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Una lettura keynesiana della crisi

Forum per le discussioni sulle tematiche economiche e produttive italiane, sul mondo del lavoro sulle problematiche tributarie, fiscali, previdenziali, sulle leggi finanziarie dello Stato.

Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 17/12/2012, 17:34

Perché l’Europa è in crisi e gli Stati Uniti sono in ripresa?
Posted by keynesblog on 17 dicembre 2012 in Economia, Europa, Global, Italia


Paolo Mesasse, in un articolo per Economonitor (qui il Italiano su Linkiesta) analizza alcuni grafici molto interessanti sulle differenze tra Stati Uniti ed Europa. Li presentiamo e commentiamo in modo un po’ diverso rispetto a quello dell’autore dell’articolo.


In primo luogo guardiamo la differenza tra i tassi di crescita di USA e Eurozona (in questo e tutti i grafici seguenti si utilizzano numeri indice, ponendo a 100 i valori del 2006, così da valutare meglio il differente andamento tra Stati Uniti ed Eurozona):



Come si nota mentre gli USA tornano a crescere costantemente, superando in modo relativamente veloce il PIL del periodo pre-crisi, l’Eurozona si blocca e rimane stagnante a metà strada.

Indicativo anche il grafico della disoccupazione:



Nel 2009 la crescita della disoccupazione negli Usa rallenta e l’anno successivo addirittura si inverte. Il recupero è lento ma evidente (gli ultimi dati dicono che è sotto l’8%). Nell’Eurozona accade il contrario: in corrispondenza delle politiche di austerità la disoccupazione torna a risalire prepotentemente.

Ma quali sono le cause che possono spiegare un comportamento tanto differente? Un keynesiano guarderebbe immediatamente alla politica fiscale.



I deficit pubblici degli USA sono più che doppi rispetto a quelli dell’Eurozona. Sebbene Obama abbia tentato una riduzione troppo rapida, come dice Krugman, essi rimangono notevoli anche dopo il “rientro” del presidente democratico. Conta tuttavia come i deficit si sono formati: quelli negli USA sono stati guidati da maggiori spese, incentivi e il mantenimento di ingenti sconti fiscali. Nei paesi periferici dell’Europa, invece, i deficit sono serviti a mettere in sicurezza il sistema bancario, mentre l’austerità ha depresso la domanda facendo schizzare su il rapporto deficit/PIL e di conseguenza debito/PIL. Non conta quindi solo il livello del deficit, ma come esso viene utilizzato.

E’ anche utile sottolineare che nel caso degli USA si tratta di deficit federali, mentre in Europa si tratta di deficit pubblici dei singoli stati. Negli USA i soldi arrivano dove la crisi si fa sentire di più, mentre in Europa, paradossalmente, avviene in alcuni casi il contrario.

E difatti la mancanza di riequilibratori automatici federali porta ad accumulare ed esacerbare, almeno nel breve periodo, le divergenze. Basta guardare la differenza tra gli andamenti della crescita di Italia e Germania:



e la divergenza tra i vari stati che compongono l’Eurozona confrontata alla divergenza tra quelli che compongono gli USA:



Infine, gli ultimi grafici mostrano come gli USA abbiano visto crescere molto di più il loro debito pubblico:



e la enorme differenza tra la politica monetaria espansiva della Fed e della Banca d’Inghilterra rispetto a quella della BCE, che appare estremamente avara al confronto con le sua sorelle statunitense e britannica (il grafico mostra gli acquisti di titoli da parte delle diverse banche centrali in rapporto al PIL):



La politica monetaria, lo sappiamo, non risolve da sola le crisi (e infatti la Gran Bretagna è tornata in recessione) ma certo i Quantitative Easing così ampi della Fed hanno alleggerito il settore finanziario senza incidere sulle tasche dei cittadini e i profitti delle imprese (come sottolinea spesso il suo presidente Bernanke), a differenza dell’Europa che prima ha usato i bilanci pubblici per “salvare” il settore finanziario, poi ha creato il fondo “salvastati”, con la singolare caratteristica che i paesi “da salvare” contribuiscono anch’essi al fondo, indebitandosi ulteriormente, a tassi elevatissimi. Negli Stati Uniti invece la Federal Reserve ormai acquista il 90% dei titoli emessi da Tesoro, favorendo bassi tassi di interesse.

Un’ultima nota, ma sostanziale: purtroppo l’analisi di Menasse risente pesantemente della teoria delle Aree Valutarie Ottimali che non ci sentiamo di sostenere. Si tratta infatti di una teoria che suggerisce una serie di politiche a favore del libero movimento dei capitali e dei lavoratori all’interno dell’area valutaria, quale fattore stabilizzante, insieme alla deregolamentazione dei commerci e, almeno in alcune versioni, alla flessibilità salariale. L’esperienza europea sembra invece dire che la mobilità dei capitali abbia giocato un ruolo destabilizzatore, prima con l’afflusso di capitali dal centro alla periferia, ad alimentare le bolle immobiliari, e poi con l’improvviso “ritorno a casa” degli stessi una volta scoppiate tali bolle. Riguardo la flessibilità salariale e la deregolamentazione dei commerci, paradossalmente esse hanno funzionato al contrario rispetto a quanto ci si potrebbe ingenuamente attendere: proprio la mancanza di un coordinamento delle politiche retributive è ciò che ha permesso alla Germania di attuare al deflazione salariale, rendere più competitive le proprie merci (mentre l’euro impediva il recupero tramite svalutazione), e contribuire così a causare quegli squilibri delle partite correnti che sono all’origine della crisi stessa.

Al contrario, ci pare di poter affermare da questi dati che ciò che davvero fa degli Stati Uniti un esempio da seguire se si vuole salvare l’Euro, è la presenza di un “grande stato” (big government) federale e di una “grande banca centrale” (big bank). Cioè quello che suggeriva Hyman Minsky per “stabilizzare un’economia instabile”. Solo se c’è questo, insieme a regole fiscali e retributive comuni che impediscano la concorrenza tra diversi stati, allora ha senso parlare di “più Europa”, libertà di commerci e mobilità dei fattori produttivi. In mancanza di regole riequilibratrici, big government e big bank, tutto ciò contribuisce all’instabilità dell’area valutaria, piuttosto che alla sua sopravvivenza. Ma la Germania e i suoi paesi satellite continuano per ora a non volerne sentire parlare.

Grafici e articolo su:

http://keynesblog.com/2012/12/17/perche ... n-ripresa/


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 18/12/2012, 9:08

L'articolo originale su l'Inkiesta sullo studio di Menasse mi sembra piu' interessante e da leggere comunque prima delle infiorettature che ci hanno costruito sopra i keynesiani (che non condividono pero' alcune impostazioni di Menasse).

http://www.linkiesta.it/crisi-europa-usa

Sembra che entrambi dimentichino comunque di fare riferimento, oltre a tanti dati messi in grafico, alle differenze di produttività che ci sono tra USA e EU e poi quelle all'interno dell'area Euro (per esempio tra ITA e GER).
Inoltre gli usa non hanno al loro interno un solo grande stato che fa da locomotiva ed altri 49 al traino.
Nell'area Euro a parte Germania e Olanda (e solo in parte la Francia, che esporta molto poco) le economie importano piu' di quanto esportano e sono al traino. In Usa tutta la parte est del paese galoppa e sul pacifico c'è la california che da sola è una potenza mondiale. Questa solidità interna americana rende piu' facile le ripartenze (si ricorda infatti che la politica monetaria da sola non risolve le crisi) ed ovviamente andrebbe considerato l'altro aspetto "dimenticato", quello della pressione fiscale: http://www.google.com/publicdata/explor ... &ind=false per non parlare del notevole livello europeo di burocrazia che ostacola soprattutto le piccole aziende, rispetto agli USA. Insomma se gli usa sono riparti e l'europa annaspa non è solo per le cose citate negli articoli ma anche per tante altre cose.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda trilogy il 18/12/2012, 9:35

flaviomob ha scritto:
L’esperienza europea sembra invece dire che la mobilità dei capitali abbia giocato un ruolo destabilizzatore, prima con l’afflusso di capitali dal centro alla periferia, ad alimentare le bolle immobiliari, e poi con l’improvviso “ritorno a casa” degli stessi una volta scoppiate tali bolle. Riguardo la flessibilità salariale e la deregolamentazione dei commerci, paradossalmente esse hanno funzionato al contrario rispetto a quanto ci si potrebbe ingenuamente attendere: proprio la mancanza di un coordinamento delle politiche retributive è ciò che ha permesso alla Germania di attuare al deflazione salariale, rendere più competitive le proprie merci (mentre l’euro impediva il recupero tramite svalutazione), e contribuire così a causare quegli squilibri delle partite correnti che sono all’origine della crisi stessa.


eh si.... :?

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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 18/12/2012, 10:00

Impressionante!


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 18/12/2012, 19:37

proprio la mancanza di un coordinamento delle politiche retributive è ciò che ha permesso alla Germania di attuare al deflazione salariale, rendere più competitive le proprie merci (mentre l’euro impediva il recupero tramite svalutazione), e contribuire così a causare quegli squilibri delle partite correnti che sono all’origine della crisi stessa.[/b]

Non sono d'accordo sul fatto che debbano esistere politiche che impediscono ad un membro (la germania) di attuare, badate bene, in pieno accordo con i sindacati tedeschi, politiche di contenimento dei salari e di ristrutturazione del welfare. Di tornare in sintesi ad essere produttivi e concorrenziali. Basta con questi piagnistei. La colpa non è di chi torna ad essere locomotiva ma da chi riesce solo a essere a traino.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 19/12/2012, 0:37

http://keynesblog.com/2012/12/18/smonti ... eynesismo/

Smontiamo i luoghi comuni (1): la finanziarizzazione dell’economia rende obsoleto il keynesismo?

...
Il keynesismo non è più attuale a causa della finanziarizzazione dell’economia?

Si può affermare che il capitalismo e la finanza siano sempre stati legati in modo indissolubile. Convenzionalmente, infatti, la data di nascita del capitalismo viene fatta risalire alla fondazione della Borsa di Anversa (1531). Già nel 1600 sono documentate, nelle prime borse europee, le contrattazioni di titoli e strumenti finanziari, oltre a quelle delle materie prime. Vale la pena ricordare che il termine “bolla”, oggi così spesso ricorrente nel dibattito pubblico, risale al 1720, quando il parlamento inglese affrontò il problema della speculazione riguardante la South Sea Company, vietando la libera costituzione di società per azioni, con una legge chiamata “Bubble Act”.

tulip-graphLa prima “bolla” documentata risale però al 1635-36 e riguardò i tulipani olandesi, il cui prezzo in borsa si impennò per poi crollare improvvisamente una volta diffusasi la convinzione che non potesse ulteriormente salire.

Un altro esempio di economia “finanziarizzata” si può trovare nella Gilded Age americana. Ben due significative crisi finanziarie (chiamate “panico del 1873” e “panico del 1893”) colpirono gli USA che uscivano dalla guerra civile e il resto del mondo, con elementi comuni alla crisi odierna: speculazione, bolle, mancanza o non rispetto delle regole.

Anche i “contratti derivati” hanno una lunga storia alle spalle: in Occidente si diffondo nel XIX secolo, a partire dai “futures” trattati alla Borsa mercantile di Chicago.

Sull’onda di queste innovazioni, nel 1910 Rudolf Hilferding scrive la sua maggiore opera, intitolata “Il capitale finanziario”. La “finanziarizzazione”, insomma, non è un fenomeno nuovo.

keynes performanceArrivando a Keynes è bene sottolineare il contesto storico e personale della sua opera. Non solo Keynes fu un investitore in Borsa (secondo alcuni anticipando quello che oggi è chiamato metodo Buffet), ma la crisi che lo spinse a cambiare radicalmente le sue idee in campo economico, rifiutando la dottrina neoclassica, iniziò proprio con il crollo di Wall Street del 1929. I richiami ai pericoli dell’economia finanziarizzata sono costanti nella sua opera. Keynes disprezzava la mentalità della borsa, sostenendo che era impermeabile alle esigenze sociali; disprezzava al tempo stesso il suo funzionamento, paragonandola ad un casinò. Tutto si può dire tranne che Keynes non fosse avvertito del ruolo preminente della finanza nell’economia. Scrive infatti nella Teoria generale (cap. 12):

“Gli speculatori possono essere innocui se sono delle bolle sopra un flusso regolare di intraprese economiche; ma la situazione è seria se le imprese diventano una bolla sospesa sopra un vortice di speculazioni. Quando l’accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un Casinò, è probabile che le cose vadano male. Se alla Borsa si guarda come a una istituzione la cui funzione sociale appropriata è orientare i nuovi investimenti verso i canali più profittevoli in termini di rendimenti futuri, il successo conquistato da Wall Street non può proprio essere vantato tra gli straordinari trionfi di un capitalismo del laissez faire. Il che non dovrebbe meravigliare, se ho ragione quando sostengo che i migliori cervelli di Wall Street sono in verità orientati a tutt’altri obiettivi.”
...


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 19/12/2012, 8:47

Keynes perse un mucchio di soldi in borsa, inizialmente. Ed in quel periodo disprezzava parecchio. ;) Poi invece le cose cambiarono e guadagnò discrete fortune. E cambio' anche opinione. 8-) Come d'alttonde cambiò ripetutamente opinione su tante cose, il libero mercato, la borsa, le sue stesse politiche di deficit spdending e sostegno durante le crisi. Anche per questo è poco corretto citarlo astaendo dal contesto, perché si potrebbe trovare una citazione (precedete o successiva) in cui sostiene una tesi diversa, ed in qualche caso anche opposta.

Il problema comunque dell'obloslescenza delle teorie keynesiane per me si lega al fatto che quando keynes predicava le sue teorie (e venivano applicate) il debiti pubblici si aggiravano attorno al 20% del PIL e c'era un regime valutario legato all'oro che impediva certe storture. Non solo ma il mondo occidentale era allora (anni '30) solo bipolare (europa, usa) mentre oggi abbiamo l'asia ed i BRICS. E scelte sbagliate nella vecchia europa spostano enormi risorse verso i paesi emergenti.
Oggi in europa http://www.google.com/publicdata/explor ... &ind=false solo la svezia potrebbe impostare politiche keynesiane ma siccome ora è guidata da un'impostazione liberale non lo fanno. Paradossalmente è un'impostazione liberale che rende possibile avere un'economia che in caso di crisi potrebbe, volendo, attuare politiche di sostegno di tipokeynesiano. Le altre impostazioni (socialdemocratica e conservatrice-popolare) che invece lo vorrebbero, non possono perché hanno già debiti troppo alti.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 19/12/2012, 12:32

In Italia il debito pubblico è molto elevato, ma il risparmio privato e le proprietà sono di gran lunga maggiori. Il paradosso è quindi rischiare il fallimento o comunque pagare interessi insostenibili quando le risorse ci sono (e chi ne detiene la quota percentuale maggiore spesso evade ogni controllo...), per mantenere un sistema stato-appalti-privati spesso corrotto.


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 19/12/2012, 13:42

flaviomob ha scritto:In Italia il debito pubblico è molto elevato, ma il risparmio privato e le proprietà sono di gran lunga maggiori.

Ok, quindi abbiamo due possibilità:
1) lasciare che siano i privati con il loro risparmio a fare investimenti produttivi che servano a rilanciare il paese. Lo faranno volentieri soprattutto se cala la pressione fiscale e la burocrazia statale
2) confiscare parte di questa ricchezza privata con tasse patrimoniali e vedere se lo stato fa investimenti piu' intelligenti oppure se il risparmio privato scappa prima verso altri lidi.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 20/12/2012, 11:11

Economia europea, sono pessime quelle previsioni
19/12/2012


Tre volte su quattro la BCE ha sbagliato le previsioni sull’economia dell’eurozona. Non hanno fatto meglio Bundesbank e Ocse; il governo italiano un anno fa prevedeva per il 2012 una crescita dello 0,6% e oggi siamo a un calo superiore al 2%. Dietro ai numeri, a essere sbagliato è il modo di pensare l’economia

A fine anno è inevitabile fare consuntivi e previsioni. Confrontare quello che ci si aspettava accadesse e quello che in realtà è successo. E scrutare quello che potrà succedere nei prossimi mesi. Quando si tratta di economia, delle valutazioni su come andrà la crescita, si tratta di una cosa molto seria, perché da queste valutazioni dipendono le scelte d’investimento delle imprese, le politiche dei governi, le possibilità di trovare lavoro per le persone. Non a caso ci sono molte centinaia di persone nei paesi avanzati che si occupano di fare previsioni economiche. Un compito tanto più delicato quanto più incerti sono i tempi.

Vediamo allora che cosa avevano previsto – e che cosa è successo davvero – nell’economia italiana ed europea, ancora segnata dalla crisi. Nel 2012 – i dati definitivi non sono ovviamente ancora disponibili – il Pil italiano viene stimato, secondo le ultime valutazioni, in calo del 2,4% dal governo (nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza 2012 – settembre 2012), in calo del 2,3% dall’Istat (prospettive per l’economia italiana, novembre 2012), in calo del 2,3% dalla Commissione europea (autumn forecast), in calo del 2,3% dal Fondo monetario internazionale (World Economic Outlook – ottobre 2012 - Projections).

Vediamo le stime di un anno fa: a fine 2011 le stime erano di una crescita dello 0,6% per il governo (Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza 2011 – settembre 2011), di un aumento dello 0,1 % per la Commissione europea (previsioni di autunno), di un calo dello 0,3% dal Fondo monetario internazionale (World Economic Outlook – settembre 2011 - Projections).

È evidente l’ottimismo strumentale sbandierato da Mario Monti, ma il suo governo non è stato l’unico a sbagliare i conti sulla crescita del paese. In Germania, dove il Pil 2012 dovrebbe avere una crescita inferiore all’1%, la Bundesbank prevedeva a giugno 2011 una crescita dell’1,8%. Lo stesso vale per il 2013, dove ora a Francoforte ci si aspetta una crescita dello 0,5%, mentre un anno fa l’ottimismo portava a prevedere l’1,8%.

Facciamo i conti sugli anni 2009-2011, su cui abbiamo i dati definitivi, e confrontiamoli con le stime che la Bundesbank ha fatto a giugno e dicembre di ogni anno, pubblicate nei suoi comunicati stampa. Nelle 13 stime effettuate tra dicembre 2008 e dicembre 2011 relative ai tre anni, per 10 volte le stime sono state lontane dai risultati più di 0,4 punti percentuali, e soltanto tre volte la stima è stata sostanzialmente azzeccata (0,3 punti percentuali di scarto, o meno); tra queste comprendiamo anche la stima effettuata a dicembre sull’anno quasi concluso: molto difficile sbagliare a quel punto, ma a Francoforte ci sono riusciti (nel 2010). In che direzione si sbaglia? Nel 2009 si sottovalutava la gravità della recessione, dopo si sottovalutava la crescita tedesca (ai danni del resto d’Europa).

Veniamo all’eurozona nel suo insieme, con le previsioni macroeconomiche dello staff della Banca Centrale Europea (Bce), rese note dal presidente nelle periodiche conferenze stampa. A Francoforte fanno previsioni ogni tre mesi (marzo, giugno, settembre, dicembre) e, per stare sul sicuro, offrono una forbice tra stima minima e stima massima. Prendiamola alla lontana – prima dell’era Draghi – consideriamo le previsioni sugli anni 2004-2011 effettuate dal giugno 2004. Su un totale di 61 stime, 46 si sono rivelate non corrette – il dato a consuntivo è al di fuori della forbice tra il massimo e il minimo previsto – e solo 15 giuste: tre volte su quattro le previsioni dello staff di Francoforte sbagliano. Teniamo conto che la forbice delle stime può essere molto ampia, ad esempio due anni fa, a dicembre 2010, le previsioni fatte per il 2012 erano al minimo una crescita dello 0,6% e al massimo una crescita del 2,8%. Anche senza il dato definitivo per il 2012, già sappiamo che erano completamente fuori bersaglio: l’eurozona quest’anno ha una caduta del Pil, ma soltanto a settembre scorso la stima “ottimistica” della Bce è scesa sotto lo zero.

In che direzione sbaglia la Bce? C’è un errore sistematico: in tempi “buoni”, tra 2005 e 2007, prima della crisi del 2008, la forbice prevista restava al di sotto dei dati definitivi: troppo pessimismo. Poi la Bce non vede arrivare la crisi finanziaria del 2008 e la grave recessione del 2009 (il Pil cadde del 4,4% nell’eurozona, un anno prima la Bce prevedeva una forbice tra 0 e -1%). Il pessimismo si trasferisce sul 2010 proprio quando l’Europa (grazie all’aumento di spesa pubblica) registra una “ripresina” e tutte le previsioni – anche quella di dicembre – relative a quell’anno sottostimano la crescita del 2% che si è poi effettivamente verificata. L’immagine si rovescia negli anni della crisi del debito pubblico, il 2011 e il 2012, quando a Francoforte domina l’ottimismo sui buoni risultati che si possono attendere dalle politiche di austerità; ancora un anno fa la forbice prevista dalla Bce per il 2012 era tra lo -0,4% e l’1%; la caduta del Pil dell’eurozona sarà probabilmente peggiore. E per l’anno prossimo? La Bce oggi offre per il 2013 una forbice tra -0,9% e 0,3%, un moderato pessimismo, che potrebbe rivelarsi un nuovo abbaglio.

Era inevitabile sbagliare così tanto come hanno fatto a Francoforte? Vediamo le previsioni sull’eurozona di altre organizzazioni internazionali. L’Ocse – che pubblica previsioni a giugno e dicembre – relativamente agli anni tra 2010 e 2012 sbaglia (distanza oltre 0,4 punti percentuali) le stime fatte un anno prima e si avvicina ai dati effettivi nella stima del mese di dicembre sull’anno in corso; anch’essa sottovaluta la “ripresina” del 2010 e non vede la recessione di 2011 e 2012. Per il 2012 oggi la previsione è di una caduta dello 0,4%. Per il 2013 si prevede un lieve calo dello 0,1%.

L’unico osservatore con previsioni in prevalenza precise è il Fondo monetario internazionale. Se consideriamo le stime fatte a ottobre e ad aprile dal 2009 a oggi, relative agli anni 2009-2012, troviamo un 80% di previsioni azzeccate (scarto di 0,3 punti percentuali o meno). Per il 2012 ora si prevede un calo dello 0,4%, azzeccato a partire da gennaio 2012, ma per tutto il 2011 anche a Washington le previsioni erano di un roseo ottimismo e non riuscivano ad anticipare la recessione. Per il 2013? Il Fondo qui è più ottimista dell’Ocse, nella stima pubblicata a ottobre si prevede un +0,2%, molto ridimensionato rispetto alle previsioni più vecchie.

Che lezioni trarre da questi numeri? La crisi ha mostrato quanto fossero errate le premesse e le relazioni che sono al centro della teoria economica dominante. È questa visione distorta che ha portato a politiche economiche che si sono rivelate disastrose. Ma quelle stesse premesse e relazioni sono incorporate nei modelli usati dalle grandi organizzazioni che pubblicano previsioni economiche.

L’ideologia acceca i politici quanto i previsori. L’evidenza più recente è stata la sottostima degli effetti negativi che le politiche di austerità imposte dall’Europa hanno avuto sulla domanda e sul reddito. Alla Bce come alla Bundesbank, all’Ocse come nel governo Monti, ci si aspettava che i tagli del 2011 e 2012 nei paesi della “periferia” europea avessero effetti modesti. Così non è stato e la recessione ha investito quest’anno l’insieme dell’eurozona. Questa volta a dimostrarlo sono anche gli studi del Fondo monetario (tra questi What Determines Government Spending Multipliers? di Giancarlo Corsetti, Andre Meier e Gernot Müller, ma anche le analisi del World Economic Outlook di ottobre 2012) che hanno mostrato come i tagli di spesa pubblica abbiano effetti di riduzione del reddito superiori a quelli previsti dai modelli dominanti.

Ma, fuori da Bce, Ocse e governi, ci sono migliaia di economisti europei che non hanno mai creduto ai dogmi del mercato e alle virtù dell’austerità, e hanno argomentato la necessità di cambiare politiche. L’analisi più recente è l’Euromemorandum 2013 – lanciato la scorsa settimana con l’adesione di quasi 400 economisti.

La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: www.sbilanciamoci.info.


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