci hanno condotto alla crisi attuale.

E allora il modo migliore di entrare nel vivo, per il lettore curioso, è di partire da Keynes stesso. Magari cominciando dalla selezione dei suoi scritti proposta da Giorgio La Malfa, con il titolo Sono un liberale?, ripreso da un saggio del 1925 (Sono un liberale?, Adelphi 2010). La raccolta spazia negli ambiti più diversi, e si lascia apprezzare anche per la scrittura incisiva, spesso polemica, con cui Keynes affronta i vari argomenti, talvolta a contenuto prevalentemente accademico (come nei saggi su Marshall, Malthus, Newton), talaltra legati all’attualità politica ed economica del suo tempo: le riparazioni di guerra, i partiti politici, l’economia russa, la fine del gold standard. La breve introduzione di La Malfa, da sempre studioso e ammiratore di Keynes, non manca di offrirci la sua personale lettura della crisi attuale: per La Malfa la crisi del 2007-2009 ha le sue radici nell’abbandono delle politiche keynesiane durante il trentennio liberista (da Reagan e Thatcher in poi), e perciò il superamento della crisi - che a suo parere ora sarebbe finalmente in corso - è strettamente legato al ritorno a Keynes.

Un parere alquanto diverso sulla bontà delle ricette keynesiane si può ritrovare in un altro libro su Keynes, anch’esso uscito nell’anno appena trascorso, a firma Franco Reviglio, economista illustre, ex senatore ed ex ministro, già presidente-amministratore delegato dell’Eni (Goodbye Keynes?, Guerini 2010). Autore già nel 1977 di un libro profetico, in cui avvertiva che l’eccessiva espansione della spesa pubblica avrebbe condotto l’Italia alla stagnazione (Spesa pubblica e stagnazione dell’economia italiana, Il Mulino 1977), Reviglio non pare affatto fiducioso nelle politiche espansive propugnate dai seguaci di Keynes, e richiama i numerosi studi che hanno mostrato gli effetti negativi che il debito esercita sulla crescita, specie allorché il rapporto debito/Pil supera il 90%.

Ma la critica più impietosa dell’edificio keynesiano proviene da un terzo libro su Keynes, uscito in inglese nel 2009 e da poco tradotto anche in Italia grazie all’Istituto Bruno Leoni (Hunter Lewis, Tutti gli errori di Keynes, IBL 2010). Preceduto da un denso saggio di Francesco Forte, il libro di Hunter Lewis ricostruisce minuziosamente il pensiero di Keynes, le sue oscillazioni, le sue incoerenze, per approdare a una diagnosi tanto severa quanto sorprendente, almeno rispetto alle idee oggi dominanti. Secondo Lewis, non solo le ricette keynesiane attualmente in voga non funzionano, ma è proprio grazie ad esse che le economie dei Paesi sviluppati sono precipitate nella crisi. Contrariamente a quanto sentiamo ripetere da alcuni decenni, l’era del turbocapitalismo, del «pensiero unico», della controrivoluzione monetarista, del liberismo selvaggio, è stata molto più keynesiana di quanto i seguaci di Keynes siano oggi disposti ad ammettere. Privatizzazioni e deregolamentazioni, capisaldi della controrivoluzione liberista, si sono spesso mescolati con ingredienti di matrice keynesiana, come i bassi tassi di interesse e la spesa pubblica in deficit, dando luogo a un cocktail inedito, o se preferite a un keynesismo «paradossale», per riprendere la felice espressione coniata da Riccardo Bellofiore nella sua introduzione al classico testo di Minsky su Keynes, molto tempestivamente ripubblicato da Bollati Boringhieri (John Maynard Keynes e l’instabilità del capitalismo, Bollati Boringhieri 2009).

Secondo Lewis, che in parte riprende proprio le analisi di Minsky, le crisi degli ultimi decenni hanno per lo più seguito un tipico pattern keynesiano: credito facile, bassi tassi di interesse, spesa pubblica in deficit, aumento del valore degli asset (case e azioni), inflazione, stretta del credito, recessione. Insomma, Keynes non sarebbe il rimedio, ma semmai l’origine della crisi attuale.

Una ricostruzione, quella di Lewis, che rovescia il senso comune tuttora prevalente, per cui i governi conservatori sarebbero ultra-liberisti, mentre quelli progressisti sarebbero keynesiani. E che trova conferma nell’analisi storica dei deficit pubblici: nella deriva espansiva degli ultimi decenni, assai poco attenta all’equilibrio di bilancio, i governi ultra-liberisti di Reagan-Bush (senior) e Thatcher-Major si sono dimostrati spesso più disinvolti dei loro successori progressisti, Bill Clinton negli Stati Uniti e Tony Blair nel Regno Unito.

Insomma il puzzle keynesiano resta più che mai tale. I quattro libri di Keynes, Reviglio, Lewis e Minsky non lo risolvono, ma sicuramente aguzzano l’ingegno del lettore.
http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni ... tp/382662/
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 29/04/2012, 13:45

lo Stato non avrebbe piu' soldi e non potrebbe pagare stipendi, pensioni,


Appunto. Ma stipendi e pensioni sono diritti acquisiti, quindi lo stato si indebiterebbe talmente tanto verso coloro ai quali deve corrispondere stipendi e pensioni da fallire. Chi non può sostenere i propri debiti fallisce. Ergo: l'alta evasione, insieme a corruzione e inefficienza, può far fallire uno stato.

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Reviglio non pare affatto fiducioso nelle politiche espansive propugnate dai seguaci di Keynes, e richiama i numerosi studi che hanno mostrato gli effetti negativi che il debito esercita sulla crescita, specie allorché il rapporto debito/Pil supera il 90%.


Keynes ai suoi tempi manco se lo sognava, un rapporto al 90%. Era ritenuto accettabile un rapporto debito PIL al 30-40% massimo (come negli USA prima della II guerra mondiale).


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 29/04/2012, 16:53

flaviomob ha scritto:
lo Stato non avrebbe piu' soldi e non potrebbe pagare stipendi, pensioni,


Appunto. Ma stipendi e pensioni sono diritti acquisiti, quindi lo stato si indebiterebbe talmente tanto verso coloro ai quali deve corrispondere stipendi e pensioni da fallire. Chi non può sostenere i propri debiti fallisce. Ergo: l'alta evasione, insieme a corruzione e inefficienza, può far fallire uno stato.

Diritti acquisiti un paio di balle. Se un'azienda non ha piu' soldi per pagare gli stipendi, chiude. Uno stipendio non è un diritto acquisito. è il corrispettivo di un contatto di lavoro che puo' essere chuso in ogni momento, con un preavviso di legge.
Se il sistema pensionistico è a compartizione e finiscono i soldi, non si pagano le pensioni. E chiude anche lo stato.

Allora uno stato che non vuole fallire (come per un'azienda) non deve fare cose che rendono difficile per i propri clienti pagare per le prestazioni che (spesso) non riceve. In uno stato in cui la pressione fiscale è al 35% ed i servizi sono ottimi, con capita che "tutti" si sognano di smettere di pagare le imposte. Quando questo dovesse capitare (l'ipotesi è tua) le responsabilità sarebbero palesemente della classe politica, non certo di quei "tutti che smettessero immediatamente di pagare tasse e imposte". Perché si puo' cercare di ragionare se qualcuno non paga, ma se tutti non pagano la "colpa" (uso un termine che vi piace di piu') è sicuramente dello stato. Quindi se fallisce è colpa sua.

Detto in soldoni, stai facendo un discorso al limite (un ragionamento per assurdo) che pero' non funziona.
Possiamo discutere cosa succederebbe se tutti pagassero le imposte. Non se tutti non le pagassero. Perché sarebbe la fine dello stato ed della discussione (e anche dell'evasione).

Il caso italiano: le spese sono al 50% del PIL. Possiamo arguire che se tutti pagassero le imposte, la pressione fiscale sarebbe al 50% del PIL (e non avremmo deficit) e quindi piu' alta di oggi. Ergo, se vogliamo che diminuisca la pressione fiscale, devono scendere le spese generali.
flaviomob ha scritto:Keynes ai suoi tempi manco se lo sognava, un rapporto al 90%. Era ritenuto accettabile un rapporto debito PIL al 30-40% massimo (come negli USA prima della II guerra mondiale).

Ecco, quindi oggi per l'Italia (120%) nemmeno Keynes proporrebbe politche Keynesiane :o
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 29/04/2012, 18:25

Il 120% deriva in gran parte da evasione, appalti costosissimi e corruzione.
Cosa c'entra Keynes col fatto che i fautori della riduzione della spesa continuano a negare questa evidenza?
Un conto è ridurre gli sprechi, e va benissimo. Ma attualmente la riduzione della spesa continua a causare fenomeni recessivi. L'aumento dell'età pensionabile ostacola l'ingresso nel lavoro dei giovani ed è recessione. Non si fanno concorsi pubblici e sono i giovani a rimanere penalizzati dal mancato ricambio generazionale, non possono mettere su famiglia, affittare case o contrarre mutui, fare la spesa e rimangono sulle spalle dei genitori. La conseguenza è la recessione. Lo stato eroga meno servizi, quindi chi può si paga i servizi privati (e ha meno soldi per acquistare altri beni, quindi c'è recessione), chi non può rinuncia definitivamente e ne soffre la perdita.


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 29/04/2012, 18:46

flaviomob ha scritto:Il 120% deriva in gran parte da evasione, appalti costosissimi e corruzione.

No. Innegabilmente deriva da spesa fuori controllo, da 30 anni. Piu' spese che entrate e non per caso o per evasione ma per precisa volontà politica (si è deciso di fare debiti per NON aumentare le tasse).
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 30/04/2012, 13:46

Ok, quindi apprendiamo che in Italia corruzione, appalti gonfiati, fondi neri all'estero ed evasione non esistono.


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 30/04/2012, 14:02

flaviomob ha scritto:Ok, quindi apprendiamo che in Italia corruzione, appalti gonfiati, fondi neri all'estero ed evasione non esistono.

Ma porca puzzola, e basta con questi infantilismi della battuta del cazzo. :!:
Corruzione, appalti gonfiati ed evasione esistono (e nessuno lo nega) ma sono molto meno responsabili del dissesto della spesa clientelare, anche previdenziale, fuori controllo (quella che porta voti di milioni di persone, non solo dei furbetti). Basta avere il tempo e la capacità di leggere i bilanci dello stato di questi 30-40 anni, da quando la spesa pubblica è passata dal 25 al 50% del PIL e la spesa previdenziale rappresenta ancora oggi il 60% del welfare, contro il 40% tedesco.
Qui si confonde causa con effetto ed è chiaro che con questo errore di base si mischia l'infantilismo della battuta al velleitarismo delle proposte.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 01/05/2012, 11:46

Volgare ed offensivo, tanto per non smentirti. Tipico di un certo pseudo liberalismo alle vongole (scadute) che poi appoggia la polizia quando deve togliere una bandiera a una ragazza in bicicletta...

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http://keynesblog.com/2012/05/01/perche ... e-a-tutti/

Perché eliminare la disoccupazione non conviene a tutti

Il giorno della Festa dei Lavoratori ci pare opportuno riproporre un testo storico particolarmente attuale: “Aspetti politici del pieno impiego” di Michal Kalecki. Kalecki è stato un importante economista polacco che, partendo dall’economia marxista, approdò alle stesse conclusioni teoriche di Keynes, peraltro qualche anno prima di Keynes stesso. Il suo contributo all’indagine sui cicli economici e sugli effetti della distribuzione del reddito torna di attualità proprio in un a crisi che pare avere forti legami con i bassi salari.
In questo articolo, che risale al 1943, Kalecki spiega perché i capitalisti, in genere, avversano le politiche di intervento pubblico tese ad assicurare l’eliminazione della disoccupazione, preferendo tenere vivo quell’esercito di riserva di disoccupati di cui parlava Marx.


Il problema di garantire il pieno impiego tramite l’espansione della spesa pubblica, finanziata col debito pubblico, è stato largamente discusso negli ultimi anni. Tale discussione si è tuttavia concentrata sul lato puramente economico di tale problema, senza la dovuta considerazione dei suoi aspetti politici. La premessa che il governo di uno Stato capitalistico manterrà il pieno impiego, se soltanto saprà come farlo, non è assolutamente ovvia. L’avversione del grande capitale al mantenimento del pieno impiego tramite le spese statali ha a questo proposito un’importanza fondamentale. Tale attitudine si è manifestata chiaramente all’epoca della grande crisi economica degli anni trenta, quando i capitalisti hanno combattuto costantemente gli esperimenti volti ad accrescere l’occupazione per mezzo della spesa pubblica in tutti i paesi, con l’eccezione della Germania hitleriana. Non è facile spiegarsi tale posizione. E’ chiaro infatti che un più elevato livello della produzione e dell’occupazione è favorevole non soltanto ai lavoratori ma anche ai capitalisti, poiché i loro profitti si accrescono. D’altra parte la politica di pieno impiego, basata sulle spese statali finanziate in deficit, non incide negativamente sui profitti in quanto appunto non richiede l’istituzione di nuove imposte. In una situazione di crisi i “capitani d’industria” si struggono per la ripresa. Perché quindi non accolgono con gioia la “ripresa artificiale” che lo Stato offre loro? E’ di tale difficile problema, di non comune interesse, che noi vogliamo occuparci in questo articolo.


I
1. Le ragioni dell’opposizione dei capitalisti al pieno impiego realizzato dal governo tramite la spesa pubblica possono venir suddivise in tre categorie: 1) l’avversione all’ingerenza dello Stato nella questione dell’occupazione in genere; 2) l’avversione nei confronti della direzione delle spese pubbliche (gli investimenti pubblici e le sovvenzioni del consumo); 3) l’avversione alle trasformazioni sociali e politiche derivanti dal mantenimento costante del pieno impiego.Esaminiamo quindi in dettaglio ognuno dei tre tipi di obiezioni alla politica di espansione economica dello Stato.
2. Consideriamo quindi in primo luogo l’avversione dei “capitani d’industria” all’intervento pubblico nelle questioni dell’occupazione. Ogni allargamento dell’ambito dell’attività economica dello Stato è visto con sospetto dai capitalisti; ma l’accrescimento dell’occupazione tramite le spese statali ha un aspetto particolare che rende la loro opposizione particolarmente intensa. Nel sistema del laissez faire il livello dell’occupazione dipende in larga misura dalla così detta atmosfera di fiducia. Quando questa si deteriora, gli investimenti si riducono, cosa che porta a un declino della produzione e dell’occupazione (direttamente, o indirettamente, tramite l’effetto di una riduzione dei redditi sul consumo e sugli investimenti). Questo assicura ai capitalisti un controllo automatico sulla politica governativa. Il governo deve evitare tutto quello che può turbare l’ “atmosfera di fiducia”, in quanto ciò può produrre una crisi economica. Ma una volta che il governo abbia imparato ad accrescere artificialmente l’occupazione tramite le proprie spese, allora tale “apparato di controllo”perde la sua efficacia. Anche per questo il deficit del bilancio, necessario per condurre l’intervento statale, deve venir considerato come pericoloso. La funzione sociale della dottrina della “finanza sana” si fonda sulla dipendenza del livello dell’occupazione dalla “atmosfera di fiducia”.
3. L’avversione dei “capitani d’industria” alla politica di espansione della spesa pubblica diventa ancor più acuta allorché si cominciano a considerare i fini per cui tale spese possono venir destinate, e cioè gli investimenti pubblici e la sovvenzione del consumo di massa. Il fine cui mira l’intervento statale richiede che gli investimenti pubblici si limitino agli oggetti che non competono con l’apparato produttivo del capitale privato (ad esempio ospedali, scuole, strade, ecc.), in caso contrario infatti l’accrescimento degli investimenti pubblici potrebbe aver un effetto negativo sul rendimento degli investimenti privati, e la caduta di questi potrebbe compensare l’effetto positivo degli investimenti pubblici sull’occupazione. Tale concezione è per i capitalisti interamente di loro gusto, ma l’ambito degli investimenti pubblici di tale tipo è piuttosto ristretto e vi può essere la possibilità che il governo, agendo secondo la logica di tale politica possa spingersi a nazionalizzare i trasporti o i servizi pubblici, per poter allargare l’ambito del suo intervento [1] Ci si può quindi attendere che i “capitani d’industria” e i loro esperti abbiano una disposizione più favorevole nei confronti del sovvenzionamento del consumo di massa (tramite gli assegni familiari, i sussidi volti alla riduzione del prezzo degli articoli di prima necessità, ecc.) piuttosto che nei confronti degli investimenti pubblici: nel sovvenzionare il consumo lo Stato non interferirebbe infatti in alcuna misura nella sfera dell’ “attività imprenditoriale”. In realtà tuttavia la questione si presenta altrimenti: La sovvenzione ei consumi di massa incontra un’avversione ancora più aspra di tali esperti che nei confronti degli investimenti pubblici. Ci imbattiamo qui infatti in un principio “morale” della più grande importanza: le basi dell’etica capitalistica richiedono che “ti guadagnerai il pane col sudore della tua fronte” (a meno che tu non viva dei redditi del capitale).
4. Abbiamo già considerato le ragioni politiche dell’opposizione alla politica di creazione di occupazione tramite la spesa pubblica Ma anche se tale posizione fosse vinta, cosa che può in realtà verificarsi sotto la pressione delle masse, il mantenimento del pieno impiego porterebbe a trasformazioni politiche e sociali che darebbero nuova forza all’opposizione dei “capitani d’industria”. Infatti, in un regime di continuo pieno impiego il licenziamento cesserebbe di agire come misura disciplinare. La posizione sociale del “principale” sarebbe scossa, si accrescerebbe la sicurezza di sé e la coscienza di classe dei lavoratori. Gli scioperi per un salario più alto e il miglioramento delle condizioni di lavoro sarebbero fonti di tensione politica. E’ vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego, rispetto al loro livello medio sotto il laissez faire. Persino la crescita dei salari derivante dalla posizione più forte dei lavoratori verrebbe ad agire piuttosto in direzione di un accrescimento dei prezzi che di una riduzione di profitti e in tale maniera verrebbe a colpire soprattutto gli interessi dei redditieri. Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti. L’istinto di classe dice loro che una continua piena occupazione non è “sana” dal loro punto di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema capitalistico normale.
II
1. Una delle funzioni importanti del fascismo, come si può vedere nel caso dell’hitlerismo, fu l’eliminazione dei motivi per l’avversione dei capitalisti nei confronti del pieno impiego. L’avversione alle spese pubbliche come tali viene superata dal fascismo col fatto che la macchina statale è sotto il controllo diretto di una associazione del grande capitale col vertice fascista. Il mito della “finanza sana” che era necessario per impedire al governo di agire contro una “crisi di fiducia” tramite la spesa pubblica è ora superfluo. Nello Stato democratico non si sa con sicurezza come sarà il governo seguente, mentre nello Stato fascista non c’è governo seguente. L’avversione nei confronti delle spese statali per gli investimenti pubblici e per sovvenzionare il consumo di massa viene superata dalla concentrazione delle spese statali negli 1 Occorre qui osservare che gli investimenti nei rami nazionalizzati possono contribuire alla risoluzione del problema della disoccupazione solo nel caso in cui vengano eseguiti con criteri diversi da quelli con cui operano le imprese private. Le imprese pubbliche devono eventualmente accontentarsi di un tasso inferiore di profitto e programmare i loro investimenti in maniera tale da attenuare le crisi economiche. armamenti. Infine, “la disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” con il pieno impiego sono assicurate dal “nuovo ordine”,di cui vengono a far parte vari mezzi: dallo scioglimento dei sindacati ai campi di concentramento. La pressione politica sostituisce qui la pressione economica della disoccupazione.
2. Il fatto che gli armamenti sono il nerbo della politica fascista di pieno impiego ha un’influenza profonda sul carattere economico di questa. Il riarmo su larga scala si accompagna all’espansione delle forze armate e a piani di conquista. In tale maniera lo scopo principale dell’espansione della spesa pubblica si trasferisce gradualmente dal pieno impiego alla realizzazione del massimo effetto di riarmo. Ciò porta alla limitazione del consumo al di sotto del livello che potrebbe venir ottenuto in corrispondenza del pieno impiego. Il sistema fascista inizia col vincere la disoccupazione, si sviluppa in “economia di guerra” che tende inevitabilmente alla guerra.
III
1. Quali saranno le conseguenze pratiche dell’opposizione dei capitalisti nei confronti della politica di pieno impiego nella democrazia capitalistica? Cercheremo di rispondere a tale domanda sulla base delle analisi delle ragioni di tale opposizione che abbiamo appena condotto. Abbiamo mostrato che occorre aspettarsi un’avversione dei “capitani d’industria” su tre piani: 1) un’opposizione di principio nei confronti dell’espansione della spesa pubblica; 2) un’opposizione nei confronti del fatto che le spese totali siano dirette sia verso gli investimenti pubblici (ciò che può provocare l’inserimento dello Stato in nuovi settori di attività economica) sia verso il sovvenzionamento del consumo di massa; 3) l’opposizione nei confronti di un mantenimento costante del pieno impiego. Occorre prima di tutto affermare che il periodo nel quale i “capitani d’industria” potevano permettersi di combattere qualsiasi forma di intervento statale, avente come scopo una attenuazione delle crisi economiche, appartiene ormai piuttosto al passato. Attualmente non si pone in questione la necessità dell’intervento pubblico in tempo di crisi. La controversia si riferisce piuttosto ancora alla direzione di tale intervento e al fatto se esso debba venir posto in essere soltanto al fine di attenuare la crisi, o anche deve tendere ad assicurare un costante pieno impiego.
2. Nelle discussioni correnti su tale tema riemerge continuamente la concezione secondo cui la crisi deve essere contrastata tramite la stimolazione dell’investimento privato. Tale stimolazione può consistere nell’abbassamento del tasso d’interesse, nella riduzione dell’imposta sui profitti o anche nel sovvenzionamento diretto degli investimenti privati in questa o quella maniera. Non c’è niente di strano nel fatto che per i capitalisti tali metodi di intervento siano attraenti. Il capitalista resta l’intermediario tramite il quale l’intervento viene ad essere effettuato. Qualora la situazione politica non gli dia fiducia, allora non si fa “comprare” e non accresce i suoi investimenti. Nello stesso tempo tale tipo di intervento non porta lo Stato a “giocare agli investimenti” (pubblici), non fa “buttar via i soldi” nel sussidiare il consumo. E’ possibile tuttavia dimostrare che l’incentivazione dell’investimento privato non è un metodo adeguato per prevenire la disoccupazione di massa. Occorre a tale proposito considerare due casi.
a) In tempo di crisi il tasso d’interesse o l’imposta sui profitti vengono ridotti fortemente e vongono cresciuti in periodo di ripresa. In tale caso sia il periodo, come l’ampiezza del ciclo congiunturale possono venir ridotti. Ma l’economia può rimanere lontana dallo stato di pieno impiego non solo in tempo di crisi, ma anche in tempo di ripresa congiunturale; cioè la disoccupazione media può essere ancora elevata, nonostante le sue oscillazioni siano più deboli.
b) In periodo di crisi ancora una volta il tasso d’interesse e l’imposta sui profitti vengono ad essere ridotti, ma nel boom successivo non vengono rialzati. In tale caso il boom durerà più a lungo, ma terminerà di nuovo in una nuova crisi, in quanto la semplice riduzione del tasso d’interesse o dell’imposta si profitti non elimina ovviamente le forze che suscitano le oscillazioni congiunturali nell’economia capitalistica. Nella nuova crisi occorrerà ulteriormente ridurre il tasso d’interesse o l’imposta sui profitti e così via. In tale maniera in un tempo non troppo lontano il tasso d’interesse dovrebbe diventare negativo e l’imposta sui profitti dovrebbe essere sostituita da un sussidio. Lo stesso si verificherebbe qualora si cercasse di mantenere il pieno impiego con l’aiuto di incentivi per gli investimenti privati. Il tasso d’interesse e l’imposta sui profitti dovrebbero venir continuamente ridotti. In aggiunta a questo fondamentale difetto del combattere la disoccupazione incentivando gli investimenti privati esiste ancora una difficoltà ulteriore di carattere pratico. La reazione degli imprenditori all’impiego degli strumenti dei quali abbiamo parlato non è sicura. In tempi di crisi grave possono aver aspettative molto pessimistiche e la riduzione del tasso d’interesse e dell’imposta sui profitti può allora per lungo tempo agire in maniera molto ridotta sugli investimenti e quindi sul livello della produzione e dell’occupazione.
3. Persino coloro che si dichiarano favorevoli a combattere la crisi creando degli incentivi per gli investimenti privati, spesso non fanno affidamento esclusivamente su tale metodo, ma prendono in considerazione ugualmente gli investimenti pubblici. La situazione si presenta attualmente come se i “capitani d’industria” e i loro esperti avessero tendenza ad accettare, come “male minore”, una attenuazione della crisi tramite le spese pubbliche finanziate per via del deficit di bilancio. Sembra tuttavia che essi siano ancora ostinatamente contrari ad un accrescimento dell’occupazione ottenuto sovvenzionando il consumo e agli sforzi di mantenere il pieno impiego. Tale stato di cose sarà forse sintomatico per il futuro sistema economico delle democrazie capitalistiche. Il tempo di crisi o in seguito alla pressione delle masse, e forse anche senza di questo, si metteranno in moto gli investimenti pubblici finanziati tramite il deficit di bilancio, allo scopo di contrastare la disoccupazione di massa. Ma qualora si facciano dei tentativi per utilizzare tali metodi al fine di mantenere l’elevato livello di occupazione raggiunto nel boom successivo, si andrà incontro probabilmente ad una aspra opposizione da parte dei “capitani d’industria”. Come abbiamo già mostrato più sopra, essi non desiderano assolutamente un pieno impiego costante. I lavoratori diventano in tale situazione “recalcitranti” e i “capitani d’industria” diventano ansiosi di “dar loro una lezione”. Inoltre la crescita dei prezzi in tempo di boom agisce a svantaggio dei redditieri piccoli e grandi, cosicché oggi essi cominciano ad avversare l’alta congiuntura. In tale situazione si forma probabilmente un blocco del grande capitale e delle rendite, e tale blocco trova probabilmente più di un economista pronto a dichiarare che la situazione è estremamente poco sana. La pressione di tutte queste forze, e in particolare del grande capitale, induce sicuramente il governo al ritorno alla politica tradizionale di pareggio del bilancio. In tale maniera subentra la crisi, nella quale la politica di espansione delle spese pubbliche riacquista di nuovo il proprio significato. Tale schema di “ciclo congiunturale politico” non è del tutto ipotetico, in quanto uno sviluppo analogo degli avvenimenti si è verificato negli Stati Uniti negli anni 1937-38. L’interruzione del boom nella seconda metà del 1937 fu in realtà la conseguenza di una forte riduzione del deficit del bilancio. D’altra parte nell’acuta crisi che di nuovo ne derivò, il governo ritornò rapidamente alla politica di espansione delle spese pubbliche. Per cui il regime del “ciclo congiunturale politico” non assicurerebbe il pieno impiego tranne che nel punto massimo del boom, me le crisi sarebbero relativamente moderate e di breve durata.


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 01/05/2012, 12:06

flaviomob ha scritto:Volgare ed offensivo, tanto per non smentirti. Tipico di un certo pseudo liberalismo alle vongole (scadute) che poi appoggia la polizia quando deve togliere una bandiera a una ragazza in bicicletta...

Tu cerca di non offendere interrompendo una discussione che vuole essere serie con battute infantili che offendono l'intelligenza (soprattutto tua) e che hanno l'unico risultato di fare incazzare l'interlocutore.
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