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Una lettura keynesiana della crisi

Forum per le discussioni sulle tematiche economiche e produttive italiane, sul mondo del lavoro sulle problematiche tributarie, fiscali, previdenziali, sulle leggi finanziarie dello Stato.

Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 28/04/2012, 17:09

flaviomob ha scritto:Hai dimenticato ancora una volta l'evasione...

Non se ne parlava nel tuo testo, per cui lo avevi dimenticato anche tu ;)
Ribadisco: l'evasione non crea deficit e debito (che sono pianificati nelle varie manovre) ma disparità tra cittadini.
Va combattuta proprio per questo: perché crea un divario tra cittadino onesti (che finscono con pagare piu' della media) e ciottadini disonosti (per necessità o per ingordigia) che pagano nulla o meno della media, spesso usufruendo dei serviti erogati in modalità "beveridge". Non certo di quelli erogati in modalità "bismark". Per questo la prima riforma da fare per contrastare l'evasione (oltre a ridurre spese, tasse, burocrazia e semplificare le leggi) è universalizzare i sistemi bismark anche nella sanità, non solo nelle pensioni. Germania e Francia, paer vari motivi, hanno un'evasione ridotta (circa la metà della nostra) ma hanno anche sistemi sanitari di tipo bismark, oltre ad uno stato decisamente piu' efficente.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda trilogy il 28/04/2012, 19:46

flaviomob ha scritto:.....E noi stiamo qui a guardare aziende che falliscono, imprenditori e lavoratori che si sparano, banche che non prestano denaro perché impegnate a speculare nella finanza internazionale e nei titoli di stato a interessi molto superiori a quello che la BCE fa alle stesse banche... Mentre lo Stato taglia fondi a esodati, disabili, sociale. Tutto ciò è immorale, torbido, vergognoso, schifoso-....


Dallo scoppio della crisi finanziaria tutti vogliono o sono costretti a ridurre il debito: Governi, banche, imprese e famiglie.
I Governi aumentano le tasse, le banche con l'aiuto della BCE aumentano la differenza tra quanto pagano il denaro e quanto lo prestano. Le famiglie e le imprese in massima parte pagano il costo del riequilibrio, che procede molto lentamente con costi sociali enormi. Ancora si vede in Italia credito al consumo tramite carte di credito con tassi oltre 18%. Se avessimo fatto fallire le banche che praticano queste condizioni saremmo molto più avanti nell'uscita dalla crisi.

Interessanti invece le informazioni contenute nell'ultimo rapporto sul credito alle piccole imprese pubblicato dalla BCE.

L'Italia come al solito si "distingue". Parlando del "leverage" (il rapporto tra finanziamento esterno e attivo dello stato patrimoniale) nei vari paesi è in riduzione o è stabile. In Italia in peggioramento. Visto che il credito alle imprese non è cresciuto, per giustificare il peggioramento del rapporto si deve essere ridotto l'attivo. Questo ha una serie di conseguenze. La prima, è che le banche avranno ulteriori problemi a finanziare le imprese perchè il rischio cresce a causa del deterioramento della struttura patrimoniale delle imprese; la seconda è che l'aggiustamento in Italia è più lento che altrove; la terza, è che le piccole imprese italiane avrebbero bisogno, in via prioritaria, di misure che favoriscano un rafforzamento dei mezzi propri.

[..]The deleveraging process for the SMEs would seem more pronounced in Germany, the
Netherlands and Finland, but would also seem present in most other countries with the
exception of Italy and Portugal. The Italian SMEs, in particular, report increasing their
leverage, with the net percentage jumping from 6% to 24% in this survey round.
As recent
data on loan developments show a decline in small-sized loans extended by banks to
companies in Italy, one possible explanation of this result could be that this change has
more to do with the asset side of the SMEs’ balance sheet and a possible reduction in the amount and/or value of assets available to SMEs
(see Chart 14). […]

Fonte BCE Pagina 13:
http://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/other/ ... 0e9054fda9
Ultima modifica di trilogy il 28/04/2012, 22:46, modificato 1 volta in totale.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 28/04/2012, 20:27

l'evasione (siamo a 91 miliardi nei primi 4 mesi dell'anno) crea un deficit valutabile, in mancate entrate, in 270 miliardi di euro per il solo 2012. Ci starebbero dentro sussidi di disoccupazione in diamanti e lingotti d'oro, con tanto di vacanze ad Anguilla per tutti i disoccupati... a loro insaputa, ovviamente :lol:


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 28/04/2012, 22:08

flaviomob ha scritto:l'evasione (siamo a 91 miliardi nei primi 4 mesi dell'anno) crea un deficit valutabile, in mancate entrate, in 270 miliardi di euro per il solo 2012. Ci starebbero dentro sussidi di disoccupazione in diamanti e lingotti d'oro, con tanto di vacanze ad Anguilla per tutti i disoccupati... a loro insaputa, ovviamente :lol:

Queste entrate potrebbero diminuire il carico sugli onesti (quindi le aliquote) ma non la pressione fiscale.
Quella scende solo se calano le spese.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 29/04/2012, 9:45

Un momento, tu, Franz, avevi scritto che l'evasione non aumenta deficit e debito.
Evidentemente ciò non è vero.
Che poi la riduzione dell'evasione non comporti una riduzione della pressione fiscale, quello dipende da come lo stato decide di utilizzare i maggiori proventi incassati: in teoria un paese sano (non il nostro) può benissimo decidere di ridurre le aliquote fiscali e quindi la pressione fiscale.
Il nostro caso particolare, comunque, è dato che quasi la totalità delle imposte sono pagate da lavoratori dipendenti, pensionati ed imprenditori (onesti). Quindi abbiamo un cuneo fiscale spropositato, ma non abbiamo welfare sufficiente per le famiglie in difficoltà e problemi di liquidità per imprese che finiscono per fallire anche se sono ancora sane (e qui sarebbe doveroso stampare moneta, in questo momento storico!) mentre i soliti stronzi portano i soldi illegalmente in Svizzera o alle Cayman.

Ci sono quindi due categorie di cittadini: quelli sottoposti ad una pressione fiscale inaudita e insostenibile che in cambio hanno le briciole (stiamo iniziando ad adottare il sistema giapponese: non nella riduzione degli interessi sul debito pubblico, ma nell' harakiri...) e quelli delle vacanze ad Anguilla a loro insaputa...

Monti, ostaggio di Berlusconi e Dell'Utri con tanto di padrini di riferimento, non può certo permettersi di recidere il bubbone. In fondo, non è colpa sua (di Monti) ma di chi non ha (non ha avuto) il coraggio di far fuori Berlusconi definitivamente.


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 29/04/2012, 10:35

flaviomob ha scritto:Un momento, tu, Franz, avevi scritto che l'evasione non aumenta deficit e debito.
Evidentemente ciò non è vero.
Che poi la riduzione dell'evasione non comporti una riduzione della pressione fiscale, quello dipende da come lo stato decide di utilizzare i maggiori proventi incassati: in teoria un paese sano (non il nostro) può benissimo decidere di ridurre le aliquote fiscali e quindi la pressione fiscale.

Guarda che qui non è un problma di opinioni ma di scienza delle finanze.
La pressione fiscale non è definita come ci pare (tu puoi avere un'idea di cosa è ed io un'altra) ma è definita in modo standard da regole internazionali. Ci rimase male Berlusconi, quando scopri' che tutti i condoni che aveva fatto avevano portato soldi nella casse dello stato e quindi era aumentata la pressione fiscale. Se tutti pagassero le tasse, se l'evasione fosse eliminata, il risultato immediato sarebbe un'aumento spropositato della pressione fiscale (il rapporto tra le entrate tributarie di ogni genere ed il PIL). Oggi la pressione fiscale è il 45% del PIL e l'evasione è il 18% (poi esiste un 9-10% che è economia illegale, che non puo' emergere). Quindi se tutti gli evasori pagassero il dovuto, la pressione fiscale italiana andrebbe al 63% (45+18) e sarebbe la piu' elevata del mondo. L'anno dopo il governo potrebbe diminuire le aliquote cosi' tutti pagherebbero un po' di meno, finalmente. E facendo questa operazione riporterebbe la pressione di nuovo al 45%.
Da qui è evidente una volta per tutte che l'emersione da sola non diminuisce la pressione fiscale ma caso mai la aumenta.
Se un governo volesse portare la pressione fiscale dal 45 al 40%, potrebbe farlo solo riducendo le spese generali dello stato.
Perché se non riduce le spese allora avrà un 5% di deficit ad il debito passerà dal 120 al 125% del PIL.
Cercare di ridurre la pressione fiscale (in un paese sano) ma non le spese sperando che questo aiuti l'economia è la base delle politiche di Reagan e Thatcher (supplx side economics) ed è stata un fallimento. Non mi sembra quindi il caso che tu (se ho inteso bene) sostenga questa tesi.
Il fatto è che un 45% di pressione fiscale (a monte di spese per un 50%) è il vero dato esagerato, che strozza l'economia.
Fa bene chi, per sopravvivere, se ne va all'estero. Strano che nessuno qui, sempre molto incline a citare il giudizio dei preti che si occupano di politica, non abbia qui riportato il pensiero di Don Ferdinando http://www.liberoquotidiano.it/news/ita ... asse-.html
Se vogliamo pagare meno tasse (in totale) dobbiamo diminuire le spese dello stato, la burocrazia, i burocrati.
Allora vedrai che anche l'evasione diminuirà.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 29/04/2012, 11:12

Appunto, Franz. Se ne deduce che la tua affermazione era sbagliata. Il recupero dell'evasione fiscale DIMINUISCE deficit e debito.
Anche i migliori sbagliano ;)

-

http://keynesblog.com/2012/04/26/leurop ... -mondiale/

L’Europa dell’Euro è il malato dell’economia mondiale

Posted by keynesblog on 26 aprile 2012 in Economia, Europa


di Francesco Saraceno (OFCE – Sciences Po, Parigi)

L’ultimo World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale è uscito la settimana scorsa. Ha un sacco di osservazioni interessanti sul austerità europea. È indicativo che si ponga il problema dei tempi: il risanamento di bilancio, se attuato troppo in fretta, può finire per essere controproducente. Ho giocato un po’ con i dati che accompagnano il rapporto, comprese le previsioni.

In primo luogo, se facciamo un grafico del PIL per gruppi di paesi, “doppia divergenza” (double decoupling) di cui ho parlato per la zona euro è evidente. Basta guardare la figura seguente:

Immagine

Facendo il PIL PPP (Purchasing Power Parity, cioé ponderato per tenere conto delle differenze di potere d’acquisto) pari a 100 nel 2008, vediamo che la crisi iniziata nell’estate del 2007 ha colpito l’economia mondiale fino al 2009. Con l’eccezione dell’Asia orientale e dell’Africa Sub Sahariana, l’economia mondiale è in recessione nel corso del 2009. La zona euro fa un po’ peggio degli altri (soprattutto perché abbiamo avuto pochissimo stimolo fiscale), ma nel complesso possiamo dire che si inserisce nel gruppo. Il malato cronico Giappone fa peggio di noi, una magra soddisfazione …

La crisi greca ha inizio nel novembre 2009 e l’anno 2010 segna la svolta verso l’austerità nella maggior parte dei paesi dell’Unione monetaria. Le misure di stimolo già modeste o vengono eliminate, o invertite del tutto. Basta immaginare le conseguenze: la zona euro ha il più basso tasso di crescita tra macro aree (i tassi di crescita sono nel grafico seguente, ndr), a dispetto della nostra sbandierata “storia di successo”, la Germania.

Immagine



Il 2011 è l’anno del circolo vizioso: una spirale di austerità-bassa crescita-deficit-austerità (si veda quanto dice Krugman [e il grafico tratto dal suo blog, in fondo all'articolo ndr]) che il nostro continente non sembra in grado di rompere (o, peggio, non vuole), intrappolato nella cecità ideologica, e soffocata da meccanismi di governance deboli. Siamo stati fortunati che il Giappone era lì a dimostrare che la crescita bassa non aveva niente a che fare con austerità. Ah no, un attimo… qualcosa è accaduto a Fukushima …

Il 2012 sarà l’anno della divergenza. L’economia mondiale è sulla via del recupero. Instabile, debole, vulnerabile, ma chiaro e presente. Nel frattempo, noi [membri della zona euro, ndr] stiamo entrando in quella double-dip recession [recessione seguita da una debole ripresa e una successiva recessione, ndr] che molti di noi temevano. La crisi globale non c’è più, sostituita dalla crisi dell’euro. Secondo il Fondo Monetario Internazionale (che in questo caso può anche essere ottimista), non si tornerà ai livelli di PIL del 2008 prima del 2014. Siamo il malato dell’economia mondiale …

Questo avrà conseguenze, oltre alla disgregazione sociale cui assistiamo ogni giorno? Beh, sì. Per quello che valgono, il FMI dà le previsioni sul PIL fino al 2017. Ed ecco un’altra figura che ho costruito:

Immagine




Il quadrante superiore mostra la suddivisione del PIL nel 2000 e nel 2017. Non sorprendentemente, la quota delle economie emergenti aumenterà fortemente, a spese di tutte le economie avanzate, questo è un po’ inevitabile e, vorrei aggiungere, benvenuto. Ma se guardiamo al quadrante inferiore, si può osservare che la zona euro soffrirà molto di più rispetto agli Stati Uniti o alle altre economie avanzate: la nostra quota del PIL mondiale si contrarrà del 35%, contro il 25% circa delle altre economie avanzate. E ciò non è necessario che accada. L’euro è stato creato, tra le altre cose, come uno strumento per competere nell’economia globale con gli Stati Uniti, e per contrastare l’ascesa delle economie emergenti. Direi che era l’unico strumento. Non ha funzionato, non funziona. E se non procediamo verso una struttura federale, non funzionerà.

Ho scritto troppo per dire una cosa molto semplice. La crisi globale non può più essere invocata per giustificare la nostra scarsa redditività economica. Ci stiamo infliggendo dolore da soli con una dottrina sbagliata che ispira una leadership ideologizzata.

Nel frattempo, i mercati finanziari sono sulle montagne russe, e qualcuno getta la colpa su un moderato socialista francese …

Articolo originale “The Sick Man” sul blog di Francesco Saraceno

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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 29/04/2012, 11:33

La produttività non aumenterà con maggiore flessibilità e riduzione dei salari

Ieri i giornali erano pieni di grafici che mostrano come i salari degli italiani siano tra i più bassi d’Europa. Ne abbiamo già parlato ma tocca tornare sull’argomento e legarlo al problema della produttività. Anche perché su questo concetto si innestano da una parte delle letture volutamente parziali e ideologicamente segnate (la colpa sarebbe del “troppo Stato” che per di più “funziona male”, come fa intendere Irene Tinagli su La Stampa) e dall’altra delle vere e proprie invenzioni senza alcuna base scientifica (del tipo: “i lavoratori italiani sono scansafatiche e i sindacati li difendono”) tese a nascondere le responsabilità pubbliche e private.

Apparentemente c’è un consenso unanime nelle risposte che vengono fornite per spiegare le cause dei problemi dello sviluppo italiano: la produttività del nostro paese ha da tempo iniziato a perdere colpi, divenendo la causa principale di un progressivo rallentamento della crescita del Pil. Da tempo l’Italia cresce a tassi inferiori alla media europea, e da quest’ultima sempre più divergenti (non meno di un punto e mezzo percentuale). I più parlano di quindici anni, altri di venti. A ben vedere è dalla seconda metà degli anni Ottanta che l’Italia ha incominciato a rallentare. In ogni caso si tratta di un periodo lungo. Fino a qualche tempo fa le voci che parlavano di “declino” (la Cgil lo fa da 10 anni ormai) venivano immediatamente tacciate di disfattismo (“i ristoranti sono pieni, abbiamo tre telefonini a testa…”).
Anche i più illuminati, quelli che non si foderavano gli occhi di prosciutto per motivi politico-elettorali, ostentavano ottimismo, parlando di “upgrading”, ovvero di un processo di modernizzazione spontaneo del tessuto produttivo italiano, a volte infarcendo i loro commenti con elogi alla secolare inventiva italica, citando qualche caso d’eccellenza.
Nel 2008 scoppia la crisi internazionale. Dal 2010 l’incapacità dell’Italia di recuperare fa giustizia degli ottimismi, siano essi interessati o ingenui. Ci si accorge che da tempo l’Italia non cresce ed esibisce performance di sviluppo sistematicamente peggiori dei paesi ad essa comparabili. Coloro che prima guardavano con ottimismo all’upgrading qualitativo delle imprese, sono giocoforza spinti a ricercare i motivi della stagnazione in quei fattori che, rispetto agli altri paesi europei, impedirebbero una gestione della situazione di crisi.
Ed ecco spuntare il tema della produttività che, in quanto “causa strutturale” della ridotta dinamica di crescita del reddito del paese, diventa protagonista della scena. Ma il modo in cui si pensa di risolvere il problema denuncia che non se ne sono comprese le cause o, meglio, che non si vogliono affrontare, preferendo scegliere scorciatoie tutte a carico di chi non ha certo visto accrescere il suo potere nei decenni scorsi: i lavoratori. La bassa produttività viene fatta dipendere da una presunta inefficienza del lavoro, sostenendo che è di questo ci si debba occupare affinché il “motore dell’economia” possa riprendere a girare a pieno regime. Si badi che non si tratta di boutade di qualche politico, ma di un preciso indirizzo portato avanti tra gli altri da illustri accademici. Pietro Ichino, Alberto Alesina, Francesco Giavazzi, Luigi Zingales e, ovviamente, Mario Monti ed Elsa Fornero sono tra i principali protagonisti di questa campagna che punta a par passare l’idea che dobbiamo “lavorare di più” (meno pause, meno ferie, niente feste comandate) e “lavorare meglio” (le aziende hanno bisogno di flessibilità, e poi che noia il posto fisso). Il modello Marchionne diventa l’esempio da seguire e trova poca o nessuna resistenza nel mondo politico e persino sindacale.
Se non fosse che le cose così non stanno. Anzi, la scure che si abbatte sui lavoratori non solo assume una forma lesiva di diritti e tutele basilari (tra cui la stessa rappresentanza sindacale), ma non è risolutiva del problema della produttività di cui soffre l’Italia. Au contraire, l’unico effetto che si avrà (non curando le cause reali) sarà quello di far scivolare ulteriormente il reddito di quelle classi sociali a più alta propensione al consumo, alimentando la spirale recessiva: sempre maggiori contrazioni della domanda aggregata, alimentate tanto da un aumento della disoccupazione, quanto da pressioni verso il basso dei salari che la precarizzazione del mercato del lavoro tende a produrre.
Dov’è, dunque, che si gioca la reale partita della produttività, e quali sono in questo senso i problemi strutturali dell’economia italiana, che le impediscono di crescere al pari degli altri paesi europei?
La dinamica della produttività di un paese esprime la capacità che questo ha di produrre reddito. La produttività non è banalmente una sorta di misura “standardizzata” del ritmo di lavoro come vorrebbe far credere chi parla di inefficienza dei lavoratori. E’ invece legata al lavoro nella misura in cui questo si relaziona al contesto produttivo in cui esso opera, nel quale debbono essere annoverati la dotazione di capitale, la tecnologia utilizzata, e l’organizzazione data al processo produttivo. Anche con riferimento alla singola impresa, la produttività è legata al contesto di sistema – cioè al resto del sistema produttivo, alle infrastrutture, ecc. – e soprattutto al valore di ciò che si produce che deve essere preso a riferimento.
Passando all’intero sistema produttivo, il concetto si rafforza. Il sistema economico è strutturato in base agli scambi che avvengono tra i diversi settori, ed è l’insieme di queste interazioni che ne determina la capacità di produrre reddito, e dunque la sua produttività complessiva. La misura della produttività (in valore) è in generale molto diversa da settore a settore, ma ciò che conta è il risultato finale. Nelle economie avanzate, nelle quali si è assistito ad una straordinaria crescita del settore dei servizi, l’asimmetria relativa ai valori della produttività è persino cresciuta a sfavore di questi ultimi, ma è vero al tempo stesso che i servizi, ed in particolare quelli a “maggior contenuto di conoscenza”, hanno registrato una maggior crescita proprio in quei paesi che maggiormente hanno innovato il proprio sistema produttivo. In questi paesi è stata approfondita una specializzazione manifatturiera in comparti a medio–alta tecnologia che ha sostenuto a sua volta la domanda di servizi innovativi innescando un circuito virtuoso.
La verità è che i paesi che hanno realizzato più elevati tassi di sviluppo, e che mantengono strutturalmente potenziali di sviluppo più elevati, sono quelli che hanno saputo dar vita a nuove “catene del valore economico”, in cui è preminente il ruolo dei processi di innovazione con l’obiettivo di soddisfare una domanda che, col crescere del reddito pro-capite, si è profondamente evoluta e trasformata, tendendo a soddisfare bisogni di qualità più elevata (non ultimi quelli collegati alla salvaguardia dell’ambiente). Questo è vero in Europa non solo per i maggiori paesi (Francia, Germania, Regno Unito), ma anche per le economie più piccole, tipicamente quelle del Nord Europa e scandinave.
Per meglio comprendere il complesso rapporto tra innovazione e produttività conviene lasciare la parola a Paolo Sylos Labini ,che del rapporto tra sviluppo e innovazione fece uno dei capisaldi della sua riflessione economica:
“Mentre per definire le variazioni della produttività del lavoro per i beni già esistenti non sorgono particolari problemi interpretativi, tali problemi sorgono invece nel caso di nuovi beni. In che senso si può dire che aumenti la produttività se compare un nuovo bene, che soddisfa più efficacemente bisogni già prima soddisfatti o soddisfa bisogni prima non soddisfatti per nulla? Non riesco a dare una risposta precisa univoca. Credo che gli economisti debbano approfondire criticamente i criteri che gli statistici economici adottano quando decidono di includere nelle stime del reddito nazionale i nuovi beni. L’indice non è e non può essere preciso; ma non sembra ci siano alternative”
Paolo Sylos Labini (2004), Torniamo ai classici, Laterza, Bari, p.10.
Da tutto ciò ne discende che se per incentivare lo sviluppo si intende applicare la ricetta del “legare i salari alla produttività” anche al ribasso, come certa propaganda di marchio liberista ama ripetere, si commette un errore colossale, con conseguenze per il nostro paese fortemente depressive sulla stessa capacità di sviluppo.
La tendenza decrescente della nostra produttività è legata infatti a una profonda inefficienza di sistema, essendo i settori industriali centrati su un profilo a “medio-bassa” intensità tecnologica e su servizi di conseguenza meno innovativi. Il paese non è così competitivo sui mercati esteri, mentre tende ad importare produzioni avanzate per il soddisfacimento della propria domanda interna, accumulando un deficit commerciale che dà luogo a un vincolo estero che frena a sua volta il potenziale di crescita del reddito. Se a tutto questo si somma l’effetto di riduzione sui salari che sarebbe determinato dal fiacco andamento della produttività, si ottiene un ulteriore effetto depressivo sulla domanda interna e quindi sulla crescita (con scarsi effetti sull’allentamento del vincolo estero, peraltro, come dimostrano le tendenze di questi ultimi anni nei quali la domanda interna è stata stagnante). E la spirale che ne deriva non può che essere recessiva, se il criterio rimane quello di legare i salari alla produttività.
Il problema della specializzazione produttiva è quindi centrale. Sostenere che le imprese italiane non investono in ricerca è sbagliato se riferito alle singole imprese, mentre è vero se riferito al “sistema Italia”. Questo perché quelle imprese che sono presenti nei settori avanzati hanno performance di ricerca comparabili con imprese dello stesso tipo all’estero. Ma se si guarda al complesso delle spese in ricerca sostenute dalle imprese italiane, questo appare assai deficitario in ragione dello sbilanciamento della specializzazione produttiva in settori meno avanzati.
Sperare in una ripresa del ciclo internazionale che operi per la crescita del paese come una sorta di “deus ex machina”, è del tutto illusorio. Difatti nei periodi di crescita dell’economia internazionale (si veda ad esempio il ciclo espansivo avutosi tra il 2002 e il 2005) l’Italia ha evidenziato le più ampie divergenze dalla crescita dei maggiori paesi europei, poiché la dinamica della domanda globale accelera nei settori più innovativi.
Non basta quindi aggrapparsi alla speranza di una ripresa della domanda dall’estero, anzi. Occorre invece da subito programmare una massiccia dose di investimenti innovativi, compito che nella situazione attuale del ciclo economico e in considerazione della estrema parcellizzazione del capitale in Italia, deve essere primariamente dello Stato (e dell’Unione Europea).
E’ invece folle continuare a far leva sul costo del lavoro per rendere la nostra produzione più competitiva. E’ folle per i motivi che abbiamo già detto e lo è per le evidenze empiriche che assegnano al nostro paese, contemporaneamente, uno dei maggiori tassi di flessibilità (dati Ocse sull’indice EPL) e tra i minori tassi di crescita, valore aggiunto, ricerca, innovazione.
L’Italia ha iniziato a perdere il treno dell’innovazione sin dalla seconda metà degli anni ’80, quando le condizioni di quel periodo rendevano possibile il successo della piccola impresa distrettuale. Oggi, in un periodo nel quale i processi innovativi hanno preso da tempo la strada della globalizzazione e anche i paesi emergenti stanno creando piattaforme produttive sempre più centrate su settori ad alto contenuto di conoscenza, il ritardo strutturale di sviluppo del paese si è fatto enorme, anche per l’assenza, da troppo tempo, di politiche industriali alle quali altrove in Europa si è fatto invece ampio ricorso.
Ma è anche discutibile che a tutto questo non si possa iniziare a porre riparo.
Occorre quindi arrestare le politiche depressive sui redditi dei lavoratori e di liberalizzazione del mercato del lavoro (che conferiscono anche un’ulteriore spinta al ribasso dei salari) perché direttamente controproducenti rispetto alla domanda e spiazzanti rispetto alle priorità. Al contrario, occorre reperire risorse da investire nel sistema produttivo (e parallelamente formativo) attingendo dalla ricchezza patrimoniale, tassando le rendite, favorendo processi di innovazione nuovi ma anche agendo affinché le competenze tecnologiche già presenti nel paese si applichino progressivamente a settori nuovi con elevati potenziali di crescita. Si può fare, ma perdere altro tempo avrebbe conseguenze disastrose non solo in un indefinito lungo periodo, ma qui e ora.

http://keynesblog.com/2012/04/27/la-pro ... ei-salari/


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 29/04/2012, 12:16

flaviomob ha scritto:Appunto, Franz. Se ne deduce che la tua affermazione era sbagliata. Il recupero dell'evasione fiscale DIMINUISCE deficit e debito.
Anche i migliori sbagliano ;)

Ma non la pressione fiscale, come sostenevo.
Io tra l'altro sosteneveo che l'evasione non aumenta debito e deficit, non che il ricupero dell'evasione possa (se si fanno le giuste scelte) ridurre il debito.
È chiaro che se entrano piu' soldi un governo puo' decidere:
a) di spendere di piu' approfittando del "tesoretto" (e questo non diminuisce il debito ed il deficit).
b) di abbattere il debito (allora si che il debito diminuisce)
c) di abbassare le tasse (le aliquote, ma non la pressione fiscale).
ma la pressione fiscale è intanto aumentata e le spese dello stato sono rimaste le stesse.
Anche i migliori insistono nel non voler capire. ;)
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 29/04/2012, 12:37

Se tutti smettessero immediatamente di pagare tasse e imposte, il deficit schizzerebbe immediatamente a livelli insostenibili, elevandosi. E' evidente anche a un bambino che l'evasione comporta un aumento del deficit di bilancio in Italia.


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