Nel periodo intercorrente tra la Guerra Civile e la Grande Depressione, il laissez-faire rappresentava l’ordine economico dominante. La Depressione, tuttavia, causò un vero e proprio ribaltamento dell’opinione pubblica, giacché venne dipinta come un fallimento del capitalismo.
Molti si convinsero che il libero mercato fosse fondamentalmente instabile e che le autorità di governo dovessero svolgere un ruolo più attivo, intervenendo per correggere l’instabilità del sistema. Questa concezione della storia predomina ancora oggi nell’opinione pubblica e nelle politiche dei governi. La depressione, inoltre, causò una drastica svolta nelle opinioni prevalenti tra gli economisti di professione, che abbandonarono la vecchia convinzione che la politica monetaria rappresentasse un potente strumento di politica economica e abbracciarono la convinzione, quasi diametralmente opposta, secondo la quale “la moneta non conta”.
Gli economisti fecero proprie le nuove teorie di John Maynard Keynes, che offriva una attraente giustificazione al più vasto interventismo pubblico. Secondo Milton Friedman, questa trasformazione dell’opinione pubblica e accademica «derivò da un profondo equivoco su quanto era accaduto (…) la Depressione era stata l’effetto di un fallimento di governo, non di un fallimento della libera impresa». In particolare, la Federal Reserve non si era avvalsa dei propri poteri per arrestare lo scivolamento verso la crisi.
L’evidenza dei fatti è chiara: «la Depressione venne causata – o quanto meno drasticamente aggravata – dalle politiche monetarie controproducenti seguite dalle autorità degli Stati Uniti». L’ironia, spiega Friedman, è che una crisi prodotta da un fallimento del governo ha condotto a decenni di espansione del ruolo del governo stesso.
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