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Una lettura keynesiana della crisi

Forum per le discussioni sulle tematiche economiche e produttive italiane, sul mondo del lavoro sulle problematiche tributarie, fiscali, previdenziali, sulle leggi finanziarie dello Stato.

Mal comune, mezzo gaudio?

Messaggioda franz il 16/06/2013, 7:53

Peccato che a fronte di cotanta spesa non ci siano assolutamente i servizi di qualità che danimarca, svezia, finlandia, francia etc forniscono ai loro contribuenti. Sì la notizia ha fatto un po' il giro dei TG ma in fondo è un giochino presto svelato. Si prendono i paesi con la spesa piu' alta, ci mettiamo a confronto con loro e per magia siamo "inter pares". In effetti l'Europa storica (tralasciando quindi l'ex impero societico) ha una forte spesa pubblica ed una fiscalità elevata ed è anche per questo che è l'unica parte del mondo che non cresce ed anzi decresce (non felicemente). Il mondo occidentale avanzato tuttavia non è costituito piu' solo dall'ombelico europeo. Ci sono centinaia di nazioni in asia, nelle americhe, anche in africa, ci sono i BRICS e naturalmente gli USA. Tutti crescono (anche gli stati uniti sono tornati a crescere ) e solo 'europa è al palo. Perché la spesa è abnorme? Forse. Siamo comunque in buona compagnia: falliremo insieme?

mal comune, mezzo gaudio?

Immagine

Una cosa pero' va chiarita. Noi ora siamo al livello degli altri per due motivi: 1) la nostra spesa è peggiorata; 2) le altre nazioni che avevano una spesa elevata (es svezia) hanno fortemente diminuito le spese, anche di un 10%. Tra un po' se va a vanti cosi' saremo i primi. Inoltre non ha senso togliere alcune spese (come quella per interessi) solo per vedere se si è piu' virtuosi. Ricordo un Fassina in TV dire che se si toglieva la spesa per le pensioni e quella sanitaria, la nostra spesa era "normale". Sì, certo, togliamo tutto (naturalmente faendo finta) cosi' arriviamo a zero e siamo i primi della classe.

Comparando la spesa pubblica media mondiale, dei paesi avanzati (OECD) vediamo come stanno veramente le cose: http://www.fsk.it/eventi/documentievent ... 6-15ag.pdf
In quel documento poi vediamo che 1/3 della spesa pubblica italiana è per "amministrazione generale" ed 1/4 è la spesa per interessi. Bassa la spesa sociale e l'intervento in economia ma proprio perché amministrazione ed interessi, secondo quei dati, si portano via il 60% della spesa.
Sarebbe interessante vedere quanto USA e Giappone (quest'ultimo tanto osannato dai keynesiani) spendono e come spendono.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 17/06/2013, 14:22

Ue salva solo se Berlino lascia l’euro, l’idea del Nobel Stiglitz fa proseliti

Se la Germania torna al marco, i paesi del Sud ne avrebbero grandi benefici, a partire dall’Italia. Presentato il 15 giugno un manifesto che propone la segmentazione controllata dell'Eurozona a partire dall’uscita dei paesi più competitivi, come strategia per evitare il collasso economico e politico dell’Ue

di Alberto Bagnai | 17 giugno 2013

Il 15 giugno è stato presentato a Parigi il Manifesto di Solidarietà Europea, una proposta di segmentazione controllata dell’Eurozona a partire dall’uscita dei paesi più competitivi, come strategia per evitare il collasso economico e politico dell’Ue. La proposta non è originale: già nell’ottobre 2010 il premio Nobel Joseph Stiglitz aveva dichiarato al Sunday Telegraph che se la Germania non avesse abbandonato l’euro, si rischiava che i governi dell’Eurozona scegliessero la strada dell’austerità, trascinando il continente in una nuova recessione. Così è stato.

L’idea di Stiglitz è stata approfondita e fatta propria da un gruppo di economisti europei con percorsi accademici e politici disparati: dai conservatori Hans-Olaf Henkel (ex-presidente della Confindustria tedesca) e Stefan Kawalec (già sostenitore di Solidarnosc ed ex-viceministro delle Finanze in Polonia), ai progressisti Jacques Sapir (economista legato al Front de Gauche francese) e Juan Francisco Martin Seco (membro del comitato scientifico di Attac in Spagna). Anche in Italia l’adesione è stata trasversale: da Claudio Borghi Aquilini (editorialista del Giornale, già manager di Deutsche Bank Italia), al sottoscritto.

La scelta della Germania
Si realizza così quanto scrivevo il 29 novembre 2011 nel mio blog, sostenendo che “l’unica soluzione razionale per la Germania è propugnare un’uscita selettiva o generalizzata”. Il partito euroscettico tedesco (Alternative für Deutschland) era ancora di là da venire, ma che si sarebbe andati a parare lì era chiaro per due motivi. Il primo è che la crisi europea trae origine dalle rigidità proprie alla moneta unica. L’euro ha falsato il mercato (portando all’accumulo di ingenti crediti/debiti esteri), e ingessato le economie (impedendo alle più deboli di reagire con una fisiologica svalutazione allo choc determinato dalla crisi americana). Il ripristino di un rapporto di cambio meno artificiale fra Nord e Sud è quindi uno snodo necessario,anche se certo non sufficiente, nel percorso di soluzione della crisi.

Il fascino del marco
Il secondo motivo, politico, è che l’equilibrio dell’Eurozona si regge su due menzogne: quella dei politici del Sud (“l’euro vi proteggerà”), e quella dei politici del Nord (“la crisi è colpa dei Pigs”). Che l’euro non ci abbia protetto è chiaro. Lo è anche il fatto che dell’origine e dell’aggravarsi della crisi è corresponsabile l’attuale leadership tedesca. Ma mentre i nostri politici non possono ora venirci a dire che l’euro è stato un errore, ai politici del Nord è più facile scaricare sui paesi del Sud la colpa e propugnare come soluzione l’abbandono dell’euro. Lo sganciamento dall’Eurozona, vissuto al Sud come una sconfitta, al Nord sarebbe visto come il riappropriarsi di un simbolo vincente di identità nazionale (il marco).

L’obiezione secondo la quale avendo la Germania beneficiato dall’euro, non vorrà abbandonarlo, è inconsistente. Certo, l’euro, impedendo alla Germania di rivalutare, le ha attribuito un’indebita competitività di prezzo: lo ricorda perfino il Fondo monetario internazionale (Fmi). Ma in economia non ci sono pasti gratis: nel momento stesso in cui l’euro rendeva convenienti per il Sud i beni del Nord, esso poneva le basi per il crollo finanziario del Sud, che ora è in caduta libera e non può più sostenere con la propria domanda l’economia tedesca. La conseguenza è una forte sofferenza di quest’ultima, le cui prospettive di crescita per il 2013 sono state recentemente dimezzate dal Fmi. La rinuncia al vantaggio in termini di prezzo sarebbe quindi per la Germania una manifestazione di solidarietà (consentirebbe il rilancio delle economie del Sud), ma soprattutto di razionalità.

L’uscita sarebbe anche meno costosa dell’unione fiscale: il “costo del federalismo” – ovvero l’ammontare dei trasferimenti da Nord a Sud necessari per ripristinare una situazione equilibrata senza ricorrere alla leva del cambio – è stato stimato da Jacques Sapir in quasi il 10 per cento del Pil per un paese come la Germania. Trasferimenti di questa entità sono politicamente improponibili. Se una segmentazione dell’euro è necessaria, è più razionale realizzarla lasciando che nella transizione le economie più deboli godano della relativa stabilità della moneta unica: fra euforia da “nuovo marco” e panico da “li-retta” è piuttosto evidente cosa convenga scegliere. Non si tratta però di una proposta di euro a due velocità. Il Manifesto considera la possibilità di ulteriori segmentazioni, fino a un eventuale ritorno alle valute nazionali. Un percorso non facile, ma necessario, e comunque più gestibile se realizzato in modo ordinato, con il progressivo distacco dei paesi più competitivi.

*Alberto Bagnai è professore di Economia politica all’Università di Pescara, blogger per ilfattoquotidiano.it e su goofynomics.blogspot.com


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Quattro novità che ci sfidano (bentornato Oscar)

Messaggioda franz il 28/06/2013, 8:36

L’istituto Bruno Leoni ha dato una nuova veste al suo blog, e riprendo da oggi a scrivervi dopo un semestre, la pausa obbligata imposta dalla campagna elettorale e da quel che me n’è colpevolmente venuto.

Solo quattro semplici e nette considerazioni, non ispirate all’heri dicebamus perché il mondo e l’Italia cambiano intorno a noi, e perché ovviamente anch’io non sono lo stesso di prima.

La prima è di contesto globale. In questo semestre si sono sprecati i brindisi di trionfo politici e mediatici per l’ulteriore spinta venuta dalle politiche monetarie iperlasche, in sintesi per l’aggiunta della Abenomics giapponese al QE3 della FED. È sembrato a molti l’uovo di colombo, abbinare da parte di Tokyo un’ulteriore vigorosa spesa pubblica in deficit a un raddoppio della base monetaria in 18 mesi, con acquisti mensili sui mercati tali da raddoppiare gli 85 miliardi della FED, e con l’obiettivo di alzare inflazione e consumi, svalutando lo yen e aiutando l’export del Sole nascente. È stata una mossa che ha disallineato molte teste, nel mondo. Una delle ricostruzioni più pungenti del contrasto tra monetaristi e fiscalisti – o se volete “tutto il potere all’inflazione” contro “resta più saggio ridurre deficit, debito pubblico ed eccessi di tasse” – la trovate qui.

C’è chi ha allineato Milton Friedman a Keynes, come padri congiunti del sostegno agli elicotteri dell’easy money. Ma per fortuna c’è una differenza, tra il massiccio consumo di alcol che induce dipendenza e solo nel lungo termine fa scoppiare il fegato in cirrosi, e le sbornie che passano presto. La Abenomics dovrebbe iscriversi nella seconda categoria. Nell’ultimo mese ha già mostrato la sua devastante portata. In Giappone, consumi a breve e crescita sembrano riprendersi. Ma aver aggiunto il Pacifico all’Atlantico, in termini di oceanica liquidità, ha, nell’ordine: innalzato pericolosamente i rendimenti decennali del debito pubblico giapponese, che è mostruoso (240%del Pil); prodotto enorme volatilità, a cominciare dalla Borsa di Tokyo dove il Nikkei ha perso 20 dei 70 punti guadagnati in poco più di 6 mesi; esteso e potenziato il carry trade mondiale, visto che denaro a costo negativo può essere reimpiegato istantaneamente in titoli high yields sovrani come no. Poi, è bastato che dalle minute della Fed uscissero accenni alla necessità di fare un po’ di tapering, iniziare a moderare il Q3 se la crescita Usa si assestasse intorno al 2% visto che il balance sheet dell’istituto centrale è cresciuto nell’ordine dei trilioni di dollari, perché in pochi giorni si scatenasse il panico. Cioé nell’ordine: stop alla svalutazione rapida dello yen, per l’effetto inverso di indebolimento del dollaro; fuga dagli high yields a livello mondiale; riabbandono dai titoli sovrani di Paesi più a rischio, tra cui ovviamente anche quelli dei paesi eurodeboli.

È una salutare correzione da eccessi di offerta monetaria, e dovrebbe indurre a riporre lo champagne che con troppa frenesia tanti politici avevano stappato, immaginando che stampare moneta sia sostitutivo e gratis rispetto ai tagli di spesa per meno tasse e meno debito pubblico, e alla promozione di una più elevata produttività. La metto già piatta e tagliente: tanto più si vive e opera in un Paese ad alto debito pubblico da troppe tasse e bassa crescita da poco credito e bassa competitività, tanto meglio è se le illusioni dell’easy money svaniscono presto, o appaiono quanto meno agli occhi di tutti insieme alla portata devastante delle loro arcinote conseguenze negative.

La seconda considerazione riguarda l’Europa. In questi mesi si è diffuso un comune sentire in tutti i Paesi eurodeboli e soprattutto in Italia e Francia, la quale ha finalmente scoperto il bluff dei suoi deboli fondamentali economici. Il comune sentire è quello di una “svolta”, ma naturalmente quella più facile, almeno a parole. Spacciando in chiave europea le conseguenze anti austerità della polemica scatenata da Krugman contro Rheinardt-Rogoff, saltando in groppa a ogni ammissione del Fmi di aver sottostimato gli effetti di decrescita della Grecia, l’idea che si radica tra gli eurodeboli è che di riffa o di raffa si debba tornare a spendere con deficit pubblici più elevati, e che o i tedeschi lo capiscono, oppure fa lo stesso. Ora, l’euro è pieno di difetti, alla moneta unica non hanno fatto seguito – dovevano essere precedenti – l’unificazione dei mercati dei beni e dei servizi, necessaria ancor più di una politica davvero comune, fiscale e di bilancio. Ma l’aria che tira sulla “svolta” europea non ha a che vedere coi difetti dell’euro, da sanare se sanabili o da porre alle spalle rinunciandovi in una maniera non traumatica, o meglio la meno traumatica possibile cioè concordata. La svolta che molti invocano vuole semplicemente apprestare una nuova, illusoria, via di fuga. Basata sugli stessi errori che a un Paese come l’Italia sono già costati carissimi: le svalutazioni competitive monetarie, il miraggio che l’inflazione non sia una tassa sui più poveri, e che l’ammontare del debito pubblico in continua crescita non sia un problema ma solo un modo per arricchire gli intermediari e i mercati. Non confido che i tedeschi dicano testardamente no. Mi auguro semplicemente che in Italia sia possibile un dibattito in cui imprenditori come intellettuali restino con la testa sulle spalle, invece di inseguire su questa via Grillo e Berlusconi.

La terza e la quarta riguardano l’Italia. E sono brevissime. È cambiata anch’essa, in sei mesi. Eccome se è cambiata. C’è il governo Letta, dopo Monti e il disastro post elettorale di Bersani. Ed è cambiata nella crisi, che peggiora con l’aumento contestuale del debito pubblico, del fabbisogno e delle entrate pubbliche. Per chi la pensa come noi, non c’è alternativa a una quotidiana fatica improba, continuando a chiedere tagli di spesa pubblica per meno imposte su lavoro e impresa, interventi a favore della produttività e della concorrenza, misure nel credito per liberare capitale bancario oggi assorbito da titoli pubblici e sofferenze in verticale aumento. È cambiata l’Italia anche per chi si è illuso – parlo di me e per me – di una possibilità più ampia di dare un matto ai liberali in politica. È stato un errore. La storia non ammette accelerazioni improvvise, se non populiste. E di quelle non ne mancano davvero, in Italia. Bisogna molto lavorare di cultura e consapevolezza, intorno ai temi che sono nostri cioè del Bruno Leoni, perché un domani non centinaia di migliaia, ma qualche milione di italiani le abbracci se troverà chi vorrà dar loro gambe pubbliche diverse da quelli delle iniziative culturali. Mi limito a un esempio. Vi leggo tra le 80 misure del “decreto del fare”, ciò che nel comunicato stampa passava come semplificazione e come no al pignoramento dei beni d’impresa per ragioni di debito fiscale, venendo incontro alle difficoltà delle aziende. Si prevede che “i beni di cui all’articolo 515, comma 3, del codice di procedura civile, anche se il debitore è costituito in forma societaria ed in ogni caso se nelle attività del debitore risulta una prevalenza del capitale investito sul lavoro, possono essere pignorati nei limiti di un quinto, quando il presumibile valore di realizzo degli altri beni rinvenuti dall’ufficiale esattoriale o indicati dal debitore non appare sufficiente per la soddisfazione del credito”. Ecco, in quel “presumibile” c’è tutta la discrezionalità pubblica contro cui dobbiamo combattere. E fa irrimediabilmente capolino persino laddove si annuncia il contrario, tanto è forte la presa, nel nostro Paese, dello Stato e delle sue deformazioni

http://www.leoniblog.it/2013/06/18/quat ... i-sfidano/
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda trilogy il 17/07/2013, 14:56

welfare all'italiana... :(

[..] nel Meridione il ricorso alla Cassa integrazione guadagni (CIG) è stato inferiore a quello del resto dell’Italia, ma non perché gli andamenti congiunturali siano stati più favorevoli in quest’area, quanto perché nel Mezzogiorno c’è un minore accesso a tale strumento.
In base alle informazioni dell’Istat la quota di lavoratori dipendenti che in caso di sospensione dall’attività lavorativa o licenziamento non beneficerebbe di ammortizzatori sociali è circa il 15 per cento nelle regioni meridionali, a fronte di poco più del 10 al Centro Nord (Bronzini e Cannari, 2013).
Sebbene le regole non siano diverse tra le aree, il divario dipende dalla struttura produttiva del Mezzogiorno,
più orientata verso le piccole imprese, in cui la percentuale di lavoratori non coperti da trattamento
in caso di sospensione dal lavoro o di licenziamento è più elevata.[..] pag.11

fonte: http://www.bancaditalia.it/pubblicazion ... EF_194.pdf
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 04/09/2013, 1:26

Euro: rimanere, uscire o evolvere?
...
http://temi.repubblica.it/micromega-onl ... ercorrere/

Tra perseverare nell’euro e uscirne, c’è una terza strada da percorrere


Se molti autori insistono sulla improbabilità di modificare le politiche economiche imposte all'intera Europa dalla Germania, con altrettanta ragione si dovrebbe dubitare della possibilità, almeno in Italia e nei tempi brevi, di un’uscita ‘da sinistra’ dall’euro, ovvero in modo tale che il saldo per le classi popolari non sia negativo. Ecco perché tra rimanere nell'euro o uscirne all'improvviso è necessario progettare per una “terza via”.

di Alfonso Gianni *


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 12/09/2013, 10:45

http://keynesblog.com/2013/09/11/elogio-della-rigidita/

...la riduzione dei salari riduce anche la domanda aggregata e quindi ha un effetto depressivo sull’occupazione....

...
La flessibilità dei salari
Supponiamo che le imprese conquistino un potere maggiore sul mercato del lavoro e impongano salari monetari minori, ma contemporaneamente riescano a mantenere i prezzi stabili o crescenti. Questo produrrà una caduta del salario reale, cioè del potere d’acquisto dei lavoratori. Poiché questo farebbe cadere la domanda aggregata, il sistema economico è costretto a trovare una “soluzione” per evitare una crisi da scarsità di domanda. Il credito alle famiglie dei lavoratori – e persino ai disoccupati, si pensi ai cosiddetti mutui “Ninja” (No income, No Job, No Assets) – si è dimostrato un modo efficace di compensare i bassi redditi da lavoro. Questo però accresce rapidamente il debito privato. Ad un certo punto, la massa di debiti è tale per cui essi non possono venire ripagati, portando ad un default privato. Le famiglie riducono i consumi nel tentativo di disindebitarsi, vendono gli asset acquisiti (ad esempio le abitazioni) che così si svalutano, le sofferenze bancarie aumentano e ciò causa il fallimento di alcune banche e il razionamento del credito. In breve, accade quello che gli Stati Uniti hanno vissuto nel 2007.

La flessibilità dei prezzi
Uno scenario persino peggiore più realizzarsi in caso di flessibilità dei prezzi. Se insieme ai salari scendono anche i prezzi, sebbene il salario reale possa mantenersi più o meno costante, si innescano altre conseguenze deflagranti per l’economia. Da un lato il grosso dei costi delle imprese (i salari reali) rimangono fermi o si riducono in misura insufficiente. Dall’altro, le imprese, prevedendo prezzi futuri più bassi a parità di costi, perdono incentivo ad investire e assumere.
La riduzione dei prezzi, ovvero la deflazione, aumenta inoltre l’onere reale del debito per molti debitori, poiché l’interesse reale sale. Questo porta all’impossibilità per alcuni di essi di ripagare i debiti contratti o almeno alla riduzione dei propri consumi. Paradossalmente, al contrario di quello che i modelli standard di domanda e offerta prevedono, in una economia eccessivamente indebitata la riduzione dei prezzi può portare ad una contrazione della domanda, invece che al suo aumento.
...


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda trilogy il 12/09/2013, 12:30

flaviomob ha scritto:http://keynesblog.com/2013/09/11/elogio-della-rigidita/
...la riduzione dei salari riduce anche la domanda aggregata e quindi ha un effetto depressivo sull’occupazione...


è un effetto possibile, ma il problema più grosso in una economia reale moderna è che l'eventuale fluttuazione dei salari non è uniforme nei vari settori dell'economia, ma varia da settore a settore. Questo può creare problemi di equità e competitività paese. In Italia l'effetto è particolarmente rilevante con settori privati esposti alla concorrenza, dove i salari reali sono scesi molto più di quello che dicono le statistiche ufficiali, e settori protetti della pubblica amministrazione e dei servizi dove è cambiato poco o nulla. Di conseguenza hai uno spostamento di reddito e ricchezza dai settori più produttivi a quelli meno.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 12/09/2013, 13:40

flaviomob ha scritto:La flessibilità dei salari
Supponiamo che le imprese conquistino un potere maggiore sul mercato del lavoro e impongano salari monetari minori, ma contemporaneamente riescano a mantenere i prezzi stabili o crescenti. Questo produrrà una caduta del salario reale, cioè del potere d’acquisto dei lavoratori.
....
La flessibilità dei prezzi
Uno scenario persino peggiore più realizzarsi in caso di flessibilità dei prezzi. Se insieme ai salari scendono anche i prezzi, sebbene il salario reale possa mantenersi più o meno costante, si innescano altre conseguenze deflagranti per l’economia. Da un lato il grosso dei costi delle imprese (i salari reali) rimangono fermi o si riducono in misura insufficiente. Dall’altro, le imprese, prevedendo prezzi futuri più bassi a parità di costi, perdono incentivo ad investire e assumere.

Secondo me chi scrive queste cose non ha mai avuto alcuna esperienza produttiva. Il che dimostra la sostanziale differenza tra imprenditori ed economisti. Dai un'azienda (anche un 'edicola) in mano ad un economista, soprattutto se macro, e fallirà in sei mesi.
È una battuta famosa del rettore di una facoltà estera di economia. ;)

La prima supposizione (doppia) presuppone la mentalità del grande monopolista (pubblico o privato).
Se c'è concorrenza essa funziona anche sul lato dei prezzi. La prima azianda che potendo avere costi piu' bassi (per la forza lavoro e/o per le materie prime e semilavorati) abbassa anche i prezzi, avrà un vantaggio sui concorrenti. Quindi il caso non si presenta nemmeno, se c'è concorrenza. Se c'è monopolio sì ma i guasti sono ben altri.

Il secondo scenario, pur ammettendo la sostanziale parità di potere d'acquisto, è vittima del solito pensiero superfisso, che non contempla che innovazione ed investimenti, da chiunque fatti, introducano nel mercato nuovi prodotti e servizi e che l'economia non è un gioco a somma zero. Qualcuno farà meno investimenti, altri di piu' se il loro settore è in espansione. La previsione (o aspettativa) di guadagno ovviamente non uguale per ogni azienda ma chi sa offire ogni giorno il miglior rapporto qualità prezzo (possibile solo in caso di flessibilità) potrà avere piu' income e fare ulteriori invenstimenti. Gli altri (fallimentari) è bene che lascino ogni incentivo.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 12/09/2013, 19:45

Il che dimostra la sostanziale differenza tra imprenditori ed economisti. Dai un'azienda (anche un 'edicola) in mano ad un economista, soprattutto se macro, e fallirà in sei mesi.


Dai un paese in mano ad un imprenditore... e fallirà in vent'anni...


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 13/09/2013, 7:24

flaviomob ha scritto:
Il che dimostra la sostanziale differenza tra imprenditori ed economisti. Dai un'azienda (anche un 'edicola) in mano ad un economista, soprattutto se macro, e fallirà in sei mesi.


Dai un paese in mano ad un imprenditore... e fallirà in vent'anni...

Questo è vero. Ognuno deve fare il suo mestiere.
Purtroppo quelli che in Italia si dedicano o si sono dedicati alla politica sono decisamente scadenti, salvo rare e meritevoli eccezioni. Ma è perché gli elettori, abbindolati o non che siano, lo hanno permesso.
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