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Speciale lavoro e crescita

Forum per le discussioni sulle tematiche economiche e produttive italiane, sul mondo del lavoro sulle problematiche tributarie, fiscali, previdenziali, sulle leggi finanziarie dello Stato.

Re: Speciale lavoro e crescita

Messaggioda Robyn il 25/01/2012, 12:21

Mah prima o poi bisognerà riorganizzare il trasporto merci su ferrovia e organizzare i piccoli trasporti,dallo scalo all'utente finale.I trasportatori possono essere reimpiegati nella riorganizzazione del trasporto ferroviario.Infatti esiste troppo trasporto con autoarticolati che inquinano,sono pericolosi e provocano traffico e disagi
PS Dopo aver fatto le due grandi riforme "previdenza e mercato del lavoro",bisognerà pensare a come creare lavoro.Infatti se c'è creazione di lavoro ci sono più contributi versati e quindi più risorse per il welfare oltre che più gettito fiscale.Ma naturalmente và fatto tutto gradualmente bisogna cioè riordinare tutto in modo armonico"debito,spesa,welfare,etc"
ciao robyn
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Scalfari: Una lettera per la Camusso

Messaggioda franz il 30/01/2012, 10:21

Quando il sindacato mette al primo posto del suo programma la disoccupazione vuol dire che si è reso conto che il problema è angoscioso e tragico e che ad esso debbono essere sacrificati tutti gli altri obiettivi. Per esempio quello, peraltro pienamente legittimo per il movimento sindacale, di migliorare le condizioni degli operai occupati. Ebbene, se vogliono esser coerenti con l'obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati passa in seconda linea.

La politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta e il meccanismo della cassa integrazione dovrà esser rivisto da cima a fondo. Non possiamo più obbligare le aziende a trattenere un numero di lavoratori che supera le loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la cassa integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti. La cassa può assistere i lavoratori per un anno e non oltre salvo casi eccezionalissimi che debbono essere esaminati dalle commissioni regionali di collocamento. Insomma, mobilità effettiva della manodopera e fine del sistema del lavoro assistito in permanenza. Si tratta d'una svolta di fondo. Dal 1969 in poi il sindacato ha puntato le sue carte sulla rigidità della forza-lavoro, ma ora ci siamo resi conto che un sistema economico aperto non sopporta variabili indipendenti. I capitalisti sostengono che il profitto è una variabile indipendente.
I lavoratori e il sindacato, quasi per ritorsione, hanno sostenuto che il salario e la forza-lavoro sono variabili indipendenti. Sono sciocchezze perché in un'economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall'altra.
Se il livello salariale è troppo elevato rispetto alla produttività, il livello dell'occupazione tenderà a scendere e la disoccupazione aumenterà perché le nuove leve giovani non troveranno sbocco. Naturalmente non possiamo abbandonare i licenziati al loro destino. Il salto che si fa ammettendo il principio del licenziamento degli esuberi e limitando l'assistenza della cassa integrazione a un anno è enorme ed è interesse generale quello di non rendere drammatica ed esplosiva questa situazione sociale. Perciò dobbiamo tutelare con precedenza assoluta i lavoratori licenziati.

Alla base di tutto però c'è il problema dello sviluppo. Se l'economia ristagna o retrocede la situazione sociale può diventare insostenibile. La sola soluzione è la ripresa dello sviluppo. Quando si deve rinunciare al proprio "particulare" in vista di obiettivi nobili ma che in concreto impongono sacrifici, ci vuole una dose molto elevata di coscienza politica e di classe. Si è parlato molto, da parte della borghesia italiana, del guaio che in Italia ci sia un sindacato di classe. Ebbene, se non ci fosse un'alta coscienza di classe, discorsi come questo sarebbero improponibili. Abbiamo detto che la soluzione delle presenti difficoltà e il riassorbimento della disoccupazione sta tutto nell'avviare un'intensa fase di sviluppo. Per collaborare a questo obiettivo noi chiamiamo la classe operaia ad un programma di sacrifici, ad un grande programma di solidarietà nazionale.

Naturalmente tutte le categorie e tutti i gruppi sociali debbono fare altrettanto. Se questo programma non dovesse passare vorrebbe dire che avrebbero vinto gli egoismi di settore e non ci sarebbe più speranza per questo Paese.

* * *
Debbo a questo punto avvertire i lettori che il testo che hanno fin qui letto non l'ho scritto io e tanto meno il ministro Elsa Fornero, anche se probabilmente ne condivide la sostanza. Si tratta invece d'una lunga intervista da me scritta praticamente sotto dettatura di Luciano Lama, allora segretario generale della Cgil. Era il gennaio del 1978, un anno di gravi turbolenze economiche e sociali, che culminò tragicamente pochi mesi dopo col rapimento di Aldo Moro e poi con la sua esecuzione ad opera delle Brigate rosse.

Lama parlava in quell'intervista a nome della Federazione sindacale che vedeva uniti con la Cgil anche la Cisl, allora guidata da Carniti, e la Uil presieduta da Benvenuto. Il segretario generale aggiunto della Cgil era il socialista Ottaviano del Turco, tutto il ventaglio sindacale era dunque rappresentato dalle parole di Lama.
Quella stessa Federazione fu poi l'elemento fondamentale della lotta al terrorismo che trovò nelle fabbriche e nella classe operaia il più fermo baluardo contro le Br da un lato e contro lo stragismo di destra e dei "servizi deviati" che facevano capo a Gladio e alla P2.

Le contropartite che Lama e tutto il sindacalismo operaio chiedevano erano due, una economica e l'altra politica.
Chiedevano, e nell'intervista è detto con estrema chiarezza, una politica di sviluppo e di piena occupazione e chiedevano anche che il sindacato potesse dire la sua sui temi della politica economica, la politica degli investimenti e quella della distribuzione del reddito, cioè della politica fiscale.

Le linee di questo programma erano chiare fin da allora e furono perseguite negli anni successivi come risultò anche dalle interviste che ebbi con Lama nel 1980, nell'82 e nell'84. Eravamo diventati amici e con me si apriva con grande sincerità, ma ne parlava anche in interventi pubblici e nelle sedi confederali. Nell'84 la Federazione si ruppe. D'altra parte la mitica classe operaia si stava rapidamente sfaldando sotto l'urto delle nuove tecnologie produttive e dell'economia globalizzata e finanziarizzata.

Tanto più è apprezzabile oggi il tentativo che Susanna Camusso sta perseguendo - già iniziato a suo tempo da Guglielmo Epifani - di fare del sindacato un interlocutore essenziale del governo. Il governo Monti persegue una linea riformista e innovatrice, che trae dall'emergenza la sua investitura ma se ne vale per cambiare i connotati della società italiana, ingessata da molti anni dalle corporazioni, dai conflitti d'interesse a tutti i livelli, dalla partitocrazia prima e dal berlusconismo poi. L'emergenza economica impone al governo gravissimi compiti che producono una diffusa impopolarità e crescenti resistenze. In questa situazione un sindacato forte è l'interlocutore indispensabile a condizione che sia capace di darsi un programma nazionale (come Lama aveva detto nell'intervista sopracitata) che anteponga l'interesse generale del Paese al "particulare" delle singole categorie.

Perciò l'intervista di Lama dovrebbe essere riletta nel suo testo integrale dalla Camusso, da Bonanni e da Angeletti, perché è del sindacalismo operaio che si parla e del suo compito d'interprete delle esigenze dei lavoratori e dei pensionati ma anche del bene comune.

Naturalmente la situazione del 2012 non è quella del 1978. Sono cambiati gli elementi strutturali dell'economia e della politica; è cambiata la divisione internazionale del lavoro; è cambiato il capitalismo, si sono decomposte le classi, è affondato il comunismo reale. Quello che dovrebbe essere recuperato nella sua integrità è lo spirito della democrazia formale e sostanziale che si basa soprattutto su un principio: la sovranità del popolo è proporzionale ai sacrifici che gli interessi particolari sono chiamati a compiere in favore del bene comune. "No taxation without representation", questo fu il motto della nascente democrazia liberale inglese del diciottesimo secolo e questo dovrebbe essere anche il criterio d'una società come la nostra dove l'85 per cento delle imposte personali gravano sui lavoratori dipendenti e sui pensionati, dove il salario reale è eroso dal costo della vita in costante aumento e dove la ricchezza sfugge in gran parte al fisco. Sono 280 i miliardi che evadono secondo le stime dell'Agenzia delle entrate, e 120 i tributi non pagati.

I principali interessati al rinnovamento del Paese - ma meglio sarebbe dire alla rifondazione dello Stato - sono dunque i lavoratori dipendenti e i pensionati. Se saranno lungimiranti; se anteporranno l'interesse nazionale a quello particolare e quello dei figli a quello dei padri. Naturalmente ottenendo le dovute garanzie tra le quali quella che una volta tanto alle parole corrispondano i fatti e che l'equità impedisca la macelleria sociale.

* * *
La Cgil, ma anche la Cisl e la Uil, vogliono che l'agenda non sia scritta dal governo ma dai sindacati. Questa richiesta presuppone una forza che in questa situazione il sindacato non ha. Forse l'avrebbe se la crisi riguardasse soltanto l'Italia, ma riguarda il mondo intero, riguarda l'Europa e in generale i paesi di antica opulenza che sono costretti a confrontare i loro costi di produzione con quelli infinitamente più bassi dei Paesi di nuova ricchezza, i diritti sindacali con quelli di fatto inesistenti dei Paesi poveri, i diritti di cittadinanza con quelli anch'essi inesistenti dell'immensa platea dei migranti. Ecco perché l'agenda dei problemi, delle domande, delle richieste, non può essere scritta né dai sindacati né dai governi: è scritta dall'emergenza e dalla necessità di farvi fronte.

Noi siamo uno spicchio della crisi. Abbiamo fatto il dover nostro e il nostro interesse con la manovra sul rigore dei conti appesantiti da una mole di debito. Adesso è il momento della crescita e dello sviluppo. Non dipende solo da noi, lo sviluppo dell'economia italiana. Dipende dall'Europa ed ha del miracoloso il prestigio che il governo Monti ha recuperato dopo la decennale dissipazione berlusconiana. La crescita dipende in larga misura dalla produttività e dalla competitività del sistema Italia. Sono state entrambe imbrigliate dalle lobbies ma la produttività dipende da tre elementi: il costo di produzione (che è cosa diversa dal salario), la flessibilità del mercato del lavoro, la capacità imprenditoriale. Il sindacato può e deve favorire la flessibilità del lavoro in entrata e in uscita. Se farà propria la politica sindacale di Lama che la portò avanti tenacemente per otto anni, avrà fatto il dover suo.

La riforma della cassa integrazione è uno dei tasselli. Non piace alla Camusso e neppure alla Marcegaglia ed è evidente il perché. Infatti non potrà essere adottata se simultaneamente non sarà rinnovato e potenziato il sistema degli ammortizzatori sociali. In mancanza di questo il sindacato ha ragione di dire no per evitare quella macelleria che farebbe esplodere una crisi sociale estremamente pericolosa. Ma in presenza d'un meccanismo di protezione efficiente e robusto il sindacato dovrebbe farlo proprio e accettare la riforma della cassa integrazione.
Questi sono i termini del problema se il sindacato vorrà riassumere il ruolo di protagonista. Altrimenti decadrà al rango di lobby come l'avrebbe voluto e ancora lo vorrebbe l'ex ministro del Lavoro Sacconi. A Camusso, Bonanni e Angeletti la scelta.


(29 gennaio 2012) www.repubblica.it
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La risposta di Susanna Camusso

Messaggioda franz il 30/01/2012, 10:27

CARO DIRETTORE, nel suo editoriale di ieri Scalfari cita un'intervista a Luciano Lama, della quale si tralascia di ricordare le affermazioni sui profitti e sulla funzione "programmatica" dell'accumulazione che è fondamentale nel pensiero di Lama, e nella svolta dell'Eur.

La Cgil oggi, come Lama ieri, mette al centro occupazione e lavoro, ma mentre allora i salari crescevano, anche se molto erosi dall'inflazione, oggi siamo alla perdita sistematica del loro potere d'acquisto e ciò rappresenta una ragione importante della recessione in atto. La distribuzione del reddito tra profitti e retribuzioni non aveva lo squilibrio di oggi. Tutti, ormai, leggono in questa diseguaglianza la ragione profonda della crisi che attraversiamo e il motivo per cui le politiche monetariste non ci porteranno fuori dal guado.

La diseguaglianza è dettata dallo spostamento progressivo dei profitti oltre che a reddito dei "capitalisti", a speculazione (o si preferisce investimento?) di natura finanziaria. Così si riducono, oltre che la redistribuzione, anche gli investimenti in innovazione, ricerca, formazione e in prodotti a maggior valore e più qualificati.

Senza investimenti, si è scelto di produrre precarietà, traducendo l'idea di flessibilità invece che nella ricerca di maggior qualità del lavoro, di accrescimento professionale dei lavoratori, in quella precarietà che ha trasferito su lavoratori e lavoratrici le conseguenze alla via bassa dello sviluppo. In sintesi: lo spostamento sui lavoratori dei rischi del fare impresa.

Quale straordinaria differenza dal 1978! E ancora si potrebbe sottolineare che invece di avere attenzione ai redditi, si continua ad agire sulle accise, attuando una politica dei redditi senza nessun controllo dei prezzi.
Quanta disattenzione, poi, alle proposte vere della Cgil, quando indichiamo come priorità un Piano per il Lavoro, che per noi affronta i grandi temi del paese e interroga equità e crescita non come mantra per edulcorare, ma come scelte che devono intervenire sulla responsabilità e i comportamenti di ciascuno, se si vuole dare senso alla riduzione della diseguaglianza e riparlare di futuro.

Il Piano del Lavoro si misura con la funzione dell'intervento pubblico, troppo facilmente archiviato dal liberismo e dai suoi effetti evidenti, sulla funzione del welfare come motore di uno sviluppo attento alle persone e non mera "assicurazione" o costo, sulla funzione dello sviluppo che ha esaurito la spinta propulsiva del puro consumismo.

Ancora, un Piano del Lavoro per giovani e donne del nostro paese a cui non possiamo solo raccontare che avranno meno tutele perché i padri gli avrebbero mangiato il futuro. Un Piano per il Lavoro che voglia bene al nostro paese, non solo perché la Cgil (per troppo tempo da sola) ha indicato che non fare politiche industriali e di sistema ci avrebbe portato al declino, ma perché non ci sfugge il pericolo economico e democratico di una crisi prolungata di cui la disoccupazione è primo indicatore.

A noi è chiara l'emergenza così come la necessità di una nuova idea di sviluppo. Per questo, voler bene al paese e voler attivare i giovani, o meglio riconoscergli l'età adulta, può partire dalla scelta pubblica e politica di un Piano del Lavoro.

Un Piano per il Lavoro guarda, ovviamente, all'immediato e alla capacità di programmare. In questo quadro intende affrontare anche i nodi della produttività, della contrattazione, della rappresentanza, del mercato del lavoro, e soprattutto del fisco.

Il coro sull'importanza del rilancio della produttività trascura di cimentarsi con le cause del suo declino in Italia. O inventa cause di comodo: qualcuno arriva a teorizzare l'assurdità che sarebbe per colpa dell'articolo 18. Al contrario, la produttività nel nostro paese decresce al crescere della precarietà, che non ha neanche incrementato l'occupazione, producendo, invece, quel lavoro povero su cui sarebbe bene interrogarsi.

Per noi l'urgenza è la riduzione della precarietà che viene prima, molto prima, di altri temi. Nella riduzione della precarietà vi è compresa certamente la riformulazione degli ammortizzatori, su cui da tre anni abbiamo proposto una riforma. Vorrei poi ricordare che la mobilità annunciata dall'intervista di Lama è realtà da molti anni, che la Cigs ha la durata di un anno rinnovabile a due, che comunque ha un tetto, come pure la Cig ordinaria, in ogni quinquennio, che una stagione di riorganizzazione del sistema produttivo non deve disperdere professionalità e competenze. Oppure si deve ritenere che la società della conoscenza è solo dei manager? Credo che sarebbe bene per tutti, discutere fuori dai pregiudizi e dagli slogan facili, e non confondere l'emergenza con l'idea che "qualunque cosa può essere fatta".

Siamo i primi ad apprezzare che l'Italia sia tornata al tavolo dei grandi, a sostenere sforzi per far ripartire il paese, ma se ogni scelta presenta il conto solo al lavoro (nella finanziaria la cassa sulle pensioni; nelle liberalizzazioni il contratto ferrovie e l'equo compenso dei tirocinanti, ad esempio), abbiamo il legittimo dubbio, anzi la certezza, che si affronta il " nuovo" con uno strumento antico e che il fine non sia far ripartire il paese, ma "salvare il soldato Ryan". Se sarà così, non si salverà l'Italia ma una sua piccola parte, che forse non ha bisogno di salvarsi, perché lo fa già tra evasione, sommerso e lobbismo di ogni specie.

Questa è un'ipotesi cui non intendiamo rassegnarci. Siamo seriamente impegnati al confronto su crescita e mercato dal lavoro: l'abbiamo preparato con un documento unitario, abbiamo guardato ai modelli europei, fra cui la Germania che usa l'orario ridotto finanziato dallo stato e non licenzia. Ci siamo trovati di fronte ad un documento del ministro, non condiviso da nessuno. Senza nostalgie di nessun tipo pensiamo sia utile proporre un negoziato vero e non affidarsi a ricette preconfezionate il cui fallimento è nei numeri della precarietà e della disoccupazione, a partire dai settecentomila posti di lavoro persi dell'industria in cinque anni.
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La risposta del governo

Messaggioda franz il 30/01/2012, 10:32

La riforma
Nuovi assunti senza articolo 18
ma in cambio addio al precariato

Il governo sposa la linea Bce. Dimezzata la norma anti-licenziamenti. Non cambia nulla per gli attuali occupati. Passera: "Affronteremo anche il problema della flessibilità in uscita e vi sorprenderemo" di ROBERTO MANIA
ROMA - "Affronteremo tutti i problemi. Anche quello della flessibilità in uscita. E vi sorprenderemo". Corrado Passera, ministro dello Sviluppo economico, parla nella freddissima Davos, davanti ai potenti dell'economia globale. E' lo scorso giovedì, il tema della tavola rotonda è "Future of Italy". Il ministro, ex banchiere, sa benissimo che sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non saranno ammessi bizantinismi. Servono soluzioni chiare, non necessariamente traumatiche. Comunque comprensibili in Europa.

Ad agosto la Bce (la Banca centrale europea, ora presieduta dall'italiano Mario Draghi) aveva indicato tra "i compiti a casa" anche quelli di superare, da una parte, il dualismo nell'attuale mercato del lavoro italiano, e, dall'altra, l'anomalia del reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa.

La lettera arrivata da Francoforte resta un vincolo forte per il governo tecnico di Roma. Lo ha detto più volte il ministro del Lavoro, Elsa Fornero; l'ha confermato il premier Mario Monti quando ha sostenuto che non possono esserci tabù nel momento in cui si avvia un negoziato per la riforma del mercato del lavoro; l'ha ripetuto Passera a Davos. Perché la globalizzazione è entrata nelle relazioni industriali. Non c'è solo il caso Fiat-Chrysler di Sergio Marchionne.

E' stato Vittorio Colao, amministratore delegato della Vodafone, a sollevare la questione a Davos. Il manager italiano trapiantato a Londra ha ricordato cheun gruppo come il suo può decidere dove aprire un call center. Può installarlo in Italia, oppure in Egitto, per esempio. Dipende dalle condizioni, dagli eventuali vantaggi fiscali, dalle potenzialità della manodopera, e dalla possibilità di programmare con certezza i costi che riguardano anche la flessibilità in uscita. Ed è qui che Passera ha risposto che il tema non sarà eluso, perché il recupero degli investimenti esteri in Italia (crollati dall'inizio della crisi del 2008), indispensabili per sostenere la crescita del Pil, si gioca pure su questo terreno, quello delle flessibilità del lavoro.

E c'è una via d'uscita che, a questo punto, sembra la più probabile, almeno da quel poco che trapela dalle stanze del governo e dai rapporti informali con le parti sociali. E' una via all'insegna dell'equilibrismo, tra ostacoli sindacali, pressione delle imprese, preoccupazione opposte dei partiti che sostengono l'esecutivo, vincoli europei.

L'articolo 18 non sarà toccato per i lavoratori che oggi ne sono tutelati. Questa, ormai, sembra una certezza. E Monti l'ha detto anche nel suo discorso programmatico in Parlamento. Cgil, Cisl e Uil, inoltre, non potrebbero mai far passare una riduzione delle protezioni per chi le ha, tanto più che si tratta di una quota di lavoratori che costituisce la maggior parte dei loro iscritti, gli stessi che hanno già subìto il superamento delle pensioni di anzianità e l'allungamento dell'età per l'accesso alla pensione di vecchiaia.

Si profila, invece, uno scambio per i giovani precari, categoria centrale nell'approccio del governo alla riforma. Il tracciato potrebbe essere più o meno questo: per chi viene assunto con un contratto a tempo indeterminato, provenendo dal bacino della precarietà (a cominciare dai contratti a termine) non sarebbe previsto il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa (è quanto stabilisce l'articolo 18 che viene considerato un'anomalia tra i paesi europei) bensì un risarcimento economico (esattamente ciò che suggeriva la Bce nella lettera estiva). L'ammontare del risarcimento crescerebbe con l'anzianità di lavoro. Resterebbe in ogni caso il divieto di licenziamenti discriminatori legati al sesso, alla religione, alla razza e così via.

Con un articolo 18 dimezzato, le aziende non avrebbero più l'alibi secondo il quale non si può assumere perché poi sarebbe impossibile sciogliere il vincolo con il lavoratore. I sindacati potrebbero accettare un meccanismo che già oggi si adotta per i lavoratori delle piccole imprese nelle quali, appunto, l'articolo 18 non si applica, e questa potrebbe essere una prima pietra per avviare l'uscita dalla precarietà dei giovani. A nessun lavoratore attualmente occupato verrebbe tolto un diritto. E il governo risponderebbe alle richieste della Bce. Sorprendentemente, per usare l'espressione di Passera.

Ma le incognite restano comunque tante. Perché troppo delicato è il tema dell'articolo 18, perché non è detto che i partiti restino a guardare, perché la tenuta dell'unità sindacale è sempre a rischio, perché, infine, il fronte delle imprese è già diviso, come sempre tra "falchi" e "colombe".


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Le riflessioni di Pietro Ichino

Messaggioda franz il 30/01/2012, 11:25

GLI OBIETTIVI ENUNCIATI DAL GOVERNO PER LA RIFORMA DEL LAVORO SONO DIFFICILMENTE DISCUTIBILI, MA SINDACATI E CONFINDUSTRIA SEMBRANO PREFERIRE CHE NON SE NE FACCIA NIENTE

Editoriale per la Newsletter n. 185, 30 gennaio 2012 – In argomento v. anche gli articoli di fondo di Eugenio Scalfari su Repubblica (Una lettera per Susanna Camusso) e di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera (Sul lavoro Monti si gioca il posto) del 29 gennaio.

Sostiene Mario Monti (Senato, 17 novembre, e conferenza stampa di fine anno) che occorre voltar pagina rispetto alla grave disparità fra lavoratori protetti e lavoratori poco o per nulla protetti, almeno per i rapporti di lavoro che si costituiranno da qui in avanti (per esempio, contrastando l’abuso delle collaborazioni autonome nell’area del lavoro dipendente). C’è qualcuno che dissente rispetto a questo obiettivo?

Sostiene Mario Monti (Senato, 17 novembre, e TG1, 28 gennaio) che occorre aumentare la protezione della dignità, della libertà e della sicurezza economica e professionale di ciascuna persona nel mercato del lavoro, ma che questo non significa garantirne l’inamovibilità, bensì aumentarne la capacità di muoversi nel mercato stesso. C’è qualcuno che dissente su questo punto?

Sostiene il ministro Elsa Fornero (incontro con le parti sociali, 23 gennaio) che occorre rafforzare nell’entità e nella durata e rendere universali le garanzie per chi perde il posto di lavoro, ma che per questo non si deve utilizzare impropriamente la Cassa integrazione, strumento concepito per tenere legati i lavoratori alle imprese da cui dipendono nei casi di difficoltà temporanea. C’è davvero qualcuno che può ragionevolmente sostenere il contrario?

Sostiene, ancora, il ministro Elsa Fornero (stesso incontro con le parti sociali) che, laddove un’impresa sia disponibile a impegnarsi, nei confronti di tutti i nuovi dipendenti, a garantire loro per il caso di licenziamento un sistema di protezione economica e professionale di livello scandinavo, varrebbe la pena di sperimentare se e come la cosa funziona; e che comunque la condizione dei neo-assunti sarebbe in questo caso migliore di quello che si offre loro oggi nel nostro mercato del lavoro. C’è davvero qualcuno che può ragionevolmente sostenere il contrario?

Se, come credo, su nessuno di questi punti-cardine del programma di politica del lavoro del Governo c’è qualcuno che possa ragionevolmente dissentire, perché sindacati e Confindustria manifestano tanta diffidenza e apprensione per questo capitolo dell’agenda delle prossime settimane? Perché, invece, non si rimboccano le maniche per vedere come realizzare ciascuno di questi obiettivi?
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Re: Speciale lavoro e crescita

Messaggioda flaviomob il 30/01/2012, 15:04

http://dirittiglobali.it/home/categorie ... voro-.html

di TITO BOERI

(lungo, riporto l'ultima parte ma consiglio la lettura integrale)

[...]

Un salario minimo orario non costerebbe nulla alle casse dello Stato. Servirebbe molto a proteggere i lavoratori più deboli negli anni ad alta inflazione che presumibilmente ci stanno di fronte. In Italia il salario minimo favorisce anche il decentramento della contrattazione, che permette di stabilire un legame più stretto fra salari e produttività, motivando di più i lavoratori che hanno già un contratto a tempo indeterminato e che continueranno ad essere protetti dalle tutele attuali. Prospettare un percorso di ingresso nel mercato del lavoro che non comporti in partenza una data di scadenza stimola, questo sì, gli investimenti in formazione: la percentuale di lavoratori formati in azienda cresce con la durata potenziale dei contratti. Avere nei primi anni di assunzione risarcimenti monetari in caso di licenziamento senza giusta causa, crescenti col tempo passato in azienda, offre tutele a chi oggi non ne ha e non ne toglie a chi le ha già. Al contempo serve a permettere ai datori di lavoro di scegliere meglio chi assumere, su chi investire, migliora il clima in azienda scoraggiando i comportamenti opportunistici. Questo percorso di ingresso va peraltro offerto a tutte le età, a 20 anni come a 55. Come dimostrano l´esperienza dell´Austria e della Francia, la scelta di far crescere i costi di licenziamento con l´età (anziché con la durata del posto di lavoro) fa aumentare la disoccupazione fra i lavoratori più anziani. Perché datori di lavoro già diffidenti sulla produttività di questi lavoratori, non sono in genere propensi a prendere impegni di lungo periodo con lavoratori vicini all´età di pensionamento. Il contratto di ingresso servirà così anche a dare opportunità e tutele ai lavoratori bloccati dalla riforma delle pensioni varata dal Governo in dicembre. Sarebbe pure servito anticipare per queste coorti limitate di lavoratori la riforma degli ammortizzatori sociali, offrendo a chi è povero in famiglia, non trova un lavoro alternativo e ha esaurito le indennità di mobilità e i sussidi di disoccupazione, un reddito minimo garantito fino, e se necessario oltre, l´andata in pensione. Sarebbe stata un´utile sperimentazione di una riforma da estendere gradualmente a tutti e un primo passo verso quella separazione fra previdenza e assistenza che tutti, a parole, dicono di volere. Invece si è scelta la strada degli interventi ad hoc per i lavoratori "esodati" e "precoci", una strada inevitabilmente iniqua perché crea asimmetrie nei trattamenti a seconda del periodo in cui si è entrati nelle liste di mobilità.


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Re: Speciale lavoro e crescita

Messaggioda Robyn il 30/01/2012, 15:17

L'art 18 è scritto all'incontrario perche parla di licenziamento del lavoratore quando invece dovrebbe parlare dei casi in cui c'è il reintegro del lavoratore,che sono i casi di discriminazione e i casi pretestuosi.La giusta causa e il giustificato motivo soggettivo parlano di scemenze come le singole infrazioni ai fini di una valutazione globale,l'insubordinazione,l'assenza ingiustificata e non hanno niente a che fare con le crisi aziendali per cui non mi pare il caso neanche a parlarne di giusta causa e giustificato motivo soggettivo.In realtà è la magistratura che deve fare una rivoluzione culturale"reintegrazione per caso di disciminazione","reintegrazione per caso pretestuoso".In realtà andare ad agire sulla giusta causa si nascondono forme di estremismo come sono forme di estremismo tre anni di prova,quando ne bastano due
ciao robyn
Ultima modifica di Robyn il 30/01/2012, 22:49, modificato 3 volte in totale.
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Re: Speciale lavoro e crescita

Messaggioda franz il 30/01/2012, 17:11

Tito Boeri ha scritto:Un salario minimo orario non costerebbe nulla alle casse dello Stato. Servirebbe molto a proteggere i lavoratori più deboli negli anni ad alta inflazione che presumibilmente ci stanno di fronte. In Italia il salario minimo favorisce anche il decentramento della contrattazione, che permette di stabilire un legame più stretto fra salari e produttività, motivando di più i lavoratori che hanno già un contratto a tempo indeterminato e che continueranno ad essere protetti dalle tutele attuali.

Sono ampiamente d'accordo sul concetto di reddito mimimo e segnalo che a proposito esiste anche una proposta di iniziativa popolare fatta da democraziaelegalità (In pratica Elio Veltri) che potete leggere qui http://www.legalitademocrazia.it/led/le ... colato.pdf
In quella proposta si riconosce che, cito, "Noi riteniamo che il reddito minimo debba aggirarsi attorno ai 900 - 1000 euro al mese in relazione al costo della vita che cambia da regione a regione per cui la facoltà di integrazione, in una organizzazione federale dello Stato, viene demandata alle singole regioni che utilizzando gli osservatori riescono a decidere con cognizione di causa". Sono d'accordo e direi inoltre che visto che in alcune regioni le differenze provinciali sono notevoli, probabilmente è piu' saggio ed equo demandare alla provincie e forse anche ai comuni, quel calcolo.
Ma che dire allora del salario minimo? La proposta di Veltri afferma: "Viene istituito il salario minimo di almeno 10 euro lordi l’ora, con maggiorazioni per le ore supplementari e straordinarie da applicare a tutte le prestazioni lavorative non contrattualizzate e a tutti i contratti precari per i quali non esiste a livello contrattuale la definizione di uno stipendio- salario mensile continuativo: lavoratore occasionale,stage,cococo, a progetto, interinale, apprendista a termine, stagionale. A prescindere dall’attività svolta la prestazione viene pagata con una cifra che non può essere inferiore ai 10 euro all’ora."

Qui pero' non si pongono il problema di capire se 10 euro lordo all'ora (che in Italia sono circa 5 netti) siano equi ad enna come a varese. Il concetto che afferma un legame tra prestazioni minime e costo locale della vita non puo' essere valido solo per il reddito minimo ma anche per minimi salariali. Ma qui immagino inizieranno i mal di pancia di chi non vede di buon occhio che le famigerate gabbia salariali rientrino dalla finestra. Eppure se non faremo cosi' cosa succederà? Che quel minimo sarà eccessivo nelle zone povere e insufficente nelle ricche. Totale, vero che non crea onere per lo stato ma non servirà a nulla, se non espellere dal mondo del lavoro e ricacciare nel sommerso tutte le lavorazioni che non sono economiche alla cifra di 10€ lordi/ora.

Il risultato non sarà quindi un incremento del reddito di chi è vicino alla povertà ma un aumento della povertà stessa. Chi è già in nero oggi (come le operaie di Barletta che lavoravano a 32 euro al giorno) continuerà ad esserlo e certi lavori che potevano essere fatti a meno di 10 euro verranno sopressi o dventeranno sommersi. Da notare che 10€/h sono 1760€ lordi (azienda) al mese circa. Il meccanismo perverso da combattere è che questi 1760 diventino netti meno di 900. Io piu' che ipotizzare redditi minimi, cambierei le aliquote INPS in modo che invece del 33% di prelievo esso sia assente per i primi 500 euro lordi, sia del 15% da 501 a 1000 e arrivi al 33% con gradualità solo quanto il reddito lordo (azienda) supera i 2000 euro. Questo si' che sarebbe una formidabile operazione di contrasto all'evasione contributiva.
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Re: Speciale lavoro e crescita

Messaggioda Robyn il 31/01/2012, 12:30

Bisogna fare delle scelte <<chiare>>.La proposta del reddito minimo vitale garantito sù elencata è una bella proposta da applicare in tutta la sua interezza soprattutto se pensiamo a chi vive con redditi e pensioni molto basse che deprimono la domanda.Il reddito minimo non può essere inferiore ai 1000 euro,ma allo stesso tempo bisogna evitare che le aziende portino a ribasso i redditi che poi verrebbero integrati al minimo,perchè costerebbe di più ed in questo esiste il ccnl che regola "bisogna vedere come funziona in Francia".Per quel che riguarda la flessibilità in uscita la modifica dell'articolo 18 riguarderebbe solo i nuovi assunti in cui non c'è il reintegro mentre gli altri che già sono protetti da quest'articolo non sarebbero toccati.In questo caso "per i nuovi assunti" l'unico freno al licenziamento sarebbe costituito dalla penalità di 15 mensilità o più.In sostanza significa che se si và a lavorare sù un'azienda e si subisce un licenziamento per motivi pretestuosi,il lavoratore ha sbagliato azienda, non ha trovato l'azienda giusta,ma può sempre far ricorso e far sanzionare l'azienda nel caso il licenziamento fosse pretestuoso anche se non c'è il reintegro.Per fare scelte chiare le parti sociali devono deporre tutti i veti anche perchè se è vero che la modifica dell'art 18 non crea lavoro e pur vero che la rigidità in uscita impedisce le assunzioni a tempo indeterminato anche se queste sono possibili ciao robyn
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Re: Speciale lavoro e crescita

Messaggioda franz il 31/01/2012, 17:21

Robyn ha scritto:Bisogna fare delle scelte <<chiare>>.La proposta del reddito minimo vitale garantito sù elencata è una bella proposta da applicare in tutta la sua interezza soprattutto se pensiamo a chi vive con redditi e pensioni molto basse che deprimono la domanda.Il reddito minimo non può essere inferiore ai 1000 euro,ma allo stesso tempo bisogna evitare che le aziende portino a ribasso i redditi che poi verrebbero integrati al minimo,perchè costerebbe di più

Non solo le aziende ma ogni evasore, totale o parziale, ogni nullatenente vero o finto. E tanti pensionati che 1000 euro non li vedono nemmeno con il binocolo.
Una procedura di reddito minimo non puo' essere erogata a pioggia ma va vista e analizzata caso per caso, a livello comunale, altrimenti diventa un'arca di Noè per furbi.
Naturalmente bisogna anche definire a chi dare un reddito minimo: alle persone o alle famiglie?

Se lo diamo alle persone, in Italia abbiamo circa 30 milioni di persone senza reddito, che non dichiarano nulla, su 60 milioni e rotti (dati 2009 da http://www.comuni-italiani.it/statistic ... r2009.html ). Considerati circa 10.1 milioni di minorenni, quindi in carico a qualcuno come sostentamento, abbiamo 50.2 milioni di adulti (il corpo elettorale) di cui 19.4 risultano ufficialmente senza reddito (non lavorano e non sono pensionati, nemmeno con la sociale). Dar loro 12'000 euro l'anno (netti e senza tredicesima) costa 232 miliardi, ... non so se mi spiego. Poi ci sono quelli che dichiarano reddito ma insufficente e non arrivano a 12'000 euro l'anno. Sono il linea di massima il 15% dei 30.8 milioni di persone che dichiarano reddito, e quindi 4.6 milioni di persone a cui occorre un'integrazione per arrivare a quel reddito minimo.

Se invece ci riferiamo ai 25 milioni di famiglie le cose cambiano. Perché magari in famiglia qualcuno guadagna, poco o tanto ma il reddito minimo di una famiglia di 4 persone (due adulti e due bambini) è maggiore di quello di un singolo adulto. 1000 non bastano.
Per esempio se ipotizziamo 1000 al mese per un adulto, due adulti necessitano di 1800, + 300 per ogni figlio. Ma chi controlla se veramente quella famiglia guadagna meno di 2'400? quanto varrebbe il reddito minimo di un simile nucleo familiare? E il reddito è quello vero? Consideriamo che sulla base delle dichiarazioni ufficiali dei redditi in sicilia, la popolazione appare avere un reddito medio procapite di 7.747 euro (stesso link di prima) mentre sul fronte dei consumi (vedere qui: http://www.urbistat.it/it/economia/consumi/sicilia/19/2 ) siamo di fronte a consumi procapite di 11.556,76 euro. Molto vicini ai 12'000 euro di cui si parla. Mi sa che gli italiani il reddito minimo, nel senso di integrare il reddito ufficliale con altre "cose" se lo sono già fatto .... :o con l'evasione. E anche la Lombardia non scherza, con 14'800 euro di reddito procapite e spese di 18'400. Sul piano metodologico si potrebbero togliere dalla spese i fitti imputati (http://www.regione.emilia-romagna.it/wc ... putato.htm) ed aggiungerli al reddito disponibile (come in effeti si fa dove si calcola il reddito minimo) ma mancano sempre migliaia di euro che provengono ovviamente o dal sommerso o dal consumo di risparmi.
Difficile quindi la strada del reddito minimo. Io la sostengo ma avremo a che fare con un esercito di richiedenti che intanto arrotondano in nero.
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