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Una lettura keynesiana della crisi

Forum per le discussioni sulle tematiche economiche e produttive italiane, sul mondo del lavoro sulle problematiche tributarie, fiscali, previdenziali, sulle leggi finanziarie dello Stato.

Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 12/04/2012, 6:34

http://www.sinistrainrete.info/politica ... eynes.html

(dal Manifesto)

Austerity. Il premier tra Churchill e Keynes

Giorgio Lunghini

In Europa e in Italia domina ancora la Treasury View, quel punto di vista del Tesoro britannico che nell'infausto '29 Winston Churchill, allora Cancelliere dello Scacchiere, aveva sostenuto con determinazione: «Quali che ne possano essere i vantaggi politici e sociali, soltanto una assai piccola occupazione addizionale, ma nessuna occupazione addizionale permanente, possono essere create con l'indebitamento pubblico e con la spesa pubblica». L'argomento addotto è che qualsiasi aumento della spesa pubblica sottrae un pari ammontare di risorse agli investimenti privati: se il governo si indebita, allora entra in concorrenza con il settore privato, assorbe risorse che altrimenti avrebbero potuto essere investite dall'industria privata e dunque non si avrà nessun effetto netto sul livello di attività. Oggi non ci si ricorda invece che nel 1936 era uscita la General Theory of Employment, Interest and Money di J. M. Keynes, che della Treasury View e del suo fondamento neoclassico costituisce una critica radicale, con particolare riguardo alle determinanti dell'occupazione.

La Treasury view è corretta soltanto in un caso: quando l'economia è già in una situazione di piena occupazione, così che la spesa pubblica spiazzerebbe gli investimenti privati; si noti però che se ci fosse già la piena occupazione non ci sarebbe bisogno di nessun intervento dello Stato. In una situazione di disoccupazione, soprattutto se la disoccupazione è elevata come è oggi in Italia, lo Stato dovrà invece intervenire e ciò potrà fare indirettamente o direttamente. «Lo Stato dovrà cercare di influenzare la propensione al consumo, in parte mediante l'imposizione fiscale, in parte fissando il saggio di interesse e in parte, forse, in altri modi. Tuttavia sembra improbabile che l'influenza della politica bancaria sul saggio di interesse sarà sufficiente da sé sola a determinare un ritmo ottimo di investimento. Ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell'investimento si dimostrerà l'unico mezzo per consentire di avvicinarci all'occupazione piena; sebbene ciò non escluda necessariamente ogni sorta di espedienti e di compromessi coi quali la pubblica autorità collabori con l'iniziativa privata».

La teoria neoclassica nega invece che possa esserci bisogno di un intervento diretto dello Stato, perché postula che il sistema economico è in grado di autoregolarsi; e in particolare assume che la flessibilità del mercato del lavoro sia condizione sufficiente per fare aumentare l'occupazione fino al livello della piena occupazione. Questa è l'unica ragione seria, ma analiticamente infondata, per mettere al primo posto dell'agenda del governo la riforma del mercato del lavoro. Così come i provedimenti di liberalizzazione di tutti gli altri mercati e i tagli della spesa pubblica hanno come unica giustificazione razionale, anche questa infondata, la tesi che in tal modo tutti i mercati diventeranno finalmente efficienti e che la spesa pubblica non spiazzerà gli investimenti privati.

Circa il mercato del lavoro - considerato oggi «un tema cruciale e una priorità» - il ragionamento neoclassico si svolge così:
A. Se non ci fossero attriti o impedimenti artificiali, sul mercato del lavoro si stabilirebbe un salario (reale) tale che non vi sarebbe disoccupazione involontaria, cioè risulterebbero non occupati soltanto quei lavoratori più pigri e disposti a lavorare soltanto per un salario più elevato di quello di equilibrio.
B. Data l'occupazione di equilibrio, risulta determinato il livello della produzione e del reddito, che sarà il livello più elevato possibile, date le risorse disponibili di lavoro e di capitale.
C. Sul mercato dei beni, di consumo e di investimento, si determina quel saggio di interesse reale in corrispondenza al quale si ha uguaglianza tra investimenti e risparmio e dunque tra offerta aggregata e domanda aggregata.
D. Sull'economia reale (sulla occupazione e sulla produzione) la quantità di moneta non ha nessuna influenza, è neutrale: essa influenza soltanto il livello generale dei prezzi. A ciò si aggiunge che la distribuzione del reddito tra salari e profitti è commisurata alla produttività del lavoro e del capitale, cioè al contributo di ciascun fattore della produzione alla produzione stessa.

Una teoria così fatta è una teoria la cui semplice e seducente conclusione di politica economica è la dottrina del laissez faire; ma conviene ricordare che la massima «laissez faire» è tradizionalmente attribuita al mercante Legendre e a una sua risposta a Colbert, verso la fine del diciassettesimo secolo. «Que faut-il faire pour vous aider?», chiese Colbert. «Nous laisser faire», rispose il mercante: «Lasciate fare a noi». Se questa teoria fosse realistica nei suoi postulati e logicamente ineccepibile, vivremmo nel migliore dei mondi possibili, nel mondo di Pangloss: «Ogni avvenimento è concatenato in questo migliore dei mondi possibile; ché, infine, se non foste stato cacciato per amore di Cunegonda a pedate sul didietro da un bel castello, se non foste passato sotto l'Inquisizione, se non aveste corsa l'America a piedi e non aveste perduti tutti i montoni del bel paese dell'Eldorado, non mangereste qui cedri canditi e pistacchi».

Così purtroppo non è, poiché è difficile contestare che il processo economico si svolge in altro modo, cioè nell'ordine descritto dal dimenticato Keynes; un ordine causale che comincia non dal mercato del lavoro ma dal mercato della moneta, un processo nel quale hanno un ruolo essenziale le aspettative dei consumatori e delle imprese circa un futuro incerto:
A. L'equilibrio sul mercato della moneta dipende dallo stato delle aspettative, che influenza la domanda di moneta per il motivo speculativo, nonché dalla quantità di moneta in circolazione. Questo insieme di circostanze determina il livello del tasso di interesse.
B. L'ammontare degli investimenti che corrispondono a un certo tasso di interesse dipende a sua volta dalle aspettative.
C. Il volume degli investimenti, insieme all'ammontare dei consumi, che dipendono dalla propensione al consumo della collettività, determina il livello del reddito.
D. Il livello del reddito determina il livello dell'occupazione.

Si noti che Keynes non ipotizza né il pieno impiego della capacità produttiva né che il livello di occupazione sia quello di pieno impiego. È anzi possibile, anzi normale, che il sistema economico sia bensì in un qualche equilibrio, e che però vi sia disoccupazione involontaria. A fronte di una insufficiente domanda effettiva, e senza un intervento diretto dello Stato, la diminuzione del salario reale conseguente alla massima flessibilità del mercato del lavoro si traduce non in un aumento degli investimenti e della occupazione, ma soltanto in un aumento dei profitti e delle rendite e in uno spostamento di questi redditi verso la speculazione finanziaria.


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 12/04/2012, 7:06

franz ha scritto:In realtà nel 1929 non si usci' dalla crisi. Continuo' ferocemente per tutti gli anni '30, tanto che alcuni economisti affermano che le ricette keynesiane non riducono le crisi: le fanno solo durare piu' a lungo.


Scommettiamo che sono economisti neoliberisti?
Sarebbe utile confrontare delle analisi sulla crisi del '29 da punti di vista diversi e contrapposti, per approfondire meglio questo tema. Anche perché ormai tra crisi, recessione e declino italiano, ci siamo dentro fino al collo... :(


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 12/04/2012, 8:21

flaviomob ha scritto:Scommettiamo che sono economisti neoliberisti?
Sarebbe utile confrontare delle analisi sulla crisi del '29 da punti di vista diversi e contrapposti, per approfondire meglio questo tema. Anche perché ormai tra crisi, recessione e declino italiano, ci siamo dentro fino al collo... :(

No, direi che sono monetaristi o della scuola austriaca, anche classici.
Il mondo accademico degli economisti non è diviso solo in keinesiani e neoliberisti.
Ci sono altri filoni, naturalmente nell'ambito delle libertà economiche.
Non li conosco tutti (ho solo studiato un po' la Public Choice) ma questa è il classico riassunto da bigino ;)

Da http://www.skuola.net/economia-ragioner ... miche.html
MERCANTILISMO
Il mercantilismo si sviluppa dal 1500 e dura fino al 1750, dopo aver raggiunto la sua massima espansione nel Seicento con Colbert.
Si crede infatti che la ricchezza degli Stati dipendeva dalla quantità di metalli preziosi che erano al suo interno.
Secondo questa teoria, lo Stato, per essere forte, deve quindi proteggere il commercio attraverso una tassazione molto contenuta e sviluppare le esportazioni, limitando le importazioni attraverso una politica protezionistica.
I mercantilisti considerano quindi l’intervento dello Stato indispensabile.

FISIOCRAZIA
La fisiocrazia si sviluppa in Francia tra il 1758 e il 1780, ispirandosi al pensiero del laissez faire: lo Stato dunque non deve intervenire all’interno dell’economia.

Secondo questa scuola, l’unica classe produttiva è quella degli agricoltori, mentre tutti gli altri lavori (artigiani, commercianti…) sono considerati classe sterile perché non produce nuova ricchezza, ma si limita a conservare nei suoi prodotti il valore dei mezzi di produzione impiegati.
I fisiocrati ritengono che la terra sia l’unica fonte di ricchezza e che i proprietari fondiari siano i legittimi detentori di tale ricchezza.
Pertanto, l’unica classe tenuta al pagamento delle imposte è quella dei proprietari terrieri.
L’intervento dello Stato non è indispensabile, in quanto l’economia è regolata da leggi superiori.

ECONOMIA CLASSICA
L’economia classica si sviluppa in un periodo storico (1776-1848) fortemente caratterizzato da fatti, invenzioni e scoperte scientifiche che contribuiscono alla trasformazione dell’economia da agricola a industriale.

Adam Smith ha una concezione liberista del mercato, come sistema economico in grado di “autoregolarsi”, una volta lasciato libero di funzionare.
Si parla a tal proposito di finanza neutrale, secondo cui lo Stato non deve turbare l’equilibrio del mercato, limitandosi ad offrire i servizi pubblici essenziali.

Smith individua quindi una serie di attività istituzionali in cui è opportuno l’intervento dello Stato: difesa, giustizia e ordine pubblico.
Il finanziamento di tali settori deve interessare tutti i cittadini mediante il pagamento di imposte, che rappresentano il corrispettivo dovuto allo Stato per ottenere i servizi pubblici essenziali.
Per Smith, lo Stato può altresì intervenire in quei servizi in cui il privato non è interessato ad investire.
Si aveva quindi idea di un bilancio statale in pareggio.

Nell’Ottocento, John Stuart Mill elabora una teoria della finanzia sociale, secondo cui lo Stato deve intervenire per proteggere le classi sociali più deboli, alleviando le differenze che il sistema liberale ha creato tra le varie classi sociali, tutelando quindi i disoccupati, i minori e gli analfabeti.

ECONOMIA MARXIANA
Nell’Ottocento, Karl Marx aderiva alla corrente di pensiero del determinismo, secondo il quale tutto era già definito (in base a quanto era accaduto in passato, si poteva anche stabilire il futuro).
Secondo Marx – come i borghesi avevano fatto la Rivoluzione francese e con la proprietà privata erano diventati la classe egemone – i proletari con l’abolizione della proprietà privata a seguito di una rivoluzione, sarebbero diventati la classe egemone.
Dunque, di conseguenza, non sarebbe più esistito lo Stato in quanto non più necessario, perché tutti gli organi statali erano ormai superflui in quanto anche i ladri non sarebbero esistiti perché non potevano rubare le cose di tutti, e perciò anche la polizia non era più necessaria.
La teoria marxista, però, era utopistica.

Dalla crisi del 1929 alla TEORIA KEYNESIANA
Con la grave crisi economica americana del 1929, emerge l’incapacità dei sistemi economici di autoregolarsi senza interventi esterni.
Prende così corpo la convinzione che lo Stato possa intervenire, ogniqualvolta si presentino degli squilibri, attraverso una politica anticiclica.
In base a questa teoria della finanza compensativa (o anticiclica), lo Stato deve intervenire correggendo eventuali squilibri momentanei dell’economia.

Nei periodi di recessione, lo Stato doveva aumentare la spesa pubblica; nei periodi di espansione, doveva ridurre la spesa pubblica.
Il bilancio dello Stato non doveva essere in pareggio, ma:
• Quando il PIL era in recessione, lo Stato doveva essere in disavanzo (spese > entrate);
• Quando il PIL era in espansione, lo Stato doveva essere in avanzo (entrate > spese).

Terminata la crisi, Keynes sosteneva una teoria della finanza funzionale, secondo cui lo Stato deve operare nel mercato in modo permanente, non solo attraverso una politica anticiclica, ma anche mediante interventi in campo sociale.

Il bilancio dello Stato, quindi, non diventa più il fine, ma il mezzo con il quale raggiungere gli obiettivi.
È quindi compito dello Stato stabilire una “base” di parità per tutti.
L’eccesso di interventi all’interno dello Stato, però, rischia di ridurre la meritocrazia.
Dunque, in funzione degli obiettivi sociali stabiliti dallo Stato, si definisce poi il bilancio dello Stato (che poi è sempre in disavanzo).
Con la finanza funzionale, si è quindi ampliato il ruolo dello Stato.

TEORIA DELLE SCELTE PUBBLICHE

La teoria delle scelte pubbliche nacque in America negli anni Settanta.
La scuola studia i comportamenti dei protagonisti delle scelte pubbliche (politici). Questi non si comportano in modo da raggiungere gli obiettivi politici e sociali che garantiscono il benessere a tutti i cittadini, ma risentono di interessi personali e di vari tipi di condizionamenti.
Tutto ciò fa presumere che vi sia un fallimento dello Stato che non può garantire l’efficace utilizzo delle risorse economiche.
Si afferma quindi la necessità di un nuovo patto sociale, che consenta un ridimensionamento dell’intervento statale attraverso vincoli rigorosi al debito pubblico e all’emissione di moneta.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 14/04/2012, 1:01

Economia:
La scienza che consiste nello spiegare domani perché le previsioni che hai fatto ieri non si sono avverate oggi.


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 14/04/2012, 8:50

flaviomob ha scritto:Economia:
La scienza che consiste nello spiegare domani perché le previsioni che hai fatto ieri non si sono avverate oggi.

Lo scopo principale dell'economia non è fare previsioni (questo è il campo degli analisti finanziari) anche perché non è possibile fare previsioni. Lo scopo dell'econimia dovrebbe essere studiare le regole che permettono di ottimizzare l'impiego delle risorse e l'ottenimenti dei risultati.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 14/04/2012, 13:31

Lo scopo dell'econimia dovrebbe essere studiare le regole che permettono di ottimizzare l'impiego delle risorse e l'ottenimenti dei risultati.


I risultati si registrano sempre dopo un tempo t che non è mai uguale a zero. Per cui chi si intende di economia è sempre chiamato a fare previsioni, altrimenti nessuno si sbilancerebbe a scegliere dove investire e dove evitare di rischiare.
Il concetto di rischio è sempre legato alle probabilità che un evento si verifichi entro un tempo t diverso da zero (futuro).


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 14/04/2012, 15:34

flaviomob ha scritto:[

I risultati si registrano sempre dopo un tempo t che non è mai uguale a zero. Per cui chi si intende di economia è sempre chiamato a fare previsioni, altrimenti nessuno si sbilancerebbe a scegliere dove investire e dove evitare di rischiare.
Il concetto di rischio è sempre legato alle probabilità che un evento si verifichi entro un tempo t diverso da zero (futuro).

Si, ma le previsioni per un tempo t su cosa vendere e comprare non si possono fare, perche é qui si che entra in funzione una sorta di principio di indeterminazione, per cui l'esperimento (la predizione di un evento) modifica la realtà stessa.
Metti che 30 premi nobel per l'economia e 40 presidi delle piu' presigiose facoltà di economia del mondo si riuniscano in una sala, e dopo giorni di studi e discussioni se ne escano con questo comunicato: "Dopo lunghe analisi abbiamo stabilito all'unanimità che il giorno 5 giugno 2012 alle ore 15:50 le borse di tutto il mondo crolleranno per mai piu' risollevarsi".
Secondo voi il giorno 5 giugno 2012 alle ore 15:50 cosa succede?
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 15/04/2012, 8:10

La tua ipotesi è una profezia che si autoavvera. Ma gli ipotetici studiosi del 5 giugno dovrebbero motivare ed argomentare seriamente una previsione così precisa e deterministica. Il che rende molto problematica e contestabile la cosa. Al contrario analisti finanziari ed assicuratori ogni giorno sono alle prese col calcolo di rischi su investimenti o su polizze particolari e il loro mestiere è proprio quello di formulare ipotesi sul futuro di imprese quotate in borsa o sulle probabilità che una costruzione in un determinato contesto possa essere coinvolta in un incendio o in un terremoto.

-

Ma dato che stiamo parlando di letture keynesiane, un'analisi de il Manifesto:

EDITORIALE - CAPITALE&LAVORO
Monti già in riserva

GALAPAGOS
14.04.2012
• LEGGI I COMMENTI • SCRIVI UN COMMENTO
Le borse anche ieri sono andate a picco e non varrebbe la pena sprecare un riga per commentare il dato se non fosse che dietro l'andamento dei mercati finanziari si cela una situazione drammatica dell'economia reale. In borsa si specula molto, ma «speculare» significa non solo praticare un gioco d'azzardo spesso sporco, ma anche «prevedere» come andrà l'economia nei mesi successivi. Oggi la quasi totalità di chi specula in borsa prevede un futuro nerissimo nel quale l'economia globale è destinata a vivere una lunga fase di recessione e di stagnazione che non si sa quando terminerà.
Basta guardare a quello che sta succedendo in Italia: la recessione è iniziata nel 2008 e l'anno successivo il Pil ha registrato un crollo senza precedenti: oltre il 5%. Poi nel 2010 c'è stata una leggera ripresa, ma già nel 2011 il Prodotto interno lordo è cresciuto di appena mezzo punto. Per quest'anno è attesa una nuova caduta di circa il 2%. Secondo gli economisti più ottimisti l'andamento dell'economia ha un segno grafico rappresentato dalla lettera «W» (double dip, in inglese) che significa recessione, piccola ripresa e nuova recessione. Questo andamento era largamente prevedibile osservando ciò che stava accadendo ai settori produttivi. In primo luogo l'industria che, anche nella fase di ripresa del 2010, non ha mai recuperato i livelli pre-crisi, ma, nel momento migliore, è risultata del 15% inferiore a quei livelli.
I dati diffusi ieri dall'Istat (anticipati dal Centro studi Confindustria) confermano che all'inizio di quest'anno (gennaio e febbraio) la caduta della produzione è diventata ancora più violenta. D'altra parte i dati sulle ore concesse di Cassa integrazione l'avevano largamente anticipato. Per Corrado Passera si tratta di dati «attesi» per contrastare i quali, tuttavia, il governo non ha fatto nulla.
La crisi attuale era stata anticipata anche dal Fondo monetario che in un report dell'aprile 2009 aveva scritto che la crisi (allora virulenta a livello mondiale) sembrava avere un andamento grafico a «L» che la rendeva simile alla crisi del '29. Quando a una caduta della produzione (e del Pil) molto forte era seguita una fase di stagnazione lunghissima, interrotta solo dalla «ripresa» conseguente la seconda guerra mondiale. I grandi della terra hanno finto di non accorgersi (come fa oggi Monti) di quello che stava accadendo e hanno concentrato tutte le attenzioni sulla crisi della finanza e sul risanamento dei conti pubblici con manovre restrittive, come sta facendo Monti. E questo ha prodotto un effetto perverso: frenando la crescita del Pil ha provocato un aumento del deficit e del debito pubblico. Di qui la necessità di nuove manovre correttive che a loro volta frenano la domanda globale e creano nuovi disoccupati.
Insomma, siamo di fronte a una situazione drammatica dominata oltretutto da una ideologia perversa: solo le liberalizzazioni, le privatizzazioni e il basso costo del lavoro possono rilanciare i sistemi economici. Produrre più merci anziché allargare l'area del welfare non genererà nuova crescita, ma solo nuove crisi e povertà diffusa.

http://www.ilmanifesto.it/attualita/notizie/mricN/7074/


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 15/04/2012, 10:08

flaviomob ha scritto:La tua ipotesi è una profezia che si autoavvera.

No, è assolutamente evidente che se gli studiosi che esprimono la previsione sono veramente credibili (per il nome che hanno e le argomentazioni poste) allora il crollo non avverà mai il 5 giugno ma molto prima. Perché se si prevede un crollo alla data X è evidente che chi possiede azioni cercherà di venderle il prima possibile, prima che perdano valore. Quindi il crollo non avverrà il 5 giugno e la profezia non si autoavvea ma si autosmentisce. Anzi direi che gli studios in Italia rischierebbero una imputazione per procurato allarme (ed aver pur sbagliato data).
Questa è una degli argomenti utilizzati per affermare che non è possibile prevedere con precisione una crisi.
Si puo' sapere che qualche cosa avverrà ma non quando.
Ci sono altri argomenti a favoe delle imprevedeibilità delle crisi economiche da parte delgi econimisti e mi pare di averle già postate mesi fa.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 18/04/2012, 11:06

“Keynes è stato messo fuorilegge, così diventa impossibile investire” – Intervista a Vladimiro Giacché
Posted by keynesblog on 18 aprile 2012 in Economia, Europa, Italia
da Today.it

Sera di martedì 17 aprile. Il Senato ha appena inserito in Costituzione il pareggio di bilancio. Per capire gli effetti di questa riforma, abbiamo intervistato Vladimiro Giacchè, economista, autore del libro dal titolo “Titanic Europa – La crisi che non ci hanno raccontato” (ed. Aliberti, gennaio 2012).

Professor Giacchè, inziamo col provare a capire la base di questa riforma. Qual è la ratio del pareggio di bilancio in costituzione?

Il pareggio di bilancio, di fatto, sancisce l’illegalità del keynesismo. Secondo Jhon Maynard Keynes, nei periodi di recessione, con la ‘domanda aggregata’ insufficiente, era lo Stato, tramite il deficit spending, a far ripartire l’economia. Secondo questo principio, il deficit si sarebbe poi ripagato quando la crescita fosse ripresa. Ora, impedendo costituzionalmente il deficit di bilancio dello Stato – se non per casi eccezionali e comunque per periodi di tempo limitati – tutto ciò sarà impossibile. Da oggi il nostro paese abbraccia ufficialmente l’ideologia economica per la quale la priorità è evitare il deficit spending, ossia che lo Stato possa finanziare parte della domanda indebitandosi. Questa cosa può sembrare apparentemente ragionevole per paesi indebitati come il nostro, ma in realtà è assolutamente folle. Così facendo si stanno replicando gli errori drammatici degli anni ’30: quando ci si trova alle prese con la recessione, oggi come ottanta anni fa, accade che i privati investono meno. Ed è qui che sarebbe fondamentale un deciso intervento pubblico, con investimenti che facciano in modo che la ‘domanda aggregata’, cioè l’insieme dell’economia, aumenti, per ripresa. Questi effetti benefici, poi, si riassorbirebbero negli anni a seguire con effetti positivi sui conti pubblici. Ad esempio, con un maggior introito di tasse, il governo avrebbe avuto un rientro maggiore. Da oggi, invece, questo non sarà più possibile.

Cosa significa questo per un paese come l’Italia?

Semplicemente che sarà impossibile mettere soldi nei settori che invece richiedono un forte investimento. Ad esempio nella cultura, nella ricerca o nelle infrastrutture ‘utili’. ‘Utili’ come la Salerno-Reggio Calabria, per intenderci, e non come il Ponte sullo Stretto. Non è un caso se il nostro è un paese che per la ricerca spende meno della media europea. Non è un caso se il nostro è un paese con un sistema scolare e post-scolare che versa in condizioni drammatiche a causa dei tagli iniziati nel 2008. Non è un caso se tra gli Stati europei il nostro è ai primi posti, insieme ai paesi più arretrati d’Europa (in primis Portogallo e Grecia), per bassa qualifica dei nostri lavoratori. Oggi abbiamo reso illegale il ‘deficit spending’. Questo significa che sarà impossibile investire ma soprattutto attivare una serie di diritti previsti dalla nostra Costituzione: il diritto alla scolarità che non deve essere ‘per ceto’, l’assistenza sanitaria gratuita per tutti, il diritto a una serie di servizi alla persona. Ora, interpretando la Costituzione facendo perno sull’articolo 81 come modificato, tutti questi diritti primari non saranno più esigibili. O almeno saranno subordinati all’articolo 81.

Lei quindi vede nel pareggio di bilancio un attacco ai diritti di base che dovrebbero essere costituzionalmente garantiti?

La questione è molto semplice. Il senso di questa riforma costituzionale è che se uno ‘vuole’ dei diritti, se li deve pagare. Non sarà più lo Stato a raccogliere risorse per i suoi cittadini. Peccato, però, che guardando alla crescita economica di lungo periodo, per uscire da una crisi come quella che stiamo attraversando, servirebbero tutta una serie di investimenti che il privato non si sobbarcherà mai.

Nell’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio, si lega la crescita al Prodotto interno lordo. Cosa significa questo?

Partiamo dal precedente governo. Per diverso tempo Tremonti all’epoca del suo dicastero all’Economia ha ingannato i mercati facendo leva su false previsioni di crescita, parlando di una crescita maggiore di quella che si sarebbe poi verificata. Ma il meccanismo di queste ‘bugie’ era chiaro: si aveva bisogno della crescita per far si che il deficit diminuisse. Comunque la si voglia vedere, i dati di fatto da cui partire per analizzare le conseguenze di questa riforma sono due. Il primo: con la crisi, sono diminuite le entrate fiscali e sono aumentate le spese per gli ammortizzatori sociali. Il secondo: si continua a incentrare qualsiasi analisi sul rapporto tra debito e Pil. Dove il debito è il numeratore e il Pil il denominatore. Ma io posso far calare il numeratore all’infinito (in questo caso, tagliando all’inverosimile la spesa pubblica), ma se è il numeratore a diminuire più velocemente (e il Pil è la ricchezza prodotta), ecco che il rapporto sarà sempre destinato a peggiorare. Sembra una cosa evidente, ma per qualcuno al governo evidentemente non lo è. Basterebbe ragionare partendo da questo aspetto per capire che una vera manovra per uscire dalla crisi dovrebbe essere calibrata per fare in modo che si impedisca al Pil di scendere. Cosa che, invece, puntualmente accade con ogni manovra di austerity. Dopo i 55 miliardi di tagli di Berlusconi, siamo ai 30 miliardi di tagli di Monti. Ma questi 85 miliardi di tagli hanno impattato fortemente sulla crescita. Si è lavorato sullo ‘stabilizzatore keynesiano’ ma al contrario. E’ crollata la domanda privata, e di riflesso è crollata la domanda pubblica. Così, di colpo, abbiamo settori di imprese rivolte al mercato interno in grave difficoltà, mentre quelle imprese che lavorano sul mercato estero sono in ripresa. Ma così si è soltanto indebolita l’economia italiana.

Vede ‘la Grecia’ come un rischio per il nostro paese?

Qui la sfida è una crescita reale, possibile solo abbandonando le ricette adoperate negli ultimi tempi. Se si riduce drammaticamente la spesa pubblica in tempo di crisi, il futuro è la Grecia. C’è poco da girarci attorno. Con i tagli su tagli, l’economia greca di obbedienza all’Unione europea è crollata del 6,5% per tre anni consecutivi. E’ praticamente implosa. E il Pil crollato. Il risultato, per fare esempi chiari da vita quotidiana, è che oggi in Grecia si comprano il 20% in meno di medicine. E parliamo di un bene essenziale. Con la Grecia si è andati dietro l’ideologia folle che nasce dall’incomprensione di quanto è successo. Il debito pubblico non è la causa della crisi, ma la sua conseguenza. Il debito pubblico nasce dal tentativo di tamponare la crisi, ad esempio salvando le banche. Un esempio: la Germania ha ‘coperto’ le banche con qualcosa come 200miliardi di euro negli ultimi dieci anni. Risultato: il debito pubblico tedesco è cresciuto di 750miliardi di euro in dieci anni. La cosa bizzarra, però, è che i tedeschi hanno adottato misure di compensazione del deficit spending per far fronte a questa situazione e nel 2009 hanno speso il 3% del Pil per salvare le loro imprese. Ebbene, quella stessa Germania oggi impone il divieto di deficit spending ai paesi più deboli dell’Unione europea.

Quale sarebbe, secondo lei, una possibile via d’uscita dalla crisi?

Ce n’è una sola: guardare meno al giorno per giorno e progettare per il lungo periodo. Purtroppo il nostro governo tecnico nasce per l’emergenza e non riesce a progettare nel lungo periodo, anche perchè per farlo servirebbe una larga investitura popolare. Ma se continuiamo a vivere nell’emergenza, e questo governo continua a fare politiche ‘da stato di emergenza’, è inevitabile infilarci in un tunnel senza uscita. Non è un caso che per alcuni istituti il Pil quest’anno diminuirà del 2,6%, con una diminuzione prevista per il prossimo anno del 2,9%. Stando così le cose, sarà inevitabile dover ricorrere a nuove manovre di austerity. Ed ecco qui la spirale, innestata proprio dal vincolo costituzionale del pareggio di bilancio. Facendo due rapidi calcoli a partire dall’obbligo sancito dal ‘Fiscal compact’ di dover ridurre il debito pubblico del 5% annuo per quanto eccede il Pil del 60% – ergo, un ventesimo del Pil – ecco che per un certo numero di anni il nostro paese sarebbe chiamato a manovre annuali di 45miliardi di euro. Senza considerare quanto paghiamo di interessi sul debito: nel 2012 qualcosa come 72 miliardi di euro. Di fatto, l’Italia per i prossimi anni sarebbe costretta a manovre, per ridurre il suo debito pubblico, di circa 120miliardi di euro l’anno. Una follia. O meglio, la perfetta ricetta per il disastro economico. Un disastro motivato dall’assurda idea di fondo che si debba cancellare il debito pubblico. Ma la realtà è un altra: nessuno ti chiede di azzerare il debito. Quello che interessa i mercati, infatti, non è che il debito venga cancellato ma che si stabilizzi. L’obiettivo dovrebbe essere non far crescere tendenzialmente il debito.

http://keynesblog.com/2012/04/18/keynes ... o-giacche/


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