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Una lettura keynesiana della crisi

Forum per le discussioni sulle tematiche economiche e produttive italiane, sul mondo del lavoro sulle problematiche tributarie, fiscali, previdenziali, sulle leggi finanziarie dello Stato.

Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 23/10/2012, 22:11

....in un’unione economica e monetaria, dove l’export di una nazione rappresenta l’import di un’altra, le politiche neo-mercantiliste operate dalla Germania si sono rivelate estremamente dannose per le economie più deboli della stessa area valutaria comune, configurandosi come vera e propria mancata domanda aggregata nell’area.
In conseguenza, le politiche di austerità fortemente volute dal governo di Berlino e dalla Commissione europea non rappresentano la giusta medicina per la cura dei malati europei. La crisi del debito pubblico deriva dalla scarsa capacità delle economie più deboli dell’Euro zona di produrre reddito e può essere affrontata soltanto con un maggiore coordinamento delle politiche dei salari e delle politiche fiscali. Per le prime occorre, come già indicato da Andrew Watt nel dibattito La rotta d’Europa, un sistema di contrattazione salariale a livello comunitario che rispetti una regola aurea per la crescita dei salari, in accordo alla quale i salari nominali in ogni paese crescano ad un tasso uguale alla crescita nazionale della produttività nel medio periodo, più il tasso di inflazione stabilito dalla banca centrale. Per le politiche fiscali occorre un maggior coordinamento delle politiche nazionali e serve un nuovo meccanismo di governance macroeconomica europea.....


http://keynesblog.com/2012/10/23/gli-sq ... #more-2444

Immagine

Fig. 1 – Saldi dei conti correnti di alcuni paesi dell’area dell’euro (fonte: Memorandum 2011 in Troost/Hersel 2011)


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 24/10/2012, 7:57

flaviomob ha scritto:[i]....in un’unione economica e monetaria, dove l’export di una nazione rappresenta l’import di un’altra, le politiche neo-mercantiliste operate dalla Germania si sono rivelate estremamente dannose per le economie più deboli della stessa area valutaria comune, configurandosi come vera e propria mancata domanda aggregata nell’area.

Non basta definire una politica "neo-mercantilista" per dimostrare che la cosa è vera, di conseguenza tutte le cose scritte dopo "di conseguenza" sono opinabili e non conseguenza logica. Comincerei dalla definizione di mercantilismo e di neo mercantilismo, che è una politica (dello stato) volta a favorire le esportazioni e limitare le importazioni (solitamente con misure di protezionismo). Un occhiata alle bilance commerciali tedesche mostra che per prima cosa l'export tedesco verso l'area euro rappresenta il 40% di tutti i prodotti ed il 42% dei soli beni intermedi. Le importazioni dall'area euro sono invece il 45% del totale. Per quanto riguarda l'unione economica e monetaria (area euro) quindi la germania importa piu' di quanto esporta ed il saldo positivo attuale riguarda le esportazioni con il resto dl mondo (dove qui l'unica cosa vera che si puo' dire è che la germania ha saputo coniugare ottimi prodotti con un euro via via piu' debole e quindi con un insieme altamente competitivo sui mercati internazionali). In secondo luogo le aree piu' deboli, che hanno poco da esportare ed importano molto, hanno beneficiato per anni dalla pacchia dell'euro (pensiamo alle massicce importazioni della grecia) e quindi hanno rappresntato una domanda aggregata fortemente drogata (ma sperperata) che non si è tradotta in investimenti produttivi ed aumento della qualità dei proditti. E questo non certo per la "cattiva germania" ma per l'incapacità della loro classe politica.

Dati: http://www.ispionline.it/it/documents/C ... 6.2012.pdf
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 24/10/2012, 12:01

E infatti, dallo stesso link da Franz indicato:

Oltre a un complessivo saldo positivo, la Germania mostra un surplus crescente anche nei confronti dell’area dell’euro fino al 2007. Il saldo con l’Eurozona si riduce dal 2008, ma rimane ampiamente positivo (dati Bundesbank).


Il fatto (che tu Franz non hai indicato) che sia cambiato il rapporto import/export tra Germania e area euro è limitato all'anno 2011, in una situazione già di profonda crisi per i paesi "periferici", ed è limitato ai "beni intermedi".


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 24/10/2012, 13:45

flaviomob ha scritto:Il fatto (che tu Franz non hai indicato) che sia cambiato il rapporto import/export tra Germania e area euro è limitato all'anno 2011, in una situazione già di profonda crisi per i paesi "periferici", ed è limitato ai "beni intermedi".

I due grafici alla fine del rapporto parlano chiaro. Quando esistono sutplus sono di minuscola entità (1%) assolutamente isufficneti per indicare "politiche mercantiliste che avviliscono i paesi deboli". Basta vedere i grafici import/export e leggere le percentuali per capirlo.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 02/11/2012, 13:43

Per un manifesto della politica industriale in tempi di crisi fiscale

Posted by keynesblog on 2 novembre 2012 in Economia, Italia


La politica industriale italiana non esiste: crisi di idee e crisi di strumenti (oltre alla crisi finanziaria) rendono difficile parlarne e, ancor di più, essere presenti sui principali media. L’affermazione prevalente viene riassunta in una espressione: “la migliore politica industriale è quella che non c’è”.
Si tratta di una espressione tanto gradita in alcuni ambienti intellettuali (e facilmente divulgabile sui mezzi di comunicazione di massa), quanto del tutto infondata nella realtà. Lo scenario internazionale non vede –e non ha visto in epoca moderna- nessun paese al mondo (con poche e trascurabili eccezioni) disinteressato alle sorti della propria struttura produttiva e dei suoi comparti più qualificanti. Tutti (dagli USA alla Cina, dalla Germania alla Francia, dal Giappone al Brasile, dall’India alla Gran Bretagna) intervengono con risorse finanziarie, con servizi di accompagnamento, con sostegni alla ricerca, con domanda pubblica e con ogni strumento possibile fino al limite consentito dalle regole e dagli accordi internazionali.

Contrapporre a questa realtà mondiale un’Italia in cui la capacità di rimuovere qualche freno istituzionale possa divenire l’unica funzione dello Stato per riportare il paese su un sentiero sostenuto di crescita, appare riduttivo e fuorviante. La specificità storica del sistema produttivo italiano, costituita, da un lato, dalla presenza nel Sud di una vasta area con significative debolezze del contesto socioeconomico e, dall’altra, dalla marcata caratterizzazione territoriale dei sistemi di imprese (così come della vasta platea di PMI dinamiche), richiede risposte adeguate.
Confinare il legittimo intervento della policy solo ad alcune tra le aree in cui si manifestano i “fallimenti del mercato” (in un mondo che vede pochi esempi di corretti funzionamenti degli stessi mercati) non consente di ragionare diffusamente sui reali problemi di policy. Questi ultimi riguardano, in primo luogo, la costruzione di un disegno strategico di ampio respiro. declinato in obiettivi dettagliati, concreti, verificabili; e, in secondo luogo, la necessità di approfondire i “fallimenti dello Stato” intesi non come l’impossibilità congenita dei Governi a funzionare, ma piuttosto come gli effetti di politiche mal disegnate e mal gestite del passato che devono essere corrette, identificate e ben amministrate.
L’accezione delle politiche industriali come inevitabilmente inefficienti è frutto di una visione ideologica che condanna tout court ogni misura di intervento pubblico per le imprese. Il quadro analitico e valutativo presenta evidenze di segno diverso. la fragilità della base informativa e la capacità spesso ridotta di fornire informazioni utili ai policy maker richiedono approfondimenti e non possono costituire un supporto sufficiente per decretare la cancellazione di ogni politica.

Esiste uno spazio rilevante per l’intervento pubblico aggregabile intorno alla definizione di Politica Industriale nel contesto europeo.
La capacità di indirizzo delle attività private (in forma individuale o associata) da parte dei governi si realizza principalmente attraverso tre vie: l’erogazione di premi monetari o di riduzione del rischio per i soggetti che sviluppano azioni ritenute meritorie; la gestione attiva della spesa pubblica; la regolazione e l’indirizzo in senso stretto. E’ tempo di riflettere su questi aspetti e di intervenire su tutti i fronti. Gli interventi devono tenere nella debita considerazione le disponibilità di finanza pubblica (dobbiamo parlare, nella migliore delle ipotesi, di politiche a risorse date) e l’efficienza amministrativa.
Il modo in cui gli interventi possono essere declinati deve essere oggetto di grande cura: come sempre, saranno i dettagli che definiranno la qualità delle politiche. Non è questa la sede per approfondirli, tuttavia si possono individuare alcune precondizioni che sono alla base di un necessario cambiamento di operatività.
I tre criteri guida devono essere: selettività, informazione/conoscenza, responsabilità.
Con vincoli di bilancio stringenti si è obbligati a selezionare, con estrema cura, obiettivi coerenti con le risorse disponibili e con gli strumenti. Sia pure con problematiche diverse, la selezione va operata nel campo degli interventi diretti, dei servizi e in quello dell’orientamento della spesa.

L’informazione corretta è premessa indispensabile di ogni politica (e anche della selezione), ad essa sono dedicate attenzioni troppo modeste, mentre, con una certa disinvoltura, si “pubblicano” cifre prive di rigore e di attendibilità. Gli stessi numeri sbagliati possono tramutarsi facilmente in verità “acclarate” e orientare in modo distorto il dibattito politico ed economico. Una parte non marginale di tale informazione riguarda la necessità di rispettare criteri sostanziali di trasparenza delle amministrazioni, si tratta di predisporre database pienamente informativi, accessibili a tutti e che consentano anche esercizi indipendenti di analisi e valutazione.

Infine, la responsabilità degli amministratori costituisce un tema ineludibile. Per molti anni si è cercato di definire meccanismi e regole alla ricerca di modelli di intervento neutrali ed efficienti seguendo procedure meccanicamente riprodotte a tutti i livelli di governo e cercando di sottrarre intelligenza agli operatori pubblici. La responsabilizzazione dei dirigenti pubblici è un fattore determinante per il recupero di una qualità amministrativa standard ed essenziale per qualsiasi politica efficiente. Non si tratta di attribuire responsabilità legali (che già esistono in abbondanza), ma di fondarsi sulla ricerca di competenze e meriti che devono potersi esprimere e operare.

Riteniamo che esistano spazi per una Politica Industriale efficiente ed efficace seguendo un disegno accurato e coerente che tenga conto dei vincoli esistenti, valorizzi gli strumenti potenzialmente a disposizione, impari dalle esperienze positive, nazionali e internazionali.

I promotori
Adriana Agrimi, Alessandro Arrighetti, Giovanni Barbieri, Elisa Barbieri, Marco Bellandi, Silvano Bertini, Paolo Bonaretti, Raffaele Brancati, Massimo Bressan, Albino Caporale, Domenico Cersosimo, Francesco Crespi, Alfredo Del Monte, Amedeo Di Maio, Antonio Di Majo, Marco Di Tommaso, Sergio Ferrari, Massimo Florio, Francesca Gambarotto, Adriano Giannola, Andrea Ginzburg, Anna Giunta, Claudio Gnesutta, Gian Maria Gros-Pietro, Donato Iacobucci, Sandrine Labory, Pietro Masina, Pietro Modiano, Augusto Ninni, Riccardo Padovani, Daniela Palma, Mario Pianta, Gustavo Piga, Stefano Prezioso, Pietro Rostirolla, Lauretta Rubini, Margherita Russo, Domenico Scalera, Marina Schenkel, Roberto Schiattarella, Grazia Servidio, Alberto Silvani, Stefano Solari, Alessandro Sterlacchini, Gianfranco Viesti, Alberto Zazzaro, Alberto Zuliani.

Per aderire, inviate una Email a Raffaele Brancati r.brancati@met-economia.it
Nell’oggetto scrivere riportando il proprio riferimento di posta elettronica (e se si ritiene anche altri recapiti) e “Aderisco al MANIFESTO PER LA POLITICA INDUSTRIALE”.

Su questi temi – per parlarne e per avviare una definizione di strategie – si terrà un incontro il 10 dicembre 2012 a Roma ore 9,30, Università di Roma 3, Facoltà di Economia “Federico Caffè”, Via Silvio D’Amico 77, Roma.

http://keynesblog.com/2012/11/02/per-un ... i-fiscale/


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 03/11/2012, 1:01

...
Nel paese della banane

In effetti, è una constatazione di senso comune supporre che un individuo che si sia indebitato oltre il limite consentitogli dal proprio reddito debba ridurre i propri consumi e risparmiare di più per ripagare gli interessi e il capitale preso a prestito. Ma non sempre il senso comune equivale al buon senso: in generale, anzi, è sbagliato ritenere che ciò che vale per l'individuo singolo debba valere per la società nel suo complesso. Lo spiegò magistralmente Keynes nel 1930, nel corso di un'audizione al Macmillan Committee, ricorrendo ad un paradosso che né il compianto Sordi, né i corifei del governo, né il governo stesso (per non dire dei suoi mandanti europei) debbono aver compreso.

Supponiamo - disse all'incirca Keynes - che si dia una comunità che possieda solo piantagioni di banane. Il lavoro dei suoi membri consiste solo nel coltivarle: essi producono banane e consumano banane, in una quantità tale da garantire l'equilibrio tra le remunerazioni dei lavoratori occupati e il prezzo delle banane vendute. In questo Eden, viene improvvisamente lanciata una campagna per il risparmio: «Se non diminuiamo il consumo delle banane, ipotecheremo il benessere delle generazioni future», ammoniscono alcuni, e altri di rincalzo: «Stiamo distruggendo la capacità del pianeta di produrre banane, di questo passo non dureremo!». I lavoratori sono tipi un po' bonaccioni e si fidano: il consumo delle banane prenderà quindi a diminuire. Ma siccome sul mercato l'offerta di banane è rimasta nel frattempo invariata, il prezzo di esse scenderà, consentendo ai lavoratori di acquistare esattamente la stessa quantità di banane di prima e per giunta pagandole di meno. A questo punto i lavoratori (e specialmente il loro partito, che è fatto persone altrettanto bonaccione) si convincono che sta andando tutto benissimo: la campagna per il risparmio non solo preserverà le generazioni future e lo stesso pianeta dai rischi di un consumo eccessivo e imprevidente, ma ha pure ridotto il costo della vita: cosa desiderare di meglio?

Sfortunatamente, non siamo ancora alla fine della storia. La diminuzione del prezzo delle banane, infatti, ha causato perdite gravissime agli imprenditori che conducono le piantagioni. Costoro allora cercheranno di rifarsi e allo scopo negozieranno con i sindacati dei lavoratori riduzioni del salario e licenziamenti collettivi. Non riusciranno però a evitare le perdite, perché riducendo le loro spese in salari ridurranno anche i redditi dei lavoratori e la loro possibilità di consumare banane. Il prezzo delle banane scenderà così di nuovo e da capo si avvierà un altro ciclo di perdite, riduzioni dei salari e licenziamenti, fino a quando tutti resteranno senza lavoro, la produzione delle banane si interromperà definitivamente e l'intera popolazione morirà di fame.
...
da
Luigi Cavallaro
Una repubblica fondata sull'ozio

http://www.sinistrainrete.info/componen ... lozio.html

Altro articolo lungo ma molto interessante di Riccardo Bellofiore:

http://www.sinistrainrete.info/crisi-mo ... overe.html

[...]
Monti è parte di un movimento che, mantenendo formalmente il suffragio universale, sta creando le condizioni del ritorno di una democrazia censitaria. E sta dando i colpi definitivi allo smantellamento delle garanzie sul lavoro e del welfare.


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 03/11/2012, 9:21

flaviomob ha scritto:...
Nel paese della banane

In effetti, è una constatazione di senso comune supporre che un individuo che si sia indebitato oltre il limite consentitogli dal proprio reddito debba ridurre i propri consumi e risparmiare di più per ripagare gli interessi e il capitale preso a prestito.

A dire il vero se proprio vogliamo parlare di senso comune, bisogna aggiungere che quell'individuo dovrà anche cominciare a lavorare sodo, per guadagnare di piu'. Non solo tirare la cinghia, ma se lavorava 36 ore forse è meglio lavorare 40 e fare anche qualche ora di straordinario.
flaviomob ha scritto:Supponiamo - disse all'incirca Keynes - che si dia una comunità che possieda solo piantagioni di banane. Il lavoro dei suoi membri consiste solo nel coltivarle: essi producono banane e consumano banane, in una quantità tale da garantire l'equilibrio tra le remunerazioni dei lavoratori occupati e il prezzo delle banane vendute

L'esempio delle banane mi pare c'entri come i cavoli (a merenda) con la situazione attuale. Per prima cosa si profila una situazione idilliaca in perfetto equilibrio, turbata da una campagna di risparmio che non ha alcun motivo apparente di essere lanciata.
La nostra situazione è molto diversa. La piantagione ha debiti pazzeschi, che superano il valore della produzione annua e la comunità paga imposte esagerate anche per pagare gli interessi di quel debito. Le tasse, tra dirette ed indirette sono tali che alla fine del mese al cittadino di cui sopra rimane poco per vivere e risparmiare mentre esiste una casta di bananieri politici che vive con cifre da capogiro in uno stato che si appropria (e sperpera) la metà della ricchezza prodotta. È chiaro che qui si parla oggettivamente di risparmio ma non per i cittadini: per lo stato sprecone e per la casta che fa una vita da nababbi. Ma quei politici spreconi (e la casta che attorno ci vive, giornalisti e certi econonomisti compresi) che vorrebbero anzi maggior spesa pubblica (che è il loro reddito) tirano fuori Keynes per cercare di dimostrare che non si deve risparmiare, anzi si deve spendere di piu'.
Ora bisogna capire se veramente i cittadini sono bonaccioni o se in tutti questi anni qualche cosa hanno imparato.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 03/11/2012, 12:22

Beh caso mai c'entra come le.... banane... a merenda! :lol:


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 07/11/2012, 15:12

http://keynesblog.com/2012/11/07/le-ant ... e-europea/

Le antiche radici dei problemi dell’Unione Europea
Posted by keynesblog on 7 novembre 2012 in Economia, Europa


di Jean-Luc Gaffard e Francesco Saraceno da Il Sole 24 Ore

È difficile non rallegrarsi della decisione presa dalla Bce di acquistare, se necessario, una quantità illimitata di titoli pubblici dei paesi in difficoltà. L’istituto di Francoforte ha assunto la responsabilità, tutta politica, di proteggere dalla speculazione dei Paesi che non avrebbero altrimenti avuto altra scelta che l’abbandono della zona euro, causando l’implosione della moneta unica. Due mesi dopo, i fatti danno ragione a Mario Draghi: con l’eccezione di qualche episodio specifico, il mercato dei titoli sovrani ha smesso di meritare la prima pagina dei giornali europei.


Draghi ha dovuto inserirsi nello spazio lasciato desolatamente vuoto dal potere politico, per evitare che fosse definitivamente occupato dalla speculazione. Quello che preoccupa davvero, nell’annuncio della Bce, è la contropartita domandata ai Paesi che farebbero richiesta dello scudo. Questi dovrebbero non solo mettere in cantiere le riforme strutturali ritenute necessarie dalla troika, ma anche impegnarsi in un ulteriore sforzo di austerità fiscale.

Sarebbe rassicurante poter interpretare l’insistenza di Mario Draghi sulla condizionalità come un realista compromesso politico, volto a strappare il consenso dei Paesi del Nord Europa. In realtà la Bce del presidente italiano si inscrive in una linea di continuità con i suoi predecessori, ed é coerente con le politiche seguite o auspicate dall’unione nel suo complesso fin dagli anni ottanta; politiche influenzate da un’ortodossia macroeconomica che proprio in quegli anni si affermava in risposta alla crisi della teoria keynesiana.

Proviamo a ritracciare questo percorso. Fin dal 1986, l’Atto Unico che organizza e regola il mercato unico viene promulgato senza discussioni sull’armonizzazione fiscale o sociale. Si creano quindi le precondizioni perché si sviluppi una “concorrenza sulle regole” esacerbata in seguito dagli allargamenti e dal conseguente aumento dell’eterogeneità tra i paesi membri. Una guerra economica combattuta da tutti i Paesi europei con alterne fortune.

L’episodio successivo è il trattato di Maastricht, che risponde tra l’altro alla volontà tutta politica di ancorare la Germania appena riunificata alla costruzione europea. La nuova banca centale europea è ispirata dal modello della Bundesbank: indipendenza totale, un mandato strettamente legato alla stabilità dei prezzi, e il divieto di finanziare il deficit di paesi tentati di approfittare della moneta unica per addossare ai partner il costo delle proprie politiche. Insieme ai vincoli imposti su deficit e debito pubblico, e all’enfasi sulle riforme strutturali, questo avrebbe dovuto assicurare la convergenza di economie la cui flessibilità avrebbe consentito di far fronte agli choc asimmetrici.

La crisi ha portato alla luce i vizi strutturali della moneta unica, mostrando anche le difficoltà delle dottrine di politica economica che ne avevano influenzato lo sviluppo. A cosa poteva portare una moneta unica non accompagnata da meccanismi di compensazione federale? Come si poteva immaginare che l’enfasi sul laissez faire non portasse ad una divergenza tra piccoli e grandi paesi, con i primi che meno dipendenti dalla domanda interna erano liberi di puntare sulla concorrenza sociale e fiscale? L’impossibilità di ricorrere al tasso di cambio, e l’assenza di struttura propriamente federale hanno privato gli Stati membri di ogni meccanismo di convergenza macroeconomico. Sembrava ovvio fin dall’inizio che la semplice convergenza delle politiche fiscali non avrebbe potuto compensare le differenze istituzionali, e di organizzazione sociale che erano (e sono) alla base delle divergenze reali.

L’annuncio della Bce si iscrive in questa storia, ormai lunga un quarto di secolo. Non vi è dubbio che l’istituto di Francoforte debba svolgere fino in fondo, come fa ogni altra banca centrale, il proprio ruolo di prestatore d’ultima istanza. Ma per quanto necessario, questo non risolve alla radice la crescente divergenza reale tra le economie europee. Peggio ancora, le condizioni imposte ai Paesi beneficiari finiranno per accrescere le differenze di performance, e nuocere alla crescita della zona nel suo insieme. È rivelatore quanto le condizioni imposte dalla troika assomiglino ai vecchi programmi di aggiustamento strutturale imposti dal Fondo monetario internazionale ai Paesi in via di sviluppo, oggi giustamente screditati. Come non notare il paradosso di un’insistenza quasi fideistica nelle virtù dell’austerità, quando nei circoli accademici e nelle istituzioni stesse che la predicano, come il Fondo monetario internazionale, si accumula evidenza sugli effetti disastrosi delle politiche restrittive? E come non notare la differenza con la Fed americana, che lancia un ulteriore round di quantitative easing per sostenere la crescita senza chiedere contropartite all’aministrazione Obama?

L’Europa sembra ancora una volta incapace di imparare dall’esperienza, propria ed altrui. La Bce ci ha salvato, forse, da un burrone. Ma l’aver evitato il peggio non consente manifestazioni di ottimismo per un continente che, preda dell’ortodossia, sembra condannarsi oggi come ieri a molti anni di stagnazione economica.


Jean-Luc Gaffard e Francesco Saraceno sono docenti presso l’Ofce, centro di ricerca in economia di Sciences-Po a Parigi


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 04/12/2012, 12:43

http://keynesblog.com/2012/12/03/grafic ... inanziari/

Immagine

Il grafico (tratto da Alan M.Taylor, The Great Leveraging, basato sui dati di Reinhart e Rogoff, This time is different) mostra la percentuale delle economie in una crisi finanziaria tra il 1800 e il 2008 (be’ sì il famoso lungo periodo). Tra il 1940 e gli anni 70 (i famosi “30 gloriosi”) nessuna economia avanzata ha vissuto una crisi finanziaria ed anche le economie meno sviluppate sono state sostanzialmente stabili. E’ l’unico periodo nell’intera storia del capitalismo moderno a presentare una stabilità così elevata.

Cosa è successo? In quegli anni, caratterizzati dalla vittoria del keynesismo (sia pure “bastardo” come lo definiva l’allieva di Keynes Joan Robinson), la finanza era strettamente regolata (si pensi al Glass-Steagal Act), tanto che Reinhart e Rogoff hanno parlato di “repressione finanziaria”, e tutte le economie del mondo si rifacevano alle prescrizioni pratiche di Keynes circa la gestione della domanda effettiva.

Dagli anni 70, con la fine del sistema di Bretton Woods, la liberalizzazione dei mercati finanziari e dei commerci internazionali, il progressivo abbandono delle politiche di intervento pubblico, le crisi sono tornate, fino al grande crack di 5 anni fa.

(il grafico è tratto dal blog Naked Keynesianism di Matias Vernengo)


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