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Del mito per cui le banche italiane sono "sane"...

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La mia banca è differente

Messaggioda Robyn il 15/05/2012, 21:13

Le valutazioni di SP sul sistema bancario italiano non hanno nessun effetto perche le banche italiane sono molto affidabili
L'affidabilità di una banca si riconosce quando a seguito di richiesta di un prestito ti chiede le garanzie sul prestito e cosa ci devi fare con il prestito.Una banca che non ti chiederebbe le garanzie non sarebbe una banca affidabile perchè si esporrebbe al rischio di non poter restituire i risparmi ai suoi risparmiatori ciao robyn
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Re: Del mito per cui le banche italiane sono "sane"...

Messaggioda flaviomob il 16/05/2012, 0:15

Una valutazione leggera leggera...

http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=16260

La mafia delle agenzie di rating, antistato dei Riina's
La tragedia di un sistema marcio. Boss della finanza di avventura che danno le pagelle. Nel nome di chi? Kristal University come per il Trota?

martedì 15 maggio 2012 21:38



di Ennio Remondino

Folle, semplicemente folle. E non a difesa delle banche italiane, sia chiaro. Un po' più di Consob e di Guardia di finanza anche lì non guasterebbe. Folle e inammissibile, clamoroso esempio planetario di "Faccia come il culo" (scusate il linguaggio e la difficoltà di tradizione anglosassone), la decisione di Moody's di tagliare il rating di 26 banche italiane. Si arrabbia persino l'Abi, l'Associazione bancaria italiana che, restando alla mafia immaginaria (ovviamente) le è nemica come i governi Andreotti. "E' un'aggressione all'Italia, alle sue imprese, alle sue famiglie, ai suoi cittadini". Lo afferma in un comunicato, spiegando che "nel condividere le critiche sollevate ieri dal presidente della Consob, Giuseppe Vegas, Abi reitera la richiesta alle autorità europee e alla Banca centrale "affinché tali giudizi non siano passivamente recepiti nella regolamentazione, nelle procedure e nei modelli di valutazione e venga finalmente varata una severa disciplina di controllo nei confronti di questi soggetti".

Ma una volta, forse ancora oggi, per ladri e banditi, non esisteva forse la galera? In Italia sì, ma che cavolo conta l'Italia? Dovrei chiederlo a qualche amico americano. Parliamo ovviamente di "Banditi finanziari", di corsari delle borse, delle speculazioni mirate a far cadere governi e Stati. Certamente generosi sostenitori di qualche campagna presidenziale. Dovrei sentire Barak Obamà, ma lui è sempre tanto impegnato. Ad avvertirlo (ormai il linguaggio è greve), "guarda che ti fottono"! Del resto, l'ultima volta che la mafia vera, almeno per origini, ha eletto un Presidente, risale ormai ai Kennedy. Che c'entra Obama e Romney con l'Italia? C'entrano eccome. Su per Monti stiamo a guerreggiar con tasse e balzelli e quelli, con una sola "analisi" che declassa non si sa come e perché il nostro sistema bancario, ci aumenta il debito di qualche miliardo. E poi ci arrabbiamo con Equitalia! Un po' come pretendere di aver colpito la mafia arrestando lo stalliere Mangano. Committente e datore di lavoro ridono.

Riepilogo -da Globalist- di vecchi racconti su queste misteriche ed esoteriche agenzie di rating. Titolammo allora, «La volpe a guardia del pollaio». Ormai sappiamo che le agenzie di rating che decidono se noi italiani o francesi o spagnoli saremo un po' più o un po' meno poveri sono società private. Imprese con tanto di azionisti interessati a fare utili e non scautistiche buone azioni. La prima per dimensioni e soldi maneggiati è Moody's Corporation, presente in 26 paesi, 4500 dipendenti, controlla il 40 per cento del mercato. Moody's gentilmente dice che forse l'Italia ce la farà. Seconda la Standard & Poor's, che ci ha invece declassato in serie B, col 39 per cento di mercato e quasi 10 mila dipendenti sparsi in 23 paesi. Ambedue le società sono targate stelle e strisce. Infine la Fitch Rating col suo misero 16 per cento di mercato e un azionariato anche francese. Piccoli ma cattivi visto che minacciano di declassarci ancora. Assurdo, lo abbiamo visto nel nostro pezzo precedente, che un ruolo di tale delicatezza sia nelle mani di privati su cui, andiamo a scoprire, pesano molti dubbi.

Il solo dubbio giornalistico è se siamo di fronte ad un gigantesco, planetario "Sistema calcistico Moggi", o se la similitudine, l'esempio più calzante non sia invece quello del "Sistema Riina". Lasciamo a voi decidere se siamo di fronte ad una clamorosa beffa dei Poteri forti o ad una vera e propria azione criminale. Organizzata, ovviamente, e anche molto bene. Roba da Antimafia. Certo è che nello scorrere della storia, almeno sino al '900, per molto meno si scatenavano delle guerre. Guerre vere, con le cannoniere, gli eserciti e migliaia di morti. Oggi, questi eterni ma ripuliti "Signori della guerra" le vittime le fanno in maniera più elegante, meno sanguinolenta, molto più nascosta. Lupara bianca, direbbe Totò Riina, facendo scomparire fabbriche, posti di lavoro, risparmi, pacchetti azionari e capitali del "nemico" di turno, o semplicemente della vittima predestinata, o la valuta da abbattere o il sistema politico o industriale da cancellare.

Esattoria cugini Salvo. Facciamo un esempio per capirci. Partiamo dall'intreccio degli interessi. La materia è ostica ma ci proviamo. Immaginiamo un certo signor A, che si chiama Capital World Investors. Il signor A è il maggiore azionista della maggiore società che dà i voti sulla salute economico-finanziaria in nome del Libero mercato, la Moody's. Chiamiamola società AAA (come amano fare agenzie di rating). Il signor A già vive un piccolo "conflitto di interessi", diremmo noi in Italia. Ma non basta. Sempre il nostro A (sempre Capital ecc.), oltre ad AAA, possiede la maggioranza delle azioni della società B che, a sua volta, controlla la seconda maggiore società "di controllo", detta BBB e che di primo nome fa Standard. Il nostro signor A quindi, non solo possiede il suo presunto controllore AAA, ma anche il suo "concorrente" BBB. Come da titolo, siamo al modello esemplare dei fu cugini Salvo, esattori per lo Stato e imprenditori per la mafia.

Little Italy newyorkese. Scagliati in questo contesto palermitano in piena New York, passiamo dagli esempi ai fatti. Dunque la Capital World Investors possiede il 12,6% della Moody's e, attraverso la McGraw-Hil, colosso delle comunicazioni, dell'editoria e molto altro di cui controlla il 10,26%, è il maggior azionista anche della Standard & Poor's. Quella che ha mandato l'Italia economica in serie B. Ma non penserete che sia finita qui. Altri esempi. Il fondo americano State Street Corporation è il secondo azionista della Standard e il settimo di Moody's. Idem per l'altro fondo USA BlackRock che è l'undicesimo socio di Moody's e il sesto della "concorrente". Ad essere maliziosi sino in fondo e con la voglia di scocciare il lettore, potremmo scoprire che la Black-Rock è controllata dalla banca d'investimento Merril Lynch, quella finita a gambe all'aria assieme ai beni di milioni di persone e comprata-salvata dalla Bank of America. Aiutino di Stato tanto deprecato, a parole.

Altro che Trilateral. Insistendo nello spulciare, si trovano sempre e soltanto gli stessi nomi, gli stessi azionisti che cambiando vestiti da gruppo bancario, o da fondo di investimento, controllano le agenzie di rating che dovrebbero controllare pure loro. Di fatto i grandi fondi Usa sono gli investitori che utilizzano i rating per decidere quali obbligazioni comprare e contemporaneamente sono anche i padroni di quelli che danno le pagelle. E vediamoli alcuni di questi nomi propri, non di società. I più noti sono certamente i Rothschild, banchieri-filantropi-azionisti, esattamente come Warren Buffett e George Soros. Un gruppetto di amici che possono muovere miliardi di miliardi da una parte all'altra del mondo creando la catena ormai nota di "Probema-Reazione-Soluzione". Detta in altro modo, fai esplodere la guerra economica in un certo punto del mondo (a volte non solo economica), per poi ricostruire dopo aver comprato il meglio con tre soldi bucati.

Troppo dietrologico? I nomi li abbiamo fatti, e anche i cognomi. Le partecipazioni azionarie incrociate e gli interessi inconfessabili condivisi. Da cronisti di strada vogliamo tornare a esempi legati a fatti più concreti. Prendiamo i vicini Balcani, per una questione anche personale del narratore. Aneddoto: il grattacielo dell'ex Centralni Komitet della defunta Lega dei comunisti jugoslavi, sventrato dalle bombe Nato-Usa nel 1999. Due anni dopo, viene acquistato da una azienda Usa che lo risana e ne fa il più costoso centro manageriale e commerciale di Belgrado. Oppure il benefattore George Soros, per dire di un attivismo anche politico e "pratico" in alcune promettenti zone di conflitto. La fondazione Soros, assieme all'Usaid, finanzia il movimento di protesta "Otpor" per rovesciare l'indifendibile Milosevic. Poi esporta quei giovani addestrati alle "rivoluzioni arancione" in Georgia e Ucraina. Come il mugnanio di Postdam chiedo: "Ci sarà pure un giudice a Berlino?".


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Re: Del mito per cui le banche italiane sono "sane"...

Messaggioda franz il 16/05/2012, 8:18

Ennio Remondino ha scritto:Folle, semplicemente folle. E non a difesa delle banche italiane, sia chiaro.

Tutto molto suggestivo ma non si capisce se poi alla fine il downrating delle 26 banche italiane (alcune di un punto, altre di due e addirittura tre) sia oggettivo oppure no. Perché è chiaro che se è oggettivo (effettivamente erano sopravalutate) allora il fatto che proprietari delle agenzie siano A, B e C è un fatto a parte che non inflenza il rating. Se invece non è oggettivo allora c'è un evidente problema di qualità della valutazione e si pone il problema dell'abuso di potere (per fini tutti da capire) delle agenzie.

Leggo pero' che il declassamento era annunciato (dal 15 febbraio) ed il sole24ore scrive, sull'esito del declassamento "Nulla che non si sapesse già." Quello che colpisce è il fatto che si declassino cosi' tante banche italiane assieme. Tuttavia per un eventuale investitore italiano o straniero, che dovesse essere in procinto di comprare obbligazioni bancarie, è chiaro che è molto meglio per lui essere avvisato tutto in una volta del rischio paese. Se declassassero la banca A l'investitore potrebbe orientarsi sulla banca B, per scoprire dopo un mese che viene declassata anche lei. Quindi vengono declassate tutti insieme. Naturalmente dovremmo chiederci se è meglio difendere gli interessi di 26 banche oppure quello di milioni di investitori, soprattutto quelli che investono nel lungo periodo (il declassamento è sul rischio a 10 anni). Il fatto che i politici si siano imbestialiti (vedi il sorprendente casini) ci fa capire quali legami ci sono tra ambienti bancari e mondo della politica.

Allora il problema si sposta sul declassamento nazionale. Un po' di nazionalismo non guasta mai. Perché le banche italiane e non quelle spagnole, che sono piu' in difficoltà? In parte perché il declassamento è già avvenuto (ma da noi non ci sono stati clamori), in parte l'operazione è sempre in corso. Anche per l'Italia l'indagine è stata annunciata il 15 febbraio e poi l'esito il 14 maggio. Quindi un investitore sa che un sistema è sotto indagine per essere riclassificato. Tutta l'europa (nazioni, banche, imprese) è sotto stress e questa è la pagina di moody's che elenca tutte le azioni di controllo e classificazione del rating per l'europa: http://www.moodys.com/newsandevents/top ... /global/rr Ci sono quasi 400 azioni, che riguardano anche altri paesi come spagna, portogallo, grecia (anche alcune bache tedesche, vedo).

Documentazione ufficliale sulla decisione sulle 26 banche italiane: http://www.moodys.com/researchdocumentc ... PBC_141195
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Re: Del mito per cui le banche italiane sono "sane"...

Messaggioda trilogy il 16/05/2012, 9:06

Strillare al complotto quando si parla di agenzie di rating non serve a nulla. Il potere, con la P maiuscola, alle agenzie di rating non l'ha dato il mercato finanziario l'ha dato il legislatore infilando i rating in una fila di regolamenti, norme, statuti ecc. Quindi in primo luogo le responsabilità e le complicità vanno cercate in quell'ambito.
"Abi reitera la richiesta alle autorità europee e alla Banca centrale affinchè tali giudizi non siano passivamente recepiti nella regolamentazione" .... Ora si accorgono del problema? Ad esempio Per la Bei non tenere conto del rating nell'accordare finanziamenti ad una banca italiana e nono sarebbe una violazione normativa, di cui dovrebbero rispondere davanti ai giudici. Geniale....In realtà, a parte effetti di breve termine, sui mercati quando fanno i prezzi, valutano autonomamente quando e se tenere conto di un rating. Sono molto frequenti i casi in cui le agenzie dicono una cosa e i prezzi di mercato vanno in direzione opposta. Ma se per alcuni grandi investitori, la reazione ad un certo rating è obbligo di legge, non c'è storia.

Secondo aspetto in italia ci stiamo distruggendo con le nostre mani, le agenzie sono un dettaglio. Se si vuole contestare il rating bisogna farlo contestando nel merito tecnico l'analisi che viene fatta, gridare ai complotti come fanno Casini e Vegas è solo populismo.
Prendiamo Monte Paschi, con un quadro simile se fossimo un agenzia di rating gli alzeremmo la valutazione?

[..]l’ad Fabrizio Viola e il presidente Alessandro Profumo stanno ingaggiando una corsa contro il tempo per arrivare a rispettare, entro giugno, gli stringenti parametri patrimoniali fissati dall’Eba. Per Mps si tratta di 3,23 miliardi, di cui solo metà già trovati. E ormai non c’è più spazio per le speranze di un’attenuazione del rigore.Bisogna trovare questi soldi e basta. Non ci voleva davvero quest’ennesima tegola caduta sulla testa della banca di Siena.La Guardia di Finanza, con uno spiegamento senza precedenti di 147 uomini e 38 perquisizioni,persino nelle ovattate sale di Rocca Salimbeni, ha gettato un’ombra sull’istituto. Senza contare l’antipasto servito dalla trasmissione di Milena Gabanelli domenica della scorsa settimana, con il “Monte dei Fiaschi”. [..]
fonte: http://www.repubblica.it/economia/affar ... -35092207/

Terzo aspetto, la crisi Greca. Lunedì il rapporto di JPM stimava le perdite che deriverebbero dal collasso greco in 400 miliardi di euro, con pesanti effetti di contagio su Italia, Spagna.
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Re: Del mito per cui le banche italiane sono "sane"...

Messaggioda Robyn il 16/05/2012, 12:09

Per me l'economia finanziarizzata và regolata tutta e và restituita una vita protagonista all'economia reale.Gli Usa già si muovono in questa direzione e bisognerà aspettare il momento giusto perche la speculazione è molto pericolosa per la democrazia e il benessere dei popoli europei.Per quando riguarda l'Italia e l'Europa al quale siamo legati,vanno rimessi in ordine tutti i fondamentali,o per lo meno avere un disegno organico di riordino di medio lungo periodo
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Re: Del mito per cui le banche italiane sono "sane"...

Messaggioda flaviomob il 16/05/2012, 13:21

Il collasso greco si poteva evitare con molto meno:

La preghiera di Aiace
di BARBARA SPINELLI

CI ABITUIAMO talmente presto ai luoghi comuni che non ne vediamo più le perversità, e li ripetiamo macchinalmente quasi fossero verità inconfutabili: la loro funzione, del resto, è di metterti in riga. Il pericolo di divenire come la Grecia, per esempio: è una parola d'ordine ormai, e ci trasforma tutti in storditi spettatori di un rito penitenziale, dove s'uccide il capro per il bene collettivo. Il diverso, il difforme, non ha spazio nella nostra pòlis, e se le nuove elezioni che sono state convocate non produrranno la maggioranza voluta dai partner, il destino ellenico è segnato.

Lo sguardo di chi pronuncia la terribile minaccia azzittisce ogni obiezione, divide il mondo fra Noi e Loro. Quante volte abbiamo sentito i governanti insinuare, tenebrosi: "Non vorrai, vero?, far la fine della Grecia"? La copertina del settimanale Spiegel condensa il rito castigatore in un'immagine, ed ecco il Partenone sgretolarsi, ecco Atene invitata a scomparire dalla nostra vista invece di divenire nostro comune problema, da risolvere insieme come accade nelle vere pòlis.
L'espulsione dall'eurozona non è ammessa dai Trattati ma può essere surrettiziamente intimata, facilitata. In realtà Atene già è caduta nella zona crepuscolare della non-Europa, già è lupo mannaro usato per spaventare i bambini. Chi ha visto la serie Twilight zone conosce l'incipit: "C'è una quinta dimensione oltre a quelle che l'uomo già conosce. È senza limiti come l'infinito
e senza tempo come l'eternità. È la regione intermedia tra la luce e l'oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l'oscuro baratro dell'ignoto e le vette luminose del sapere". Lì sta la Grecia: lontana dalle vette luminose dell'eurozona, usata come clava contro altri.

L'editorialista di Kathimerini, Alexis Papahelas, ha detto prima delle elezioni: "Ci trasformeranno in capro espiatorio. Angela Merkel potrebbe punire la Grecia per meglio convincere il suo popolo ad aiutare paesi come Italia o Spagna". Il tracollo greco è "un'opportunità d'oro" per Berlino e la Bundesbank, secondo l'economista Yanis Varoufakis: nell'incontro di oggi tra la Merkel e Hollande, l'insolvenza delle Periferie europee (Grecia, e domani Spagna, Italia) "sarà usata per imporre a Parigi le idee tedesche su come debba funzionare il mondo". Agitare lo spauracchio ellenico è tanto più indispensabile, dopo la disfatta democristiana in Nord Reno-Westfalia e il trionfo di socialdemocratici e Verdi, pericolosamente vicini a Hollande. La speranza è che Berlino intuisca che la sua non è leadership, ma paura di cambiare paradigmi.

Può darsi che la secessione greca sia inevitabile, come recita l'articolo di fede, ma che almeno sia fatta luce sui motivi reali: se c'è ineluttabilità non è perché il salvataggio sia troppo costoso, ma perché la democrazia è entrata in conflitto con le strategie che hanno preteso di salvare il paese. Nel voto del 6 maggio, la maggioranza ha rigettato la medicina dell'austerità che il Paese sta ingerendo da due anni, senza alcun successo ma anzi precipitando in una recessione funesta per la democrazia: una recessione che ricorda Weimar, con golpe militari all'orizzonte. Costretti a rivotare in mancanza di accordo fra partiti, gli elettori dilateranno il rifiuto e daranno ancora più voti alla sinistra radicale, il Syriza di Alexis Tsipras. Anche qui, i luoghi comuni proliferano: Syriza è forza maligna, contraria all'austerità e all'Unione, e Tsipras è dipinto come l'antieuropeista per eccellenza.

La realtà è ben diversa, per chi voglia vederla alla luce. Tsipras non vuole uscire dall'Euro, né dall'Unione. Chiede un'altra Europa, esattamente come Hollande. Sa che l'80 per cento dei greci vuol restare nella moneta unica, ma non così: non con politici nazionali ed europei che li hanno impoveriti ignorando le vere radici del male: la corruzione dei partiti dominanti, lo Stato e il servizio pubblico servi della politica, i ricchi risparmiati. Tsipras è la risposta a questi mali - l'Italia li conosce - e tuttavia nessuno vuol scottarsi interloquendo con lui. Neanche Hollande ha voluto incontrare il leader di Syriza, accorso a Parigi subito dopo il voto. E avete mai sentito le sinistre europee, che la solidarietà dicono d'averla nel sangue, solidarizzare con George Papandreou quando sostenne che solo europeizzando la crisi greca si sarebbe trovata la soluzione? Chi prese sul serio le parole che disse in dicembre ai Verdi tedeschi, dopo le dimissioni da Primo ministro? "Quello di cui abbiamo bisogno è di comunitarizzare il nostro debito, e anche i nostri investimenti: introducendo una tassa europea sulle transazioni finanziarie, e sulle energie che emettono biossido di carbonio. E abbiamo bisogno di eurobond per stimolare investimenti comuni". L'idea che espose resta ancor oggi la via aurea per uscire dalla crisi: "Agli Stati nazionali il rigore, all'Europa le necessarie politiche di crescita".

La parole di Papandreou, ascoltate solo dai Verdi, caddero nel vuoto: quasi fosse vergognoso oggi ascoltare un Greco. Quasi fosse senza conseguenze, l'ebete disinvoltura con cui vien tramutato in reietto il Paese dove la democrazia fu inaugurata, e le sue tragiche degenerazioni spietatamente analizzate. Sono le degenerazioni odierne: l'oligarchia, il regno dei mercati che è la plutocrazia, la libertà quando sprezza legge e giustizia. Naturalmente le filiazioni dall'antichità son sempre bastarde. Anche la nostra filiazione da Roma lo è. Ma se avessimo un po' di memoria capiremmo meglio l'animo greco. Capiremmo lo scrittore Nikos Dimou, quando nei suoi aforismi parla della sfortuna di esser greco: "Il popolo greco sente il peso terribile della propria eredità. Ha capito il livello sovrumano di perfezione cui son giunte le parole e le forme degli antichi. Questo ci schiaccia: più siamo fieri dei nostri antenati (senza conoscerli) più siamo inquieti per noi stessi". Ecco cos'è, il Greco: "un momento strano, insensato, tragico nella storia dell'umanità". Chi sproloquia di radici cristiane d'Europa dimentica le radici greche, e l'entusiasmo con cui Atene, finita la dittatura dei colonnelli nel 1974, fu accolta in Europa come paese simbolicamente cruciale.

Il non-detto dei nostri governanti è che la cacciata di Atene non sarà solo il frutto d'un suo fallimento. Sarà un fallimento d'Europa, una brutta storia di volontaria impotenza. Sarà interpretato comunque così. Non abbiamo saputo combinare le necessità economiche con quelle della democrazia. Non siamo stati capaci, radunando intelligenze e risorse, di sormontare la prima esemplare rovina dei vecchi Stati nazione. L'Europa non ha fatto blocco come fece il ministro del Tesoro Hamilton dopo la guerra d'indipendenza americana, quando decretò che il governo centrale avrebbe assunto i debiti dei singoli Stati, unendoli in una Federazione forte. Non ha fatto della Grecia un caso europeo. Non ha visto il nesso tra crisi dell'economia, della democrazia, delle nazioni, della politica. Per anni ha corteggiato un establishment greco corrotto (lo stesso ha fatto con Berlusconi), e ora è tutta stupefatta davanti a un popolo che rigetta i responsabili del disastro.
Le difficoltà greche sono state affrontate con quello che ci distrugge: con il ritorno alle finte sovranità assolute degli Stati nazione. È un modo per cadere tutti assieme fuori dall'Europa immaginata nel dopoguerra. Ci farà male, questa divaricazione creatasi fra Unione e democrazia, fra Noi e Loro. La loro morte sarebbe un po' la nostra, ma è un morire cui manca il conosci te stesso che Atene ci ha insegnato. Non è la morte greca che Aiace Telamonio invoca nell'Iliade: "Una nebbia nera ci avvolge tutti, uomini e cavalli. Libera i figli degli Achei da questo buio, padre Zeus, rendi agli occhi il vedere, e se li vuoi spenti, spegnili nella luce almeno".

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Abbiamo una banca!

Messaggioda flaviomob il 17/05/2012, 9:49

Palombella rossa

2:04 pm in News da rita castellani

Siena, Monte dei Paschi, 9 maggio 2012: la magistratura decide che è giunta l’ora di acquisire gli atti della controversa acquisizione di Antonveneta da parte del gruppo bancario di Siena, avvenuta nel 2007, e che lo avrebbe indotto a comportamenti poco trasparenti fino ad oggi, al fine di mascherare le difficoltà finanziarie. Seguono spettacolari perquisizioni della Guardia di Finanza. Diciamo che la magistratura si è presa un congruo tempo di riflessione.

Milano, Holding Imco e Sinergia della famiglia Ligresti, 16 aprile 2012: la procura chiede il fallimento delle holding. Nel pomeriggio dello stesso giorno si sarebbero dovute tenere le riunioni dei CdA di Premafin, Fonsai e Assicurazioni Milano, tutte controllate dalle holding dei Ligresti, per l’assenso finale all’acquisizione dell’intero gruppo da parte di Unipol, che sarebbe così diventato il primo operatore nazionale nel ramo vita. Naturalmente l’avvio della procedura fallimentare blocca la vendita. Diciamo che la magistratura è stata particolarmente tempestiva.

Unipol e Monte dei Paschi sono considerate le cassaforti “rosse”, con qualche approssimazione, ma anche buoni fondamenti di verità: la solidità finanziaria del gruppo Unipol (Assicurazioni, Banca) poggia sul sistema delle cooperative, a partire da quelle dell’Emilia Romagna; Monte dei Paschi è il terzo gruppo bancario italiano e mantiene una stretta relazione con il principale partito di sinistra (prima Pci, poi Pds, poi Ds, ora Pd), anche formalmente attraverso le rappresentanze istituzionali del territorio senese negli organismi di governance di banca e fondazione .

Prima di scandalizzarci troppo di queste relazioni, forse non proprio “di mercato”, dobbiamo ricordarci di come era (ed è) strutturato il controllo del capitale finanziario privato nazionale. Si è a lungo parlato di “capitalismo familistico”, per indicarne l’organizzazione per famiglie, appunto, legate tra loro da vincoli di interessi e, a volte, anche di parentela. Famiglie per bene che, quando, dovevano comporre qualche screzio o andare incontro alle difficoltà di qualche componente, non andavano a farlo sulla pubblica piazza, per esempio della Borsa Valori, ma si incontravano discretamente nel loro “salotto buono”, come lo chiamava Scalfari: Mediobanca, a un tempo finanziatore e camera di compensazione di scambi e passaggi di proprietà, all’insegna della massima discrezione. Oggi diremmo: totale assenza di trasparenza.

In questo contesto, i legami con la politica, quella importante che controllava prima il capitale pubblico e, poi, il sistema di regolazioni e di incentivi, erano anch’essi tanto discreti quanto scontati.

I “rossi” erano fuori: dal governo e, quindi, dal salotto buono. Qualcuno deve aver pensato, ad un certo punto, che, riuscendo ad entrare nel salotto buono sarebbe stato più facile andare al governo.

Ma, intanto, arrivava l’euro, e la globalizzazione. E, soprattutto, Berlusconi al governo: uno che di salotti buoni ne aveva frequentati pochi, ma era abbastanza furbo da capire che i suoi personali spazi di manovra sarebbero aumentati, se avesse garantito quelli degli altri. E quindi, mentre si gridava alla liberalizzazione (sempre e soprattutto del mercato del lavoro), sul mercato dei capitali le cose cambiavano solo il minimo indispensabile a mettersi in regola con le nuove esigenze di capitalizzazione degli istituti finanziari, dopo l’ingresso nell’euro. Qualche volta, poi, si provava anche a farne a meno, come appunto nella vicenda dei tentativi di acquisizione di Antonveneta: addirittura con l’avallo della Banca d’Italia del Governatore Fazio (in questi giorni sotto processo, per la vicenda), da parte della Popolare Italiana di Fiorani (ma c’era dentro, se pure marginalmente, anche Unipol) ; e poi proprio da parte di Monte dei Paschi, attraverso il Banco di Bilbao, garantendo a quest’ultimo una plusvalenza di oltre 3 miliardi (qui tutta la storia, con qualche indicazione più precisa sui “rossi” di riferimento di Mps).

Ora la magistratura vuole sapere da dove venissero tutti quei soldi e come ha fatto Mps a sostenere il titolo, che ha più volte, da allora, rischiato di crollare in Borsa. E lo vuole sapere prima di tutto da Mussari, già presidente di Banca e Fondazione, e ora nientemeno che a capo dell’Abi (Associazione delle Banche Italiane), dopo aver graziosamente ceduto la guida di Mps ad Alessandro Profumo. Con il parimenti grazioso patronato di Mediobanca, manco a dirlo, che dal novembre 2011 ha acquisito l’1,9 per cento della Fondazione a compensazione dei crediti vantati; mentre Mps ha messo in vendita anche la partecipazione che aveva proprio in Mediobanca.

Insomma, i “rossi” di Mps hanno fallito l’obiettivo, e per di più, incalzati dai debiti, hanno dovuto anche cedere il plurisecolare controllo della Banca da parte della Fondazione. E ora si parla di contratto di solidarietà per i 31.000 dipendenti.

Il Governatore Fazio provò a farsi mallevadore dell’ingresso nel famoso salotto anche di Unipol, quando questa, nel 2005, forte della partecipazione paritaria in Bnl Vita, lanciò l’Opa per l’acquisizione maggioritaria della Banca Nazionale del Lavoro. E’ questa l’operazione che portò l’incauto Fassino, allora Segretario nazionale dei Ds, a chiedere all’Ad di Unipol Consorte, che, incauto anche lui, lo stava informando telefonicamente: “Ma allora adesso abbiamo una banca?”

Nel frattempo, però, soprattutto per via di Antonveneta, Fazio cade in disgrazia e si dimette il 19 dicembre del 2005. Il 10 gennaio 2006 la Banca d’Italia, dopo cinque mesi di istruttoria, comunica a Unipol che non ha riscontrato i requisiti prudenziali di patrimonializzazione che possano consentire l’acquisizione di Bnl. Il 16 gennaio diventa Governatore di Banca d’Italia Mario Draghi, mentre Bnl finisce poi nelle capaci braccia di Bnp- Paribas.

All’Unipol hanno imparato la lezione. Non si entra nel salotto buono senza il permesso dei padroni di casa. E così quando Mediobanca, all’inizio del 2012, preoccupata delle precarissime condizioni del Gruppo Ligresti, verso cui è pesantemente esposta, cercando un compratore si rivolge proprio a loro, quelli di Unipol, nella persona del presidente Stefanini e dell’Ad Cimbri, non stanno nella pelle. Oltretutto, con l’acquisizione di Fonsai e Milano Assicurazioni, Unipol diventerebbe il primo gruppo assicurativo nazionale nel ramo vita: e non li coglie neanche il sospetto che la cosa possa contrastare con quel minimo di concorrenza che l’Antitrust cerca di mantenere nel settore. A scanso di equivoci, tuttavia, il 2 maggio Cimbri incontra la Commissione e si dichiara disponibile a fornire qualunque garanzia venga richiesta, purché si possa procedere rapidamente

Lo stesso giorno, le banche creditrici delle holding di Ligresti si dichiarano disponibili a partecipare alla ristrutturazione del debito e chiedono tempo al Tribunale fallimentare di Milano, che lo concede: fino al 13 giugno. Ora che sanno c’è chi è determinato a pagare i debiti di Ligresti, le banche non hanno fretta di farlo fallire; anche se, intanto, si apprende che si è fatto pagare 40 milioni di euro da Fonsai e Milano Assicurazioni per consulenze rese tra tra il 2003 3 il 2010, mentre sua figlia Jonella si faceva sponsorizzare un cavallo per 4,8 milioni di euro. Ma, soprattutto, il capofamiglia è sospettato di aggiotaggio, per aver artificiosamente sostenuto il valore del titolo della controllata di famiglia Premafin (intanto che trattava sul prezzo per venderla a Unipol) attraverso l’intervento in borsa di sue società offshore.

Ma che bello spettacolo, no? Questo deve aver pensato Matteo Arpe, giovane Ad di Sator Finanziaria, uno che Mediobanca la conosce bene, avendoci lavorato dodici anni; come la conosce, sempre per averci lavorato, Giorgio Drago, Ad di Palladio Finanziaria, “la cassaforte delle ricche famiglie del Nord Est”, e poi “anche delle ricche famiglie del bresciano”. E così i due insistono per presentare un’offerta anche loro per Fonsai, ma alla luce del sole, piuttosto che nei salotti antichi e polverosi: offrono 800 milioni di ricapitalizzazione, di cui, sia chiaro, neanche un centesimo andrà nelle tasche della famiglia Ligresti, a cui, se mai, si offre di restare in partecipazione. L’offerta viene ribadita ufficialmente il 9 maggio, mentre Unipol attende dalla Consob il via libera all’acquisizione senza presentazione di Opa (cioè, Offerta Pubblica di Acquisto). L’Opa, infatti, lascerebbe aperta una possibilità di partecipazione a concorrenti che, come abbiamo visto, ci sono e sono pronti; l’esenzione, tuttavia, sarà concessa solo se la Consob riterrà congrua l’offerta di Unipol. Il pronunciamento della Consob è atteso per la metà di maggio.

Dunque, gli ostacoli in campo per Unipol sono ancora pesanti. Vediamoli in ordine cronologico:

1) il pronunciamento della Consob;

2) l’eventuale ricorso di Sator e Palladio, nel caso la Consob si pronunciasse a favore dell’esenzione dall’Opa;

3) le decisioni del giudice fallimentare sul piano di ristrutturazione delle banche per Imco e Sinergia;

4) le implicazioni penali sul comportamento dei Ligresti, che potrebbe comunque bloccare tutto quello che possiedono.

Tutto questo in un quadro politico-istituzionale in cui le recenti elezioni amministrative hanno fortemente indebolito tutti i possibili riferimenti per una trattativa, diciamo così, di supporto.

L’impressione è che questi “rossi” continuino a non essere graditi in certi ambienti, anche se si presentano con il portafoglio in mano. E che, se mai riescono a varcare la soglia di casa, sono destinati a fermarsi all’anticucina.

Qual è la morale di queste storie, peraltro non ancora concluse?

Che sarebbe stato meglio occuparsi prima delle regole e provvedere, quando si sarebbe potuto e dovuto, a introdurre elementi di concorrenza vera nel mercato finanziario italiano, tagliando privilegi, anche fiscali, e colpendo duramente cartelli e patti di sindacato, taciti o espliciti che fossero.

Che continuare a fare patti sottobanco non aiuta questo paese a cambiare e a mettersi al passo con la modernità e, soprattutto, con le aspirazioni di tanti giovani che vorrebbero esprimere la loro professionalità, continuando a viverci. Ma non possono, perché tutto è chiuso in un cerchio di famiglie, poche e sempre più ricche, il cui interesse a non far circolare il capitale è accuratamente salvaguardato, anche da un sistema fiscale che premia patrimonio e rendite e punisce il profitto d’impresa come i redditi da lavoro.

Che è ora di svegliarsi, e di pensare al Paese, invece che a farsi amici “i potenti”, o il Paese deciderà a modo suo, avendo cominciato a capire che, in ogni caso, continuando per questa strada, si rischia di andare a finire sempre peggio. E questo “peggio” non si può più sopportare.

http://www.prossimaitalia.it/news/2710/ ... lla-rossa/


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Re: Del mito per cui le banche italiane sono "sane"...

Messaggioda trilogy il 17/05/2012, 13:08

Fitch: con Basilea III 29 banche globali dovranno trovare altri 566 miliardi di dollari
Alle 29 maggiori banche globali mancheranno 566 miliardi di dollari in azioni comuni per soddisfare i requisiti di Basilea III entro la fine del 2018. Lo dice un report di Fitch. Secondo l'agenzia di rating Usa gli istituti di credito dovranno affrontare strategie per trovare i fondi necessari a prevenire perdite di capitali dovute a calo di utili e riduzione dell'esposizione a titoli più rischiosi secondo i parametri di Basilea.

finanza.com

e fu un crollo generale....
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Re: Del mito per cui le banche italiane sono "sane"...

Messaggioda franz il 17/05/2012, 23:31

franz ha scritto:Allora il problema si sposta sul declassamento nazionale. Un po' di nazionalismo non guasta mai. Perché le banche italiane e non quelle spagnole, che sono piu' in difficoltà?

Ecco anche il turno delle banche spagnole.
Declassate da Moody's 16 banche spagnole
Mentre arrivano brutte notizie anche per la Madrid: l'agenzia internazionale Moody's ha tagliato il rating di 16 banche spagnole e di Santander UK, divisione del Banco Santander. E le prospettive sono negative.
E Fitch ha tagliato il rating della Grecia a 'CCC' 1, un gradino sopra il livello 'D' che indica default, dal precedente 'B-'. "Il downgrade riflette il rischio, esacerbato, che la Grecia possa non essere più in grado di sostenere la sua presenza nell'Unione economica e monetaria".
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Jens Weidmann : "Croire que les eurobonds résoudront la crie

Messaggioda franz il 28/05/2012, 20:53

Jens Weidmann : "Croire que les eurobonds résoudront la crise est une illusion"

Le Monde.fr | 25.05.2012 à 12h54 • Mis à jour le 25.05.2012 à 12h54

A 44 ans, Jens Weidmann préside la Bundesbank, une institution très respectée outre-Rhin, gardienne de l'orthodoxie monétaire.

Jens Weidmann, 44 ans, préside la Bundesbank, la banque centrale allemande. A la tête d'une institution éminemment respectée outre-Rhin, gardienne de l'orthodoxie monétaire, ce membre-clé du conseil de la Banque centrale européenne (BCE) livre sa vision de la crise de la zone euro.

L'Europe discute de plus en plus d'une relance de la croissance. Ce débat est-il justifié ?

La croissance est toujours une bonne chose. Mais être favorable à la croissance, c'est comme être partisan de la paix dans le monde. Le vrai débat, c'est quel chemin pour une croissance durable ? La croissance a toujours été un pilier des programmes d'ajustement européens et passe par des réformes structurelles. Un feu de paille conjoncturel en s'endettant ne mène pas à la croissance souhaitée. En fait, je m'interroge sur ce que cachent ces discussions. Veut-on dévier de ce qui a été décidé ? Dans ce cas, ce serait dangereux.

Paris et Bruxelles poussent à la création de "project bonds", ces obligations européennes pour financer des infrastructures. Qu'en pensez-vous ?

Une communautarisation de dettes n'est pas l'outil adapté pour favoriser la croissance : cela poserait des problèmes tant légaux qu'économiques. Je ne crois pas qu'on aura du succès en essayant de résoudre la crise de la dette avec encore plus de dette en dehors des budgets réguliers. Encore une fois, la croissance passe par des réformes structurelles.

Ce débat m'irrite un peu. Chaque mois, des idées géniales surgissent pour contrer la crise, avant de disparaître le mois d'après. En ce moment, ce sont les project bonds... Outre les problèmes de financement, je ne suis pas sûr que ce soit avant tout un manque d'infrastructures qui freine la croissance dans ces pays. Je n'ai pas encore vu d'analyse sérieuse à ce sujet...

Ce serait une relance de type keynésienne ?

Il serait plus honnête d'aborder la question sous ce terme. Mais une relance keynésienne est-elle une réponse adéquate ? A part un manque de compétitivité dans certains pays, le principal problème des pays européens reste l'endettement des Etats et il ne faut pas se lancer dans un nouveau cycle de dépenses publiques. Les pays doivent d'abord regagner la confiance des marchés, retrouver de la crédibilité : il doivent mettre en œuvre les réformes annoncées et non les retarder sans cesse.

C'est donc un non définitif à toute forme d'euro-obligations, ces emprunts émis au niveau européen et pas national ?

Croire que les eurobonds résoudront la crise actuelle est une illusion. Ce ne peut être que l'aboutissement d'un processus long, qui nécessite entre autres de changer la constitution dans plusieurs Etats, de modifier les traités, d'avoir davantage d'union budgétaire... On ne confie pas sa carte de crédit à quelqu'un si on n'a pas la possibilité de contrôler ses dépenses.

La communautarisation de la dette n'est qu'un élément possible de la face d'une médaille dont l'autre côté serait le fédéralisme. Les gouvernements qui y sont favorables négligent ce débat. Même dans les pays où les gouvernements réclament les eurobonds, comme en France, je ne constate ni débat public ni soutien de la population au transfert de souveraineté devant l'accompagner. Mais c'est justement ce débat qu'il nous faut avoir.

Peut-on sortir de la crise de l'euro sans saut fédéral ?

Depuis l'automne 2011, nous réclamons, à la Bundesbank, un cadre concluant et davantage de clarté sur l'avenir de l'union et de l'intégration européenne. Nous avons nous-mêmes esquissé deux chemins possibles.

Mais y a-t-il une véritable volonté politique de franchir ce pas du fédéralisme ? Ma conviction est qu'une telle clarté nous aiderait. Les investisseurs ne sont pas seulement inquiets de la situation de tel ou tel pays, mais aussi du fonctionnement de la zone euro dans son ensemble.

Vous avez parlé de regagner la confiance des marchés, mais que faire pour regagner celle des populations ?

Il n'y a pas de solution facile, il faut trouver l'équilibre entre les nécessités économiques et les limites politiques. Ici on ne doit pas seulement penser aux pays qui reçoivent de l'aide, mais aussi aux pays qui en donnent. Les ajustements dans les pays sous programme sont nécessaires : ils peuvent être durs, mais ils permettent ensuite de se relever, de ne pas dépendre infiniment des autres... Dans le cadre présent, nous ne devons pas entrer dans un processus d'union de transfert, où les dettes d'un pays seraient payées par les autres.

Notre rôle à nous, les banques centrales, est de garantir la stabilité des prix dans la zone euro. Je suis convaincu que l'avenir de l'euro est fondamentalement lié au soutien de la population et que ce soutien dépend de la confiance des Européens dans la stabilité de leur monnaie.

L'euro ne fait-il pas partie du problème, empêchant par exemple la Grèce de dévaluer ?

Les crises des pays périphériques n'ont pas de lien direct avec l'euro, mais découlent d'importants problèmes structurels, anciens et non traités. La dévaluation, c'est un "quick fix", un dopant à effets éphémères, qui ne résout pas les problèmes structurels. On l'a vu dans le passé qu'une dévaluation ne guérit pas durablement les maux d'une économie.

La crise grecque menace-t-elle l'existence même de l'euro ?

La gestion de cette crise influence fondamentalement l'avenir de l'union économique et monétaire. Nous allons voir si les accords sur lesquels repose la solidarité des autres pays sont respectés. Le cas échéant, l'aide devrait être arrêtée.

Sinon, les accords n'auraient plus de crédibilité, car nous ferions des transferts non conditionnés. Nous avons un accord avec la Grèce qui prévoit des ajustements en échange de l'aide financière. J'attends que ce programme soit respecté. La décision dépend maintenant des Grecs.

Envisagez-vous et vous préparez-vous à une sortie de la Grèce de la zone euro ?

Cette question m'est très souvent posée. J'ai pour principe de ne jamais y répondre.

L'Allemagne est-elle un modèle pour les autres pays de la zone euro ? Ou au contraire un contre-modèle, comme l'affirment les Prix Nobel d'économie Paul Krugman et Josef Stiglitz, pour qui les excédents commerciaux allemands sont à l'origine des problèmes de ses voisins ?


Il serait simpliste d'ériger l'Allemagne en modèle, mais on peut apprendre les uns des autres. La réunification allemande avait révélé des faiblesses de l'économie et l'Allemagne a été perçue comme l'homme malade de l'Europe. Cela a conduit à un long et douloureux processus d'ajustement. Mais celui-ci a permis à l'Allemagne d'affronter la crise ayant débuté en 2008 en assez bonne forme. Le marché du travail avait été réformé et assoupli, la situation des comptes sociaux a été améliorée, entre autres en prolongeant la durée de la vie active ...

Concernant les critiques américaines, il est vrai que les déséquilibres au sein de la zone euro doivent être observés avec attention. Mais les excédents allemands sont tirés par les forces du marché ; c'est au marché de rééquilibrer cette situation. Et c'est déjà en cours. D'ailleurs, nous ne sommes pas dans un système mécanique où l'on pourrait redistribuer une partie des excédents allemands à des pays européens déficitaires. Vouloir affaiblir l'économie allemande, c'est faire abstraction de nos concurrents communs, notamment la Chine et les Etats-Unis. L'Europe n'est pas une île...

Le ministre des finances Wolfgang Schäuble s'est dit favorable à ce que les salaires augmentent davantage en Allemagne que dans le reste dans l'Union...

Quand l'Allemagne était vue comme l'homme malade de l'Europe, l'inflation allemande était en sous la moyenne européenne. Maintenant, la situation est tout autre. Le marché du travail allemand ne s'est jamais aussi bien porté depuis vingt ans. Dans ce contexte, il n'est pas anormal que l'on enregistre des augmentations de salaire plus fortes qu'auparavant.

Le mandat de la BCE impose de maintenir l'inflation sous les 2 % mais tout en restant proche de ce chiffre, dans l'ensemble de la zone euro. Cela veut dire qu'il peut y avoir une période où l'Allemagne se retrouve en dessus de la moyenne, mais cela ne concerne que les décimales. Il est crucial que les anticipations d'inflation restent fermement ancrées dans chaque pays de la zone euro.

François Hollande souhaiterait que la BCE soutienne davantage la croissance. Pouvez-vous envisager une évolution du mandat de la BCE ?

Le mandat est profondément enraciné et découle des leçons tirées dans les années 1970 et 1980. C'est quand elle assure la stabilité des prix qu'une banque centrale contribue le plus à une croissance durable. C'est justement pour cette raison que les banques centrales sont indépendantes et sont tenues par un mandat très clair.

Depuis le début de la crise financière, le bilan de l'eurosystème a plus que doublé, l'institution a pris des risques considérables pour éviter un effondrement du système. Nous sommes arrivés à la limite de notre mandat, notamment avec des mesures non conventionnelles. A la fin ce sont des risques pour les contribuables, notamment en France et en Allemagne.

La question est : quand franchit-on la ligne rouge entre politique monétaire et politique budgétaire ? Les responsables politiques comptent sur nous, car nous ne répondons pas devant les électeurs, mais c'est justement pour cette raison que notre mandat est limité et qu'il faut s'y tenir. Les gouvernements doivent assumer leurs responsabilités, ne pas les sous-traiter à la politique monétaire.

Outre-Atlantique, certains jugent que la BCE devrait acheter plus de dette d'Etat à l'instar de la Réserve fédérale américaine [Fed]. Mais nous ne sommes pas un Etat fédéral et la Fed n'achète pas de dette californienne ou de la Floride.

Paris pousse pour que le futur Mécanisme européen de stabilité ait une licence bancaire, ce qui lui permettrait d'accéder aux liquidités de la BCE. Pourquoi y êtes-vous opposé ?

Ma position est claire. D'abord parce que cela reviendrait à soumettre la politique monétaire à la politique budgétaire, ce qui nuirait grandement à la crédibilité de la BCE. Ensuite parce que le financement monétaire des Etats est, pour de bonnes raisons, formellement interdit par les traités.

Quelles ont été les plus grosses erreurs faites avant la crise ?

Les déséquilibres au sein de l'Union européenne ont été trop longtemps ignorés. Il y a aussi eu des déficiences comme l'assouplissement du pacte de stabilité par la France et l'Allemagne en 2003. Pendant longtemps, nous n'avons pas non plus voulu nous ingérer dans les statistiques nationales ; il faut pourtant plus de transparence. Certes, les risques dans le système financier ont été sous-estimés. C'est pourquoi nous devons améliorer la réglementation et la supervision des marchés financiers. Ce travail est en cours.

En décembre puis février, la BCE a injecté quelque 1 000 milliards d'euros dans le système via des prêts aux banques d'une durée inédite de trois ans. Quel bilan faites-vous de ces opérations, au moment où, sur les marchés, certains en réclament un troisième ?

Les marchés financiers changent de vision toutes les deux semaines. Un jour ils demandent toujours plus, l'autre jour ils se plaignent des conséquences de ce qu'ils ont obtenu. Un banquier central doit avoir sa propre boussole.

Ces prêts ont permis de gagner du temps, mais ne résolvent pas les causes structurelles de la crise. C'est comme de la morphine : ils soulagent la douleur, mais ne guérissent pas la maladie. Ils peuvent même avoir des effets secondaires, comme retarder les ajustements du secteur bancaire par exemple.

http://www.lemonde.fr/economie/article/ ... _3234.html
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