da soniadf il 11/09/2010, 18:39
Qualche sera fa, sulla 7, a Lerner che dichiarava che la seconda Repubblica aveva ampliato il tasso di disuguaglianza nel Paese, il leghista Castelli replicava che si era però accresciuto il tasso di longevità, ascrivendone il merito al governo (sic).
Una risposta del genere sarebbe degna di uno spettacolo di satira, ma agghiacciante è stata l’impudenza con la quale è stata pronunciata, nella consapevolezza che sarebbe passata come un’argomentazione seria.
La stessa impressione mi suscita l’elencazione dei progressi dell’umanità, dall’uomo delle caverne in poi, per sostenere la tesi che il liberalismo, anche quando non era ancora stato inventato, è il motore supremo che ci ha condotto all’attuale benessere e che qualche piccola distorsione sul piano dell’eguaglianza e dei diritti civili non ci deve far perdere di vista che, perbacco, siamo stati tirati fuori dalle caverne.
La produzione di ricchezza ha avuto tutta una storia di modalità e di sistemi, che si sono susseguiti, portando evoluzioni e sviluppo sociale, ma non possiamo assumere che il feudalesimo fosse un buon sistema perchè ai tempi dell’ impero vigeva ancora lo schiavismo, o che la monarchia assoluta fosse migliore delle città-stato perché i sudditi del diciassettesimo secolo vivevano più a lungo dei cittadini del tredicesimo secolo.
E’ un modo per far assumere all’economia quel ruolo centrale che si contesta nelle tesi marxiste e per raccontare un mondo unidimensionale, giustificazionista di qualsiasi presente.
Per alcuni, i nuovi super-eroi, gli aristocratici del ventunesimo secolo, sono i managers e gli imprenditori, che maneggiano investimenti miliardari e ricattano governi e sindacati per il raggiungimento di una competitività, ottenuta tutta sulle spalle della collettività che li ospita.
Perché c’è sempre un modo per giustificare l’esistente, prima che qualcuno indichi finalmente che il re è nudo.
Sostenere che lo stato si deve fare da parte per consentire una totale libertà di manovra a questi supposti investitori e produttori di ricchezza per tutti è una favola pericolosa, come lo era quella comunista, in cui la proprietà dei mezzi di produzione riservata allo stato doveva garantire il benessere per tutti.
Ci vuole una specie di stolta irresponsabilità nel ritenere che la ricchezza cada come manna dal cielo, riversata su tutti per il solo fatto di essere prodotta, quando proprio la storia ci ha insegnato che non è così, anzi che qualcuno ha pagato molto duramente la possibilità di pochi di arricchirsi.
Gli stipendi stratosferici dei managers sono giustificati unicamente dalla posizione di forza che sono riusciti a ritagliarsi nel sistema, come ingranaggi indispensabili, indipendentemente dai risultati che riescono ad ottenere, ma forti di una capacità decisionale dagli effetti teoricamente formidabili.
Artisti e sportivi sono valutati sulla base del talento e della fama, ma hanno molte minori possibilità di bluffare, scadendo velocemente dalle posizioni di vertice, se non dimostrano sul campo le loro qualità.
In entrambi i casi, però, la valutazione delle prestazioni è comunque esorbitante perché esorbitante è il contesto in cui operano, settori privilegiati per antonomasia, vette di categoria, l’olimpo del sistema sociale di questo scorcio di storia.
In questo forum c’è sempre qualcuno che chiede di indicare soluzioni, tacciando chiunque di astrattezza e di infantilismo (anche la ripetitività senile è fastidiosa) se non stila tutto l’elenco dei correttivi che la politica ha elaborato per salvaguardare le componenti più deboli del sistema.
Perché il problema è sempre quello, cercare di rendere meno aspro il vantaggio che una parte detiene (in virtù dei diritti di nascita, di classe, di capitale) rispetto alle altri componenti della società.
Porsi questo problema sarà anche infantile, ma segna la crescita vera, quella che ci avvicina ad una società giusta, non solamente più ricca o più longeva.
Soniadf