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Una lettura keynesiana della crisi

Forum per le discussioni sulle tematiche economiche e produttive italiane, sul mondo del lavoro sulle problematiche tributarie, fiscali, previdenziali, sulle leggi finanziarie dello Stato.

Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 10/10/2012, 22:05

Un vecchio tema... certo, se ci organizzassimo come il Giappone potremmo pagare interessi molto bassi sul debito e ristrutturarlo senza manovre lacrime e sangue... Ma da noi la disorganizzazione e la retorica imperano...

http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/10 ... 29/378021/

Come può il Giappone convivere con un debito al 229%?

Da tempo si legge che questa crisi in corso, accanto a situazioni drammatiche, sta avendo anche altre conseguenza: quella di riportare molti coi piedi per terra, ad aprire gli occhi sui falsi miti del lusso e dell’ostentazione volgare che ci hanno ammorbato per anni, e al contempo il risorgere tra i cittadini di valori come la solidarietà, il risparmio, uno stile di vita più consapevole. E ciò mi ha fatto sorgere una domanda.

L’imperativo che grava sui cosiddetti Pigs, gli Stati dell’Europa meridionale, i più indebitati e con situazioni socio-politiche instabili (e per questo considerati “inaffidabili” sui mercati) è quello di risanare i conti e perseguire il rigore finanziario anche a costo di innescare dinamiche recessive. Ma siamo sicuri che siano davvero i conti la posta in gioco, e non piuttosto la necessità di intervenire sugli stili di vita di determinate popolazioni che sono fuori controllo? In altre parole: è la crisi che sta rendendo più poveri, oppure c’è qualcuno che sta usando la crisi come unico mezzo pacifico per riportarci a una dimensione più umana, o ripristinare quantomeno la decenza?

La domanda vuole essere uno spunto, come sempre mi scuso per la semplificazione. Ma ragionate: noi pensiamo a ragione che l’entità del nostro debito pubblico al 120,1% del Pil sia la causa di ogni male. Ma allora come si spiega il caso del Giappone che convive tranquillamente con un debito del 229 % (!) e sembra lontano dalla crisi e nessuno parla di imminente default? Semplice, perché in un contesto di economia altamente funzionante, quei debiti sono investimenti in grado di garantire stabilità lavoro e ricchezza. Lo yen che gira il mondo poi finirà poi in banche che lo reinvestiranno su titoli pubblici giapponesi, chiudendo il ciclo. Il debito è sostenibile perché all’interno di una dinamica economica virtuosa che grazie alla mediazione bancaria garantisce vantaggi al debitore e al creditore in un’ottica di reciproca fiducia e rispetto delle regole.

Il punto è come noi italiani abbiamo utilizzato quei miliardi che compongono il nostro debito. Li abbiamo buttati nei consumi, nel finanziamento di opere inutili, in operazioni clientelari, nei costi abnormi della politica, nella corruzione e nelle tangenti, sostenendo il lassismo del comparto pubblico, soffocando la meritocrazia. Il denaro circolante a debito ha promosso la parte peggiore del paese (si pensi ai milioni investiti per vent’anni dalle aziende in pubblicità televisive al posto di innovare), e alimentato la cultura degenerata del “tutto è dovuto”, fino alle sfilate di una come Nicole Minetti, per dire.

Il nostro debito è stato in buona parte sprecato, lasciando un’economia fragile, instabilità politica e sociale, incertezza sul futuro dei giovani. I creditori non si fidano più di noi, addirittura gli speculatori hanno pensato (nel momento di maggior rischio, scongiurato dalla caduta di Berlusconi) che avrebbero guadagnato di più scommettendo sul nostro default. Ed è questo il vero fallimento, l’immensa colpa della generazione e della classe politica oggi al potere, che speriamo venga spazzata via.

Alla luce di tutto questo, tornando alla domanda iniziale, a mio avviso dietro all’urgenza di risanamento dei conti è in corso un riassetto culturale profondo, nel quale il “nostro modello” di società, di convivenza e di cultura degli ultimi trenta anni è risultato fallimentare. Le doti tuttavia non ci mancano e la crisi serve proprio per ripartire da zero. Per questo è necessario puntare sui giovani, oserei dire, a prescindere.


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 11/10/2012, 11:16

flaviomob ha scritto:Un vecchio tema... certo, se ci organizzassimo come il Giappone potremmo pagare interessi molto bassi sul debito e ristrutturarlo senza manovre lacrime e sangue... Ma da noi la disorganizzazione e la retorica imperano...

Esportano piu' di quanto importano (noi no), lavorano come dannati con poche ferie e molte ore al giorno. Alta produttività, ed un mucchio di centrali nucleari. Cantano l'inno dell'azienda alla mattina. Gli insegnanti lavorano 49 ore alla settimana e solo 20 giorni di ferie. per 45'000 dollari l'anno. Insomma, un altro pianeta. Se cerchiamo le differenze, cerchiamole tutte.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 11/10/2012, 12:03

Il Giappone è anche il modello Toyota, che ha messo in discussione la catena di montaggio fordista e tutti i sistemi di produzione meno evoluti. Credo che noi avremmo ancora molto da imparare:

http://it.wikipedia.org/wiki/Toyota_Production_System

Il Toyota Production System, detto anche, in alcune pubblicazioni accademiche, Toyotismo, è un metodo di organizzazione della produzione derivato da una filosofia diversa e per alcuni aspetti alternativa alla produzione di massa, ovvero alla produzione in serie e spesso su larga scala basata sulla catena di montaggio di Henry Ford.
Il nome deriva dal fatto che essa è stata inventata negli anni 1940-1950 presso la Toyota, da Sakichi Toyoda, Kiichiro Toyoda, ed in particolare dal giovane ingegnere Taiichi Ohno. Alla base del TPS si trova l'idea di 'fare di più con meno', cioè di utilizzare le (poche) risorse disponibili nel modo più produttivo possibile con l'obiettivo di incrementare drasticamente la produttività della fabbrica. La Toyota, nell'immediato dopo-guerra, si trovava in condizioni gravissime di mancanza di risorse, come peraltro gran parte dell'industria del Giappone, uscito sconfitto e stremato da una guerra devastante.
Esso si basa su 5 principi puntando su un concetto apparentemente semplice: l'eliminazione di ogni tipo di spreco (Muda) che inevitabilmente accompagna ogni fase di un processo produttivo.
Principi:
identificare il valore per il cliente
comprendere il processo di creazione del valore
creare il flusso del valore
far tirare il flusso del valore dal cliente
ricercare la perfezione
...


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda ranvit il 11/10/2012, 16:03

Ieri la Toyota ha deciso di richiamare 7,4 milioni di auto per pericolo d'incendio.....
Il 60% degli italiani si è fatta infinocchiare votando contro il Referendum che pur tra errori vari proponeva un deciso rinnovamento del Paese...continueremo nella palude delle non decisioni, degli intrallazzi, etc etc.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 12/10/2012, 22:20

A me vent'anni fa si incendiò una Fiat Ritmo, e nessuno l'aveva "richiamata"... ;)


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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 16/10/2012, 23:37

La rivincita di Keynes: l’austerità fa aumentare il debito pubblico

http://keynesblog.com/2012/10/16/la-riv ... -pubblico/

di Fabrizio Galimberti da “Il Sole 24 ore” del 14 ottobre 2012

«Le idee degli economisti e dei filosofi della politica, sia quando son giuste che quando son sbagliate, sono più potenti di quanto si creda. In verità, son loro che governano il mondo. Gli uomini di azione, che si credono esenti da ogni influenza intellettuale, son di solito schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, che odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da scribacchini accademici di qualche anno fa…». Dure parole, queste di John Maynard Keynes. Ma son parole che tornano alla mente guardando al dibattito fra sostenitori dell’austerità e i sostenitori della crescita.


Il problema è questo. Quando una crisi economica colpisce un Paese, il suo bilancio pubblico ne soffre. Si tratta di una sofferenza “voluta”, dato che con la crisi si riducono le entrate da una parte, e dall’altra aumentano le spese di sostegno al reddito. Il bilancio pubblico vira così “automaticamente” verso il deficit, e fa da baluardo all’involuzione del ciclo: una tendenza, questa, che si chiama appunto «stabilizzazione automatica». Questa virata verso l’inchiostro rosso dei conti è stata forte negli ultimi anni, che hanno visto la peggior crisi economica dagli anni Trenta. Il supporto all’economia è andato al di là degli automatismi: tutti i Paesi hanno preso anche misure discrezionali di supporto.

Ne sono risultati grossi disavanzi che sono appunto alla radice dell’attuale «crisi da debiti sovrani». Come fare per uscire da deficit e debiti? Le economie sono ancora deboli, e le misure ovvie – aumentare le entrate e diminuire le spese – rischiano di mettere sale sulle ferite della crisi. O no?
A questo punto si apre quel dibattito che avrebbe fatto cascare le braccia a Keynes. C’è – o, per fortuna, c’era – una scuola di pensiero dell’«austerità espansionista» che suona così: riducete il deficit e l’economia ripartirà, perché famiglie e imprese, confortate da queste «coraggiose» misure, ritroveranno fiducia e voglia di spendere: la maggiore spesa privata si sostituirà alla minore spesa pubblica e l’economia, alleggerita e salubre, ritroverà la via della crescita. Questa è stata specialmente la posizione della Germania. «Per i tedeschi l’economia è una branca della filosofia morale»: la battuta di Mario Monti evoca una governante arcigna che intende premiare la buona condotta e punire i cattivi, ignorando quel calcolo delle forze e delle resistenze senza il quale, come scrisse Massimo d’Azeglio, «neppure si fa girare la macina d’un mulino».

Le cose, come sappiamo, non stanno andando così. Nei Paesi dove è stata più forte l’austerità imposta da quella improbabile scuola di pensiero l’economia sta soffrendo di più. La polemica sull’eccesso di austerità si è riaccesa a causa di un capitoletto nell’ultimo World Economic Outlook del Fondo monetario. Il box, di cui è autore lo stesso capo-economista del Fmi, Olivier Blanchard, sostiene che i moltiplicatori fiscali sono stati sottostimati. Cosa vuol dire? Vuol dire che quando si prendono misure restrittive, per ridurre il deficit, mettiamo, di 100, si sa che l’economia ne sarà, in prima battuta, danneggiata, poco o tanto. E questo danno veniva quantificato in genere con un moltiplicatore di 0,5: cioè a dire, una riduzione del deficit di 100 riduceva il Pil di 50. Un sacrificio, dicevano i fan dell’austerità, accettabile se vale a riportare i conti sulla retta via. Ma cosa succede se invece il moltiplicatore è di 1,5? Se una riduzione di 100 del deficit riduce il Pil di 150?
Succede che il bilancio non si risana mai, perché il Pil minore riduce le entrate fiscali e crea disoccupazione, con le conseguenze che già sappiamo. E il Fmi ha appunto calcolato che, col senno di poi, i moltiplicatori fiscali possono essere stimati a livelli fra 0,9 e 1,7!

Tutto questo rappresenta una grande rivendicazione delle teorie keynesiane. Un tempo passate di moda, sono tornate in auge per la forza delle cose. Quando la Grande recessione ha colpito, tutti i Paesi hanno adottato risposte keynesiane: aumento del deficit di bilancio. Quando la casa brucia, è inutile discettare di aspettative razionali e altre digressioni teoriche: bisogna far lavorare gli idranti. E ora che bisognava affrontare la coda velenosa della Grande recessione – la crisi da debiti sovrani – il fallimento dell’austerità fine a se stessa è andato suonando come un’altra affermazione delle teorie keynesiane: ridurre la spesa e aumentare le entrate debilita l’economia, non la rafforza.
Ma anche questa affermazione è vera sempre e in tutti i casi? I sostenitori dell’austerità espansionista hanno sempre torto? Andrew Lo, un economista del Mit, affermò un giorno che «la fisica ha tre leggi che spiegano il 99% dei fenomeni, e l’economia ha 99 leggi che spiegano il 3% dei fenomeni». Per far funzionare l’austerità espansionista ci vorrebbero molte condizioni di contorno: la politica economica dovrebbe irradiare concordia e determinazione, spargere fiducia, comunicare sicurezza, rimuovere incertezza… Se i governanti europei non irradiano, non spargono e non comunicano, sappiamo perché l’austerità non funziona

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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 17/10/2012, 11:19

A questo punto si apre quel dibattito che avrebbe fatto cascare le braccia a Keynes. C’è – o, per fortuna, c’era – una scuola di pensiero dell’«austerità espansionista» che suona così: riducete il deficit e l’economia ripartirà, perché famiglie e imprese, confortate da queste «coraggiose» misure, ritroveranno fiducia e voglia di spendere: la maggiore spesa privata si sostituirà alla minore spesa pubblica e l’economia, alleggerita e salubre, ritroverà la via della crescita

Galimberti, e non solo lui, pare dimenticare che quando Keneys diceva queste cose il debito pubblico degli stati si aggirava attorno al 20%. Oggi non si piu' piu fare altro debito per risolvere il problema del debito, da noi al 120% del PIL. Oltre l'80% di debito su PIL il peso è tale che non c'è crescita e forse se fosse vivo Keney confermerebbe. L'errore di fondo del ragionamento è comunque che tutto sommato l'economia non dipenda dal lavoro ma da quanti soldi girano. Per chi viene dalla sinistra estrema questa "conversione" è allucinante. Posso capire che un commerciante pensi che piu' soldi girano e piu' lui ha possibilità di gudadagnare ma chi è attaccato alla produzione sa che tutto è legato alla produttività. Il resto sono illusioni.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda ranvit il 17/10/2012, 12:43

L'errore di fondo del ragionamento è comunque che tutto sommato l'economia non dipenda dal lavoro ma da quanti soldi girano. Per chi viene dalla sinistra estrema questa "conversione" è allucinante. Posso capire che un commerciante pensi che piu' soldi girano e piu' lui ha possibilità di gudadagnare ma chi è attaccato alla produzione sa che tutto è legato alla produttività. Il resto sono illusioni.


Sono assolutissimamente (alla Formigoni/Crozza :D ) d'accordo. Il guaio è che al momento, in Italia come in tantissimi altri Paesi anche ricchi, c'è il rischio di una tale depressione e probabilmente sollevazione popolare che la cosa andrebbe gestita in un certo lasso di tempo....vedi Grecia.
Il debito pubblico va drasticamente ridotto ma nel tempo!
E temporaneamente potrebbe anche aumentare...perchè l'ottenimento del risultato dovrebbe essere figlio di due "genitori": rigore e crescita :D
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda franz il 17/10/2012, 13:45

ranvit ha scritto:Il debito pubblico va drasticamente ridotto ma nel tempo!
E temporaneamente potrebbe anche aumentare...perchè l'ottenimento del risultato dovrebbe essere figlio di due "genitori": rigore e crescita :D

sulla prima parte, nel tempo, sono d'accordo ma c'è chi non vorrebbe cominciare mai ... :-)
Se guardi alla Svezia (i grafici li ho postati decine di volte e penso non serva farlo ancora) vedi che loro hanno massicciamente ridotto spesa, tasse e debito ed hanno avuto in cambio una crescita sostenuta. Certo che non ci hanno messo due giorni, ... hanno inziato nel 1993-1994 e continuano senza sosta anche oggi. Quindi tutte le manfrine sul fatto che il rigore non produce crescita sono solo il frignare del bambino che fa i capricci ( i politici, che temono l'astinenza da soldi ) fatti per interposta persona (giornalisti al soldo del potere). Sul temporaneamente ... quando saremmo come la svezia al 40% di debito sul PIL, ne riparleremo.
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Re: Una lettura keynesiana della crisi

Messaggioda flaviomob il 18/10/2012, 22:06

Se il rigore significa equità fiscale, riduzione di evasione e corruzione, pratiche virtuose e risparmio legato anche a minore inquinamento (fonti rinnovabili), firmo subito. Se l'Italia non avesse la palla al piede di evasione, corruzione, fondi neri nei paradisi fiscali, il debito pubblico scenderebbe ogni anno considerevolmente.


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